Blog di Luciano Muhlbauer
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 14/12/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 1118 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 14 dic. 2007 (pag. Milano)
 
Quanto è lontana la Svizzera da Milano! Proprio ieri il parlamento elvetico, con il voto determinante di una parte del centrodestra, ha deciso l’esclusione dal governo dello xenofobo Cristoph Blocher, nonostante la sua affermazione elettorale. Qui invece, nella città che si pretende europea, anzi cosmopolita, e sede dell’Expo 2015, il Sindaco Moratti ha annunciato che domenica marcerà insieme alla Lega e ai suoi sindaci, protagonisti della campagna xenofoba a suon di ordinanze.
Non siamo ingenui e siamo quindi consapevoli che la resa dei conti all’interno della ex-Casa delle libertà contempli l’utilizzo di ogni mezzo disponibile. E non ci sorprende nemmeno che una An in evidenti difficoltà, i neofascisti del duo Storcace-Santanché e certi politici buoni per tutte le stagioni, come Tiziana Maiolo, corrano dietro alla manifestazione leghista di domenica. Ma che lo intenda fare persino il Sindaco è un fatto grave e senza precedenti.
Il Sindaco non è un politico qualsiasi. E’ certamente espressione di una parte politica ed è vincolato al suo programma elettorale, ma una volta entrato in carica assume anche una rappresentanza più ampia, cioè, nel nostro caso, di tutta la città di Milano. E tanto più grande e importante è la metropoli, quanto più significativa è la sua responsabilità politica e istituzionale.
Eppure, come se fosse la cosa più normale del mondo, Lady Moratti abbraccia la piazza e la causa degli epigoni padani di Blocher, che appunto si mobilitano per imporre anche a Milano le ordinanze dei sindaci-sceriffi di Cittadella e Caravaggio. Ordinanze, tanto per ricordarcelo, che con la sicurezza non c’entrano un fico secco, ma che in cambio alimentano ulteriormente quel fiorente mercato della politica poltiglia, chiamato “percezione di insicurezza”, fornendogli nuovi e facili nemici.
Siamo turbati e stupefatti di fronte al comportamento del Sindaco Moratti, che a quanto pare non riesce più a cogliere la differenza tra governare una metropoli come Milano, con le sue tradizioni di civiltà e democrazia, e una cittadina della profonda provincia del Mississippi.
Ma siamo altrettanto preoccupati di fronte all’inconsistenza politica delle reazioni finora manifestatesi. E non ci riferiamo soltanto alla timidezza delle opposizioni, ma anche all’assenza di fatti concreti da parte di quei moderati del centrodestra che a parole si dicono contrari all’ennesimo salto di qualità nella caccia alle streghe.
Chiediamo pertanto, a chi di dovere, di impegnarsi affinché domenica non si compia lo scempio di un Sindaco di Milano che marcia dietro i nuovi vessilli della xenofobia militante.
Insomma, se non riusciamo proprio più ad essere milanesi, almeno cerchiamo di assomigliare un po’ più alla Svizzera e un po’ meno al Mississippi.
 
 
di lucmu (del 11/12/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 1772 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto dell’11 dic. 2007 (pag. Milano)
 
L’iniziativa congiunta di associazioni e sindacati sulla questione rom a Milano, presentata ieri alla Camera del Lavoro, è una preziosa boccata d’ossigeno, specie in questo momento, in cui stanno per sbarcare anche a Milano le ordinanze xenofobe provenienti dai comuni di Cittadella e Caravaggio.
Finalmente una parte importante della società civile milanese ha deciso di rompere quell’assordante silenzio, che ha consegnato la città alla peggior demagogia e alimentato pericolosamente la “percezione di insicurezza” dei cittadini.
Pensiamo che sia giunto il momento che qualcuno chieda conto agli amministratori milanesi del loro operato nei confronti dei rom presenti sul nostro territorio. Il bilancio di oltre un anno di interventi repressivi e demolizioni è, infatti, pesantemente negativo e l’unico risultato concreto sta nell’aver introdotto a Milano il nomadismo coatto degli sgomberi.
Ma forse tutto questo fa comodo al centrodestra, più interessato a coccolare e coltivare le percezioni di insicurezza, piuttosto che a occuparsi dei problemi e delle macerie di 15 anni di abbandono delle periferie popolari. Dall’altra parte, ora che anche buona parte del Piddì veltroniano ha sposato la linea del “dagli addosso allo sfigato”, perché dovrebbero cambiare strada?
Ieri a Milano sono successe due cose: da una parte, un cartello di associazioni ha formulato delle proposte concrete e alternative alla psicosi securitaria e, dall’altra, la giunta Moratti sta pensando di riprodurre le misure anti-stranieri di Cittadella e Caravaggio. Due strade diverse e opposte, che rappresentano bene le scelte possibili da fare nella nostra città per il futuro.
Invitiamo pertanto tutte le forze di sinistra e democratiche della nostra città a sostenere l’iniziativa delle associazioni e a contrastare, senza ambiguità, la deriva xenofoba che le destre tentano di imporci.
 
qui puoi scaricare il documento delle associazioni
 

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di lucmu (del 06/12/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 943 volte)
La legge regionale n. 6/2006 sui phone center, fortemente voluta da Lega e An, ha già provocato la chiusura di numerosissime attività. Infatti, lungi dall’essere una semplice regolamentazione di un settore commerciale, essa si configura piuttosto come un atto deliberato e xenofobo contro un settore economico dove molto forte è la presenza della piccola imprenditoria immigrata.
Non a caso, tutte le sezioni del Tar della Lombardia hanno già emesso delle sentenze che danno ragione ai ricorrenti e sollevato la questione dell’illegittimità presso la Corte Costituzionale. Ma non basta, quattro mesi fa era intervenuta persino l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, chiedendo formalmente a Regione Lombardia di modificare la legge in almeno due punti fondamentali.
Ciononostante, il centrodestra lombardo continua allegramente a fare orecchie da mercante, accusando il Tar di ingerenza e non sentendo nemmeno il bisogno di rispondere all’Autorità garante. Non c’è male per un Presidente e una coalizione che del libero mercato hanno fatto la loro bandiera. Ma si sa, qualcuno è sempre più libero degli altri e se poi sei immigrato, allora bisogna accontentare anzitutto la demagogia di Lega e An.
Per questo oggi abbiamo presentato un’interpellanza al Presidente Formigoni, chiedendogli di rispondere alle osservazioni e agli inviti dell’Autorità garante.
 
qui puoi scaricare il testo dell’interpellanza e la segnalazione dell’Agcm

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di lucmu (del 20/09/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 894 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 20 sett. 2007 (pag. Milano)
 
L’inverno scorso, nella città di Opera, alle porte di Milano, si consumò qualcosa di inquietante. Un gruppo di cittadini inferociti per la presenza temporanea di alcune famiglie rom e abilmente strumentalizzati da esponenti leghisti e di estrema destra, prima diede fuoco alle tende della protezione civile, poi sostenne un prolungato assedio al campo e, infine, riuscì ad averla vinta. In altre parole, le istituzioni e la civiltà si arresero e i professionisti dell’odio e della xenofobia incassarono in piena impunità una vittoria politica senza precedenti.
Quanti segnalarono che quella vicenda non rappresentava una parentesi, ma rischiava di trasformarsi concretamente in un modello da emulare, furono accusati di allarmismo, se non apertamente derisi. Eppure, a distanza di soli sei mesi, il seme nefasto del rogo di Opera sta dando i suoi frutti avvelenati, a partire da quanto sta accadendo nella provincia pavese, in particolare a Pieve Porto Morone. E se qualcuno avesse ancora dei dubbi, ecco arrivare il suggello formale: oggi  il Comitato “Opera Sicura”, creatura dei settori più retrivi della Lega, annuncia che venerdì prossimo scenderà a Pieve, portandosi il solito razzista a tempo pieno, cioè Borghezio, evidentemente ansioso di recuperare visibilità dopo il lancio del maiale-day ad opera di Calderoli.  
Ormai i pochi rom rimasti a Pieve, tra cui molti bambini, sono diventati carne da cannone nella feroce competizione tra i neofascisti e gli xenofobi della Lega Nord. E così alcuni giorni dopo la parata delle teste rasate di Forza Nuova, la Lega rilancia nel modo peggiore. La sindaca-sceriffo di Pavia può essere propria fiera del suo operato!
Noi crediamo fermamente che la misura sia definitivamente colma e che non possa essere tollerata una seconda Opera. E non è una questione che riguarda soltanto la sinistra o qualche “sociologo d’accatto”. No, riguarda in primis le istituzioni e la tenuta del tessuto democratico.
Ecco perché chiediamo ai responsabili istituzionali, a tutti i livelli, di mettere finalmente un freno e porre fine alla tolleranza. Un discorso è l’incazzatura di cittadini, anche se sfociata in un’isteria reazionaria, altro è quello della crescente attività organizzata di neofascisti e razzisti.
Ai cittadini democratici e antifascisti lombardi chiediamo di fare la loro parte e di partecipare alla mobilitazione che le associazioni di Pavia stanno preparando per il 29 settembre.
 
di lucmu (del 13/07/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 966 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 13 luglio 2007 (pag. Milano)
 
Quattro mesi dopo l’ordinanza della sezione bresciana del Tar della Lombardia, ora anche la sezione di Milano ha accolto il ricorso di alcuni gestori di phone center, sospendendo i provvedimenti di chiusura e sollevando il dubbio di legittimità costituzionale della legge regionale 6/2006. In altre parole, il Tribunale amministrativo della Lombardia ritiene nella sua totalità, essendo composto da due sezioni, non legittima la legge regionale sui  phone center.
Questa seconda sentenza conferma pienamente quanto affermato e denunciato da Rifondazione Comunista sin dal primo momento. Cioè, la legge regionale speciale per i phone center, entrata in vigore a fine marzo, non serviva a regolamentare un settore commerciale relativamente recente, bensì a provocare la chiusura massiccia e forzata di molte centinaia di legittime attività commerciali, colpevoli unicamente di essere gestite e utilizzate prevalentemente da cittadine e cittadini immigrati.
Infatti, la necessità di quella legge era stata motivata dai suoi più ferventi sostenitori, cioè Lega e An, con la tesi che i phone center fossero un “luogo di aggregazione di immigrati” e, quindi, in sé un pericolo per la sicurezza. Insomma, il commercio, le regole e la legalità non c’entravano nulla, ma si trattava semplicemente di mettere a disposizione di alcune forze politiche della Destra lombarda uno strumento legislativo per continuare le loro odiose e nocive campagne xenofobe e razziste, in spregio a ogni principio di ragionevolezza, equità e uguaglianza di trattamento.
La stucchevole prassi delle leggi ad hoc, a fini propagandistici o affaristici, è purtroppo una triste abitudine in Regione Lombardia. Non ci illudiamo, quindi, di convincere il centrodestra a cambiare strada con qualche richiamo al ragionamento. Tuttavia, che i giudici amministrativi lombardi dicano ormai all’unisono che ci sono serissimi dubbi di legittimità, è un fatto nuovo che non può e non deve essere ignorato.
Chiediamo dunque ai Comuni lombardi, a partire da quello di Milano, un atto di buon governo e di sospendere immediatamente i provvedimenti di chiusura dei phone center, disposti in base alla legge regionale 6/2006, in attesa della decisione definitiva della Corte Costituzionale.
 
di lucmu (del 30/05/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 904 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 30 maggio 2007 (pag. Milano)
 
Sono passati due mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 6/2006 contro i phone center e quasi nessuno ne parla più. Eppure, il carattere strumentale, discriminatorio e irragionevole del provvedimento sta emergendo proprio ora in tutta la sua drammaticità.
Risulta persino impossibile tracciare un quadro preciso dell’applicazione della legge su scala regionale, poiché i singoli Comuni si muovono in maniera difforme e in una situazione normativa caotica. E così ci sono Comuni, come ad esempio Bresso, San Giuliano Milanese e Pavia, che contestano la legittimità della legge, mentre altri che hanno preso la palla al balzo per delle vere e proprie spedizioni punitive.
Ma il caso più eloquente è senz’altro rappresentato dal Comune di Milano, che da solo ospita sul proprio territorio oltre 700 esercizi: di questi, risultano in regola con le nuove norme soltanto 10. Tutti gli altri sono dunque a rischio di blocco dell’attività e, infatti, sono state emesse circa 650 salatissime multe, mentre 150 provvedimenti di chiusura sono già pronti per la consegna, anche se in gran parte ancora fermi negli uffici a causa, supponiamo, di un elementare senso di prudenza, visto che è già stato presentato il primo ricorso alla sezione milanese del Tar.
Che la normativa regionale faccia acqua da tutte le parti, lo dimostrano peraltro le motivazioni dell’ordinanza del Tar della Lombardia, sezione di Brescia, trasmesse alla Corte Costituzionale pochi giorni fa, ordinanza che solleva la questione di legittimità costituzionale di tre articoli fondamentali della legge regionale. Vengono contestate la retroattività della normativa, la violazione dei principi di ragionevolezza, di parità di trattamento e di proporzionalità e persino l’invasione di ambiti di competenza non propri.
Ma ancora più illuminanti sono le reazioni del centrodestra regionale ai rilievi del Tar. Mentre le dichiarazioni ufficiali propongono il ritornello dei giudici che fanno politica, a livello amministrativo vengono emessi degli atti a dir poco ambigui. Non ci riferiamo soltanto alla ormai famosa “circolare esplicativa” della D.G. Commercio, Fiere e Mercati del 21 marzo scorso, con la quale la Regione cerca furbescamente di scaricare la responsabilità delle chiusure sui Comuni, ma altresì a una serie di note che interpretano creativamente la legge. Citiamo, a mo’ di esempio, quella inviata dalla D.G. Sanità il 20 aprile scorso al Comune di Pavia, dove si “chiarisce” che l’obbligo della larghezza minima di 1,20 metri per le cabine telefoniche vale solo per quelle “aperte” e non per quelle “chiuse”, una distinzione di cui non si trova traccia nella legge. E, guarda caso, è proprio la prescrizione di misure del genere, per phone center già esistenti, ad essere considerata dal Tar un “inutile gravosità”.
Insomma, ci pare che il livello di caos applicativo e di incertezza normativa abbia superato definitivamente il limite dell’accettabile, considerato che stiamo parlando di migliaia di legittime attività commerciali e delle esistenze di quanti e quante vi lavorano, messe a rischio da un provvedimento xenofobo e insensato e rispetto al quale la Corte Costituzionale si esprimerà a breve. Forse è davvero giunto il momento di far tornare almeno il buon senso. Per questo chiediamo con forza, alla Giunta regionale e ai Comuni, una moratoria dei provvedimenti sanzionatori fino al pronunciamento della Consulta nonché l’apertura di un tavolo di confronto con le associazioni dei gestori.
 
di lucmu (del 15/05/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 842 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su “SinistraCritica” di maggio 2007
 
Quando il 12 aprile scorso iniziava a diffondersi la notizia sulla rivolta cinese in via Paolo Sarpi, in città lo stupore fu piuttosto generale. Non tanto perché era la prima volta che a Milano dei cittadini stranieri si ribellavano in maniera collettiva, ma perché a farlo era proprio una comunità, quella cinese, tradizionalmente poco incline alla protesta pubblica.
Molto si è detto e scritto sulla vicenda, ma il più delle volte delle interessate sciocchezze, a partire dalla minestra riscaldata del non vogliono integrarsi e del non vogliono rispettare le nostre regole. E allora ci pare necessario riepilogare prima di tutto gli antefatti, poiché in realtà ha poca importanza come sono andate le cose in mattinata tra la signora cinese e la pattuglia della polizia locale che hanno dato fuoco alle polveri (anche se la misteriosa sparizione delle registrazioni delle telecamere comunali dovrebbe far sorgere qualche sospetto).
Il quartiere in questione ospita un insediamento cinese risalente a un secolo fa, ma è da un decennio circa che vive una forte espansione del commercio all’ingrosso gestito da cittadini cinesi. Così, oggi, in poche vie si concentrano centinaia di esercizi, mentre la popolazione residente continua ad essere prevalentemente italiana. Trattandosi di una zona storica, va da sé che le movimentazioni delle merci avvengano sul marciapiede e al di fuori dei regolamenti comunali. Ma -e qui casca l’asino- tutto questo non ha mai rappresentato un problema, considerato che l’amministrazione cittadina, gestita da quindici anni dal centrodestra, ha sempre rilasciato le licenze e i vigili non hanno mai distribuito multe. Insomma, i commercianti cinesi hanno agito in piena legalità. Anzi, i rapporti tra gli assessori comunali e i commercianti cinesi sono stati sempre buoni e vi sono stati persino cospicui finanziamenti comunali ad un’associazione italo-cinese, l’Alkeos, strettamente legata ad alcuni settori di Alleanza nazionale.
E così arriviamo a qualche mese fa, quando all’improvviso è cambiato tutto. Ovvero, il Comune ha deciso di riscoprire antichi regolamenti comunali e di applicarli inflessibilmente mediante quotidiane e massicce multe contro i carrelli sui marciapiedi, facendo diventare illegale ciò che era perfettamente legale fino al giorno prima. Obiettivo dichiarato della guerra dei carrelli era costringere i commercianti cinesi a “delocalizzare” le loro attività.
Ovvio che nel quartiere stesse crescendo la tensione e, soprattutto, che si diffondesse la percezione di essere presi di mira in quanto cinesi. Infatti, quel 12 aprile a scendere in strada e a scontarsi con le forze dell’ordine non erano i vecchi commercianti, bensì centinaia di giovani di origine cinese, in larga parte cresciuti a Milano e con piena padronanza della lingua italiana.
La storia della rivolta di via Sarpi, come ogni storia, va raccontata tenendo conto delle sue specificità. Eppure, non può sfuggire a nessuno che a Milano stiamo assistendo ad una preoccupante moltiplicazione di momenti di conflitto tra istituzioni e settori di popolazioni immigrate. A dimostrarlo ci sono le ronde anti-rom e le campagne anti-moschee, per non parlare della razzista legge regionale contro i phone-center. Tutte storie diverse, certo, ma che nel loro insieme disegnano un unico quadro generale, fatto da istituzioni che si rapportano con i migranti unicamente attraverso gli strumenti dell’ordine pubblico e da forze di governo locale -in primis Lega e An- che della xenofobia militante fanno una bandiera.
La Lombardia e il suo capoluogo vivono oggi un paradosso esplosivo. È la regione che concentra da sola un quarto dell’immigrazione nazionale, ma anche quella che si ostina esplicitamente a non dotarsi di una politica tesa all’inclusione e alla convivenza. In questo senso, la rivolta di via Sarpi rappresenta un campanello d’allarme, che andrebbe colto anzitutto a sinistra, per non lasciare definitivamente il terreno alla demagogia xenofoba e securitaria delle destre.
 
di lucmu (del 15/05/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 809 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Guerre&Pace di maggio 2007
 
Il programma elettorale dell’Unione ci aveva consegnato un linguaggio ambiguo rispetto a molte questioni politiche decisive. E così, il terrificante termine “superamento” ha fatto il suo ingresso nell’arena politica. Il fatto che in materia di immigrazione si parlasse invece esplicitamente di “abrogazione” della Bossi-Fini aveva suscitato non poche aspettative nel mondo dell’associazionismo migrante e antirazzista. Eppure, ad un anno di distanza dalle elezioni politiche, l’impianto normativo definito dal governo Berlusconi, compresa la scandalosa e truffaldina convenzione con le poste, è sostanzialmente immutato e dunque tuttora vigente.
Anzi, la dilatazione dei tempi sembra essere diventato uno dei leitmotiv. La nuova legge sulla cittadinanza è impantanata nelle aule parlamentari, della legge organica sul diritto d’asilo –di cui l’Italia è semplicemente sprovvista- non si vede traccia e il provvedimento principe, cioè quello che dovrebbe porre fine alla razzista Bossi-Fini e che è conosciuto sotto il nome ddl Amato-Ferrero, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri soltanto il 24 aprile scorso, dopo numerosi rinvii e aggiustamenti.
Tuttavia, la legge non cambierà nell’immediato. Infatti, stiamo parlando di un disegno di legge delega, che dopo il varo in CdM dovrà essere approvato dal Parlamento e, successivamente, il Governo avrà dodici mesi di tempo per adottare “un decreto legislativo per la modifica del testo unico …, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni”.
In altre parole, il ddl Amato-Ferrero fissa i “principi e criteri direttivi” a cui dovrà ispirarsi il futuro decreto legislativo. Cioè, il percorso sarà prevedibilmente accidentato, i tempi non saranno brevissimi e il risultato finale, cioè l’articolato, è ancora da scrivere. Ma vediamo da vicino il merito del disegno di legge delega.
Anzitutto, ci pare necessario chiarire meglio l’oggetto del provvedimento di modifica. La cosiddetta legge Bossi-Fini non aveva, infatti, abolito la disciplina preesistente, cioè il d.lgs n. 286 del 1998, noto come Turco-Napolitano, ma si presentava sul piano formale come una sua modifica. Una modifica massiccia e di sostanza, che aveva esasperato ed estremizzato il carattere repressivo e proibizionista delle politiche migratorie, ma che non rappresentava un capovolgimento netto. Infatti, la prevalenza dell’approccio repressivo e la considerazione del migrante prima di tutto come forza lavoro a buon mercato erano anche i principi ispiratori della Turco-Napolitano, nonché delle odierne e sempre più integrate politiche europee in materia.
La conseguenza più vistosa di questo orientamento sta anzitutto nell’allocazione insensata delle risorse pubbliche, come dimostrarono i dati pubblicati dalla Corte dei Conti nel 2005. Infatti, il 72,5% delle risorse complessive spese per le politiche migratorie sono destinate a misure repressive, comprese le spese per i Cpt, mentre soltanto il restante quarto va a favore di politiche di accoglienza. Un approccio che tende dunque a spostare tutta la tematica dell’immigrazione sul terreno dell’ordine pubblico.
Inoltre, l’irrazionalità dell’allocazione delle risorse fa il paio con quella della normativa sugli ingressi, tesa più a soddisfare la necessità di un certo discorso politico, che non a “governare” il fenomeno migratorio, con la conseguenza dell’istituzionalizzazione di fatto di una significativa area di clandestinità.
Tuttavia, a guardare bene, nell’irrazionalità vi è una ratio. Il migrante indicato come problema di ordine pubblico, sempre sull’orlo della clandestinità e portatore di un pacchetto di diritti differenziato, cioè inferiore a quello del cittadino italiano o comunitario, è infatti lo stesso che va a ingrossare le fila dei lavoratori malpagati o sfruttati in nero. Così, il corpus legislativo speciale per gli stranieri non comunitari –con tanti saluti al principio la legge è uguale per tutti- vige non soltanto sul piano dei diritti civili, ma anche su quello dei diritti sociali. Il “capolavoro” della Bossi-Fini, cioè il ricatto del contratto di soggiorno, sta lì a dimostrarlo.
E allora, la domanda che dobbiamo porci è se la proposta Amato-Ferrero modifica tale approccio e in che misura.
La prima -e più dettagliata- parte del ddl è dedicata alla questione degli ingressi. Viene previsto un meccanismo di programmazione su base triennale, da integrare con una procedura di adeguamento annuale delle quote stabilite. Inoltre, alcune categorie di lavoratori potranno essere autorizzate all’ingresso al di fuori delle quote, in particolare il “lavoro domestico e di assistenza alla persona”.
Per quanto riguarda le modalità di ingresso si prevedono anzitutto delle “liste organizzate in base alle singole nazionalità” a cui uno straniero che intenda lavorare in Italia può iscriversi. Responsabili della gestione delle liste sono una pluralità di soggetti, come gli enti e gli organismi nazionali e internazionali con sedi nei paesi d’origine e convenzionate allo scopo, nonché le autorità dei paesi d’origine. Tali liste verranno istituite “prioritariamente” in Stati che abbiano dimostrato un “atteggiamento collaborativo” in materia di contrasto dell’immigrazione clandestina. Fino all’istituzione di tali liste, verrà attivata una Banca dati interministeriale.
A tali liste potranno poi attingere, con chiamata nominativa o numerica, le regioni, gli enti locali e le associazioni imprenditoriali, professionali e sindacali, nonché istituti di patronato, con la costituzione di “forme di garanzia patrimoniale a carico dell’ente o associazione richiedente”. Viene altresì prevista una forma di ingresso per ricerca lavoro, a condizione che il cittadino straniero sia iscritto nelle liste e che possa fornire le sufficienti garanzie patrimoniali –proprie o di altri- per il suo sostentamento. Più in generale, si prevede una semplificazione delle procedure per il rilascio dei visti.
Per quanto riguarda gli ingressi, possiamo dunque affermare che rimane ferma la logica dei flussi, rendendola tuttavia molto più flessibile, e che la selezione continua ad essere determinata dalle necessità dell’economia italiana, salvo la possibilità –condizionata- della ricerca lavoro.
Per quanto riguarda i permessi di soggiorno, va prima di tutto sottolineato che non si esplicita un passaggio netto delle procedure per il rinnovo agli enti locali, come chiesto da tempo dall’associazionismo, ma si parla di più generiche “forme di collaborazione”. In secondo luogo, in relazione alla tipologia e alla durata dei permessi, vanno evidenziati i seguenti punti: eliminazione del “contratto di soggiorno”; allungamento dei termini di validità iniziale e raddoppio della durata in sede di rinnovo; permesso di un anno per rapporti di lavoro a tempo determinato inferiori a sei mesi, di due anni in caso di rapporti di durata superiore a sei mesi e di tre anni in caso di rapporti a tempo indeterminato o di lavoro autonomo; misure tese alla continuità della condizione di regolarità nelle more del rinnovo; estensione dei termini di validità a un anno per attesa occupazione, in caso di perdita del lavoro; possibilità del permesso per motivi umanitari anche a favore dello straniero che “dimostri spirito di appartenenza alla comunità civile”.
Insomma, non siamo certo di fronte al tanto invocato –da parte dei movimenti- sganciamento del permesso di soggiorno dal rapporto di lavoro, ma piuttosto ad una sua maggiore autonomizzazione. In caso di applicazione effettiva di tali misure, è prevedibile una riduzione della precarietà del migrante e del fenomeno della clandestinità di ritorno.
Prima di arrivare alla questione delle espulsioni, occorre però segnalare alcuni altri punti. Anzitutto, il fatto che viene esplicitamente previsto il diritto di voto attivo e passivo per le elezioni amministrative per gli stranieri “titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo”. In secondo luogo, una serie di misure a tutela degli stranieri minori, tra cui la previsione di meccanismi volti a garantire un permesso di soggiorno al compimento della maggiore età, seppure non in maniera generalizzata. In terzo luogo, l’equiparazione degli stranieri soggiornanti regolarmente da almeno due anni ai cittadini italiani in relazione all’accesso all’assistenza sociale. In quarto luogo, l’agevolazione e maggior regolamentazione dell’invio delle rimesse. Infine, il “potenziamento”, anche mediante la definizione della figura del mediatore culturale, della misure dirette all’inclusione. Va inoltre segnalato, negativamente, che il CdM ha eliminato in extremis la possibilità di accesso al pubblico impiego per cittadini non comunitari.
Ma eccoci al punto che ha sempre costituito una sorta di cartina di tornasole delle politiche migratorie, cioè la disciplina delle espulsioni e la questione dei Centri di Permanenza Temporanea (Cpt). Va anzitutto ricordato che il carattere securitario e ideologico della legislazione vigente comporta inevitabilmente la presenza di un’ampia e fisiologica area di clandestinità. E nonostante la mobilitazione di ingenti risorse pubbliche per le misure repressive –a dimostrazione della natura strumentale e demagogica del discorso securitario-, il sistema delle espulsioni mostra un efficacia assai ridotta. Nel 2005, soltanto il 45% dei 120mila destinatari di provvedimenti di espulsione sono stati effettivamente rimpatriati e di questi soltanto una minoranza è transitata attraverso i Cpt. Va inoltre segnalato che i Cpt italiani hanno trattenuto, sempre nel 2005, 16.163 persone, di cui due terzi sono stati effettivamente espulsi.
Il ddl Amato-Ferrero prevede una serie di modifiche: il rimpatrio volontario dell’espulso, incentivato da appositi mezzi finanziari e con la riduzione dei tempi di divieto di reingresso; la “graduazione” delle sanzioni penali e la “riconduzione” delle stesse ai principi generali della giustizia penale; la revisione delle “modalità” di allontanamento (per esempio, la sospensione dell’esecuzione per “gravi motivi”); una serie di garanzie per lo straniero vittima di violenza e grave sfruttamento; l’attribuzione delle competenze alla magistratura ordinaria.
Per quanto riguarda i Cpt, non si prevede la loro chiusura, ma di “superare l’attuale sistema”. Cioè, il potenziamento delle funzioni “di accoglienza e soccorso”, la revisione dei criteri strutturali e gestionali, la riduzione dei tempi di trattenimento, la possibilità di uscire dalla struttura in alcuni orari, la maggior collaborazione nei Cpt con associazioni, l’individuazione di procedure di identificazione durante la permanenza in carcere (molti trattenuti nei Cpt provengono infatti dagli istituti di pena), la previsione di specifiche “strutture per le espulsioni” e, infine, una maggior accessibilità dei Cpt da parte di soggetti istituzionali, di rappresentanti di alcune associazioni e della stampa. Nulla si dice, invece, della politica di delocalizzazione dei Cpt in Africa, perseguita dall’insieme dell’UE.
Contestualmente al varo del ddl, sono stati poi emananti due direttive: la prima di chiusura dei Cpt di Brindisi, Crotone e Ragusa e, la seconda, di invito ai Prefetti di definire nuovi criteri per l’accesso e la trasparenza dei Cpt.
Insomma, le modalità di rimpatrio diventerebbero un po’ più flessibili e garantiste, si introduce il “rimpatrio volontario”, si toglie finalmente la materia ai giudici di pace e si afferma la volontà di attenuare il carattere speciale del sistema sanzionatorio per i migranti. In relazione ai Cpt va registrato che le misure indicate sembrano collocarsi al di sotto di quanto raccomandato dalla Commissione ministeriale De Mistura, la quale, seppure evitando come la peste la parola “chiusura”, aveva tuttavia suggerito una strategia di “graduale svuotamento”.
Per concludere, possiamo affermare, anzitutto, che gli indirizzi contenuti nel ddl Amato-Ferrero non equivalgono all’abrogazione secca della Bossi-Fini, bensì a una sua modifica in direzione di una maggior flessibilizzazione e razionalizzazione della normativa, nonché di un’attenuazione del carattere discriminatorio della legislazione in materia. In secondo luogo, va ricordato che il ddl non è una proposta di legge, ma un insieme di principi e criteri direttivi.
Siamo quindi di fronte ad una proposta che non rappresenta il capovolgimento richiesto dai movimenti, ma che indubbiamente migliorerebbe le condizioni di vita dei migranti presenti nel nostro paese. Tuttavia, sarebbe un grande errore limitarsi a queste constatazioni, poiché la partita è appena cominciata.
Il ddl che abbiamo sommariamente esaminato rappresenta il risultato di una negoziazione, avvenuta nel vuoto di movimenti, tra le posizioni della cosiddetta sinistra radicale e quelle dei soci fondatori del partito democratico. E non occorre certo essere dei geni per capire che lo scontro frontale che aprirà il centrodestra tenderà a spingere i termini del compromesso a destra, visti anche i tanti balbettii e subalternità delle forze dell’Ulivo.

Il clima che si respira in queste settimane a Milano, con le ronde anti-rom, le campagne contro le moschee, l’applicazione della razzista legge regionale contro i phone center e i proclami anticinesi, dovrebbe far riflettere. Il discorso pubblico sull’immigrazione è inquinato e egemonizzato dalle destre e risulta evidente che se dal basso e da sinistra non si riuscirà ad avviare l’iniziativa sociale e politica, l’esito della battaglia sarà scontato. Ecco perché non basta essere severi nei giudizi, ma occorre buttarsi nella mischia e ricostruire il terreno del conflitto.

 
di lucmu (del 14/04/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 982 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 14 aprile 2007 (pag. Milano)
 
Era prevedibile che, dopo la rivolta e gli scontri nella “chinatown” milanese, il centrodestra meneghino scatenasse tutti i soliti luoghi comuni rispetto all’immigrazione in generale e a quella cinese in particolare, a partire dalla minestra riscaldata del “non vogliono integrarsi”, e soprattutto che cercasse di scaricare le responsabilità di quanto avvenuto sulla comunità cinese di via Sarpi, accusandola apertamente di premeditazione.
Quello che invece stupisce è che praticamente nessuno, compresi molti dirigenti dell’Ulivo milanese, abbia voluto porre alcune semplici, ma dirompenti, domande ai partiti del centrodestra.
Il problema non è capire se la zona attorno a via Sarpi, dove l’insediamento cinese risale agli inizi del Novecento, sia adeguata o meno ad ospitare il commercio all’ingrosso. Infatti, chiunque sapeva e sa che nel quartiere in questione le operazioni di carico e scarico non possono avvenire nel rispetto dei regolamenti esistenti, trattandosi di una zona storica della città. Ma è qui che casca l’asino, poiché l’espansione del commercio all’ingrosso è un processo in atto da un decennio, e le amministrazioni di centrodestra hanno sempre rilasciato le licenze con liberalità e mai multato nessuno. In altre parole, i commercianti cinesi sono sempre stati in buoni rapporti con il Comune e considerati perfettamente in regola. Come mai, allora, tutto ciò è diventato all’improvviso irregolare?
Ma c’è ben altro, visto che il Comune di Milano non si è limitato ai buoni rapporti, ma ha ripetutamente finanziato progetti di integrazione destinati al quartiere cinese. In particolare, molti fondi sono transitati attraverso l’associazione italo-cinese ALKEOS, legata strettamente ad alcuni settori di Alleanza nazionale. Chiediamo quindi al Sindaco Moratti e al Vicesindaco De Corato di spiegare alla cittadinanza quanti fondi comunali sono stati stanziati in questi anni, come sono stati impiegati, chi sono i beneficiari e quali sono i risultati ottenuti.
Insomma, a noi pare che tutta questa vicenda puzzi e che la cosa più insensata e ipocrita che si possa fare è mettere sul banco degli accusati la comunità cinese, che non a torto si sente oggi attaccata in quanto tale. Se c’è qualcuno che ha fomentato e organizzato gli scontri di ieri, questo non va cercato tra i cinesi, ma tra coloro che governano la città da 15 anni e che oggi cercano di mascherare i loro fallimenti dichiarando guerra agli immigrati presenti in città.
Il susseguirsi incessante di proclami sulla sicurezza, le ronde anti-rom, le campagne contro le moschee, l’ondata di chiusura dei phone center e, ora, lo scontro a suon di multe e manganelli con i cinesi, stanno lì a dimostrarlo.  Il clima politico e civile che ne consegue si fa sempre più insostenibile e pericoloso. E che poi stamattina qualche sedicente gruppo “cristiano” abbia pensato bene di dare fuoco a un centro culturale islamico può stupire soltanto i ciechi e i sordi.
 
di lucmu (del 12/04/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 946 volte)
Gli scontri di via Sarpi tra centinaia di cittadini cinesi, in prevalenza giovani, e forze dell’ordine sono l’ennesimo campanello d’allarme per una Milano dove i momenti di conflitto tra istituzioni cittadine e immigrati si stanno moltiplicando in maniera preoccupante.
Il fatto che questa volta sia avvenuto nella chinatown milanese, coinvolgendo una comunità poco propensa alla protesta pubblica, dovrebbe far finalmente riflettere. In fondo, poco importa la scintilla che ha dato il via alla ribellione di massa, ma conta invece il clima di tensione che si era creato nelle ultime settimane. Infatti, dopo lunghi anni di crescita del commercio all’ingrosso in zona, l’amministrazione comunale ha all’improvviso deciso di cambiare le regole del gioco, facendo quindi piovere quotidianamente le multe. Ovvio che i commercianti e i residenti cinesi si sentano a questo punto presi di mira in quanto comunità.
Un atteggiamento cieco da parte del centrodestra milanese, che ripropone quanto avviene, in maniera più estremistica, rispetto ad altre comunità immigrate. E così, contro i rom si organizzano le ronde, contro i luoghi di preghiera islamici si scatenano le campagne e ai phone center viene imposta la chiusura forzata in base a una legge regionale insensata e discriminatoria. E l’elenco potrebbe continuare.
Certo, ogni conflitto ha la sua storia e le sue specificità, ma ogni volta si ripresenta la medesima questione, cioè il paradosso di una città e di una regione dove si concentra gran parte dell’immigrazione nazionale, ma dove manca completamente una politica che possa favorire la convivenza e l’inclusione. Di conseguenza, spesso, l’unico punto di contatto tra istituzioni e cittadini immigrati avviene sul terreno dell’ordine pubblico.
Se non si cambia politica in fretta, si rischia davvero di costruire i presupposti per un futuro di conflitti ben più aspri e radicali. Questo potrebbe far felice sicuramente le forze politiche che hanno sposato la xenofobia militante, come la Lega e parte di An, ma siamo certi che non sia nell’interesse della città né dei milanesi, autoctoni o immigrati.
 
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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