Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Che nessuno si nasconda dietro un dito, il no dei cittadini francesi non è un incidente di percorso. Dalle urne di oltralpe esce sconfitta non un’Europa generica, bensì il progetto concreto di un’unificazione continentale su base iperliberista, dove i diritti sono ridotti a variabili dipendenti delle scelte dei potentati economici. Esce sconfitto un trattato costituzionale scritto da ristrette élite governative a propria immagine e somiglianza ed illeggibile per la grande maggioranza dei cittadini europei.
Il no francese non è un disastro, ma piuttosto una salutare boccata d’ossigeno. In Italia ci consegna l’opportunità di riaprire quel dibattito politico, soffocato in un ovattato clima bipartisan, per cui si sarebbe trattato semplicemente di uno scontro tra europeisti ed anti-europeisti. Ed ecco un parlamento italiano che approva il trattato costituzionale senza alcuna consultazione popolare, mentre la stragrande maggioranza dei cittadini non ha mai avuto la possibilità di sapere che cosa ci fosse scritto.
Dalla Francia non ci viene un no all’Europa tout court, ma a questa Europa, generosa con i ricchi e impietosa con i lavoratori. Un no ad un’unificazione che affossa il modello sociale europeo per sposare quello “americano” e che pratica una politica lontana dai cittadini e dalle cittadine. Invece di insistere su una strada sbagliata e fallimentare, magari per consegnare il futuro del continente ai neo-nazionalismi, occorre ripartire da qui, per rilanciare un’altra Europa, che metta al centro i diritti sociali e di cittadinanza e si basi sulla partecipazione democratica dei cittadini e delle cittadine.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 08/11/2005, in Politica, linkato 1155 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 8 nov. 2005
 
Bologna non è una questione bolognese. Piuttosto, complice il piglio autoritario di Cofferati, è il luogo dove uno dei principali nodi politici e strategici dell’Unione è venuto al pettine. E, si badi bene, non si tratta semplicemente di qualcosa che riguarda il rapporto tra sinistra moderata e Rifondazione, bensì concerne il baricentro politico e il progetto di società degli eventuali futuri governi, nazionale e cittadini, del centrosinistra.
Altro che resa dei conti tra Rifondazione e Cofferati, come molte interessate opinioni sostengono. Siamo semmai di fronte al tentativo, nemmeno troppo velato, di mettere nell’angolo la sinistra radicale e di movimento, di espellere le sue istanze di cambiamento dall’orizzonte del centrosinistra e di spostare il centro di gravità dell’Unione verso destra.
Se preoccupante è l’operazione politica che si intravede, inquietante è il terreno prescelto. Chi scrive, vive e fa politica in una città e in una regione, cioè Milano e la Lombardia, dove le destre governano da tempo immemorabile. Legalità, ordine, sicurezza e tolleranza zero non sono certo delle novità, anzi sono parole d’ordine strasentite e ormai persino un po’ logore. Destinatari principali di quelle invocazioni securitarie sono da sempre i migranti, ma non vengono risparmiati nemmeno autoferrotranvieri in sciopero, centri sociali, occupanti di casa e lavoratori della Scala. Sempre e comunque ridotti a una questione di ordine pubblico, laddove le questioni sociali vengono invece bellamente ignorate.
La città è peggiorata, la precarietà del lavoro e della vita imperversa, le giovani coppie scappano nell’hinterland, perché affittare o comprare una casa è diventata un’impresa impossibile, le famiglie milanesi si indebitano sempre di più per far fronte alle spese normali, l’area del disagio sociale si è allargata e i 180mila nuovi cittadini, cioè i migranti, vengono guardati con sospetto, non per quello che fanno o non fanno, ma per quello che sono. Che dire, se non che siamo di fronte a un bilancio fallimentare e denso di nubi per il futuro?
Eppure, sarebbe sufficiente riflettere su quanto avviene ora in Francia, su quella rivolta dei figli e dei nipoti dei migranti, nati è cresciuti in terra francese, cittadini sulla carta, ma nella vita reale relegati nei ghetti urbani, nell’esclusione e nel degrado civile e sociale.
Il problema non si chiama legalità sì o legalità no. Il problema è il modello di società che intendiamo perseguire. Il problema è se assumiamo come nostro nemico da battere la povertà oppure i poveri, l’esclusione oppure gli esclusi, la condizione di clandestinità oppure i “clandestini”. Dalla risposta che diamo a tali quesiti discendono due politiche diverse e opposte.
Allo stato attuale, sia nella Milano di Albertini che nella Bologna di Cofferati, legalità e sicurezza non sono state altro che una clava impugnata per dare addosso a migranti, lavoratori e studenti. Quando mai abbiamo visto un simile impegno per altre illegalità, sicuramente più nocive, come l’evasione fiscale, equivalente al 7% del PIL, o quella contributiva, visto che secondo l’Inps nella sola efficiente Lombardia il 75% delle aziende ispezionate nel 2004 risultavano irregolari?
Insomma, il problema vero per la sinistra è uscire da quella subalternità culturale e politica che provoca balbettii ogniqualvolta si tocca il tasto della sicurezza o dell’immigrazione. Una subalternità che nel caso di Cofferati è diventata una esplicita rivendicazione. Occorre invece un autentico rovesciamento della questione, dello stesso concetto di sicurezza, mettendo al centro la giustizia sociale, i diritti di cittadinanza e l’inclusione. Continuare a rincorrere la destra sul suo terreno ci porta diritti alla sconfitta, anche quando si vincono le elezioni.
Qualcuno sembra invece aver deciso che Bologna è l’occasione buona per stroncare sul nascere la possibilità di una politica alternativa e per esigere delle rese preliminari. Ecco perché Bologna non è soltanto una questione bolognese ed ecco perché non possiamo permetterglielo.
 
 
di lucmu (del 12/11/2005, in Politica, linkato 1155 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 12 nov. 2005 (pag. Milano)
 
Bruno Ferrante piace alla sinistra radicale e agli antagonisti. È questo il leitmotiv che domina la stampa in questi giorni. La Repubblica aveva persino osato un audace “e la sinistra-sinistra scende dalle barricate”.
Un paradosso! esclamano in molti. Sarà, ma forse la verità è più semplice, anche se più preoccupante. Il paradosso vero è che parte della sinistra italiana sembra aver smarrito la bussola, trasformando le proprie subalternità culturali in linea politica. Semmai, il paradosso milanese non è altro che un pallido riflesso di quello bolognese, dove invece un ex-sindacalista si comporta da Sarkozy nostrano.
Ma attenti alle illusioni ottiche. Anche a Milano, autorevoli esponenti della sinistra moderata non perdono occasione per invocare legalità e sicurezza, per dire che di cose come il Cpt di Via Corelli o di una politica alternativa in tema di immigrazione proprio non si deve parlare. Insomma, sotto il paradosso milanese cova silenzioso, ma insistente il quello bolognese.
A Cesare ciò che è di Cesare; quindi a Bruno Ferrante va riconosciuto quanto fatto come prefetto e quanto detto finora come neo-candidato. E sono comprensibili –e condivisibili- i sollievi da scampato pericolo dopo il tormentone neocentrista di Veronesi e le ruspe cofferatiane. Ma detto questo, quella parte di società politica e civile milanese, detta “sinistra radicale”, corre il pericolo di rimanere incastrata nel sollievo e persino di dividersi tra “aperturisti” verso Ferrante e sostenitori di Dario Fo. Il problema vero, invece, non è Ferrante o Fo, bensì con quale programma, con quale progetto, con quali idee si vuole governare Milano dopo i lunghi anni bui del dominio delle destre.
Le destre a Milano si sono occupate anzitutto di svendere e privatizzare, di ignorare con arroganza le istanze provenienti dalla società, scontrandosi sempre e comunque: dai tranvieri ai lavoratori della Scala, dai centri sociali ai comitati e associazioni di quartiere. I e le milanesi oggi stanno peggio, sempre più precarizzati nel lavoro e nella vita, con il disagio sociale e il degrado che si sono allargati, con sempre più famiglie che si indebitano, con le giovani coppie che scappano nell’hinterland per poter pagare l’affitto o il mutuo. Per non parlare poi come vengono trattati i nuovi milanesi, cioè quei 180mila migranti presenti sul territorio, accettati come manodopera a basso costo, ma mai come persone portatori di diritti. Ne sono triste simbolo alcune vie cittadine, come Corelli, Capo Rizzuto o Quaranta.
Ecco perché il problema non sono tanto il nome e il profilo del candidato sindaco, bensì i contenuti e le proposte. Ecco perché, per esempio, è importante che alle primarie cittadine non si ripeta lo scandalo dell’esclusione de facto dei migranti e si produca invece un fatto politico qualificante con una loro partecipazione massiccia. Ecco perché in questi mesi la sinistra radicale dovrebbe aprire un grande confronto sul territorio e con i soggetti sociali per costruire un progetto alternativo di città. E le priorità ce le indica la realtà: partecipazione e inclusione, lotta alla precarietà, condizioni di lavoro, rilancio dell’intervento pubblico, casa, riqualificazione dei quartieri popolari, diritti sociali e di cittadinanza uguali per tutti e tutte.
Quindi, altro che scendere dalle barricate. Questo sarebbe davvero il peggior servizio che si possa rendere a Milano.
 
 
di lucmu (del 11/02/2006, in Politica, linkato 1209 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 11 febbraio 2006
 
L’aveva detto Umberto Bossi, sarebbe stata una campagna elettorale all’insegna dell’omofobia e della xenofobia. E la Lega, come un sol uomo, si è scatenata, dagli insulti razzisti di Calderoli in diretta tv fino alla mozione leghista nel consiglio comunale di Milano che vorrebbe imporre allo straniero richiedente la cittadinanza italiana un questionario, contenente domande illuminanti tipo “cosa pensa dell’omosessualità?” oppure “è giustificabile una reazione violenta per bloccare vignette?”.
Così vanno le campagne elettorali, dice qualcuno per minimizzare. Poche settimane fa, un esponente di primo piano dei DS, come Bersani, ha persino riesumato il concetto di “forza popolare” per dire che in fondo con la Lega si può anche parlare. Insomma, è netta la sensazione che dietro gli scandali per gli “eccessi” leghisti, dalla durata solitamente effimera, si nasconda in realtà una drammatica sottovalutazione politica.
E allora ripartiamo dalla Lombardia, terra natale e roccaforte della Lega Nord. Viste da qui le campagne leghiste dal tenore esplicitamente xenofobo o razzista non sono né una novità, né un’appendice, ma piuttosto una costante dominante.
Da tempo ormai la parola d’ordine dell’autonomismo ha perso la sua forza propulsiva ed espansiva e oggi appartiene soprattutto al ceto politico e ad alcuni interessi materiali ben identificati. Il federalismo, poi, non è più appannaggio della sola Lega, essendosi trasformato nella bandiera di tanti, dall’abile Formigoni fino a buona parte della sinistra moderata, come ci aveva dimostrato la sciagurata modifica del titolo V della Costituzione. Insomma, il classico “Roma ladrona” ha fatto il suo tempo.
L’ostilità nei confronti del diverso ha sempre fatto parte del bagaglio politico e culturale del leghismo, ma è soltanto negli ultimi anni che ha assunto il predominio, in concomitanza con il manifestarsi delle conseguenze sociali delle politiche liberiste. La perdita di potere d’acquisto di salari e pensioni, l’espansione della precarietà del reddito e della vita e i tagli al welfare stanno aumentando sempre di più le difficoltà quotidiane per ampie fasce popolari e producono un diffuso sentimento di insicurezza, specie nelle aree metropolitane. Ovvero, il brodo di coltura ideale perché le incertezze e le paure si traducano in avversione per il diverso, in primis per i diversi per antonomasia, cioè i migranti, che nella sola Lombardia sono ormai quasi un milione.
Insomma, la Lega ha scelto deliberatamente un cambio di strategia, mettendo in secondo piano l’autonomismo e sostituendolo con la xenofobia e l’islamofobia. Un discorso politico certamente rozzo, ma per nulla improvvisato e, anzi, perseguito con perseveranza. Una linea politica praticata in maniera martellante in Lombardia. Sulle tv locali è un succedersi senza soluzioni di continuità di insulti e requisitorie degne del Ku Klux Klan. Altro che le battute di Calderoli sulle “abbronzature”! I consigli comunali, provinciali e regionale sono pieni di iniziative dal sapore discriminatorio e razzista, contro le moschee, le scuole arabe, i rifugiati, i rom, i “clandestini”, gli immigrati che rubano la casa agli italiani e così via.
In altre parole, la Lega ha scelto di occupare uno spazio politico analogo a quello occupato in Francia da Le Pen. Non a caso, in Lombardia la Lega ha sorpassato a destra AN. E come succede in Francia con Sarkozy, quello è uno spazio che fa gola a molti e il razzismo della Lega riesce a contaminare e trascinare. Infatti, è del Sindaco di Milano, targato Forza Italia, e non della Lega la definizione grottesca, ma significativa, di “clandestini con regolare permesso di soggiorno” per i rifugiati politici di via Lecco.
Fare dunque finta che si tratti soltanto di campagna elettorale è un grave errore. La deriva lepenista della Lega è deliberata e lucida e i danni che provoca nel corpo sociale la legittimazione incessante delle tesi razziste e dei toni da crociati sono alla lunga incalcolabili. Bisogna porvi un freno e questo non può essere compito della sola Rifondazione, ma riguarda tutta l’Unione. E ci sono soltanto due modi per farlo: cominciare a chiamare le cose con il loro nome, senza reticenze e ipocrisie, e soprattutto con una politica in materia di immigrazione dichiaratamente e radicalmente alternativa a quella sinora praticata.
 
di lucmu (del 31/05/2006, in Politica, linkato 1176 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 31 maggio 2006 (pag. Milano)
 
Ha vinto la Moratti, ha perso Ferrante. Certo, rispetto a cinque anni fa il divario tra centrodestra e centrosinistra è diminuito notevolmente. E facciamo bene a sottolinearlo, poiché ci ricorda che a Milano e in Lombardia non siamo destinati a morire per forza berlusconiani, leghisti e post-fascisti. Eppure, non possiamo accontentarci di questa osservazione. Sa un po’ troppo di auto-assoluzione.
E per favore, ora non si dica che Ferrante era un candidato troppo debole, inadatto per una così alta sfida. Beninteso, egli avrà sicuramente dei limiti, ma onestà vuole che riconosciamo che in questa campagna elettorale il limite principale risiedeva nella coalizione che lo sosteneva, come la grottesca vicenda del Primo Maggio ha simboleggiato in maniera eloquente. È come se si fosse data per persa la partita, prima ancora di averla giocata.
L’analisi del voto va ovviamente affrontata con il tempo e la cura necessari, tuttavia ci pare evidente che l’astensionismo abbia colpito non soltanto le destre, come tradizione vuole, ma in maniera significativa anche l’Unione. Insomma, non siamo riusciti a motivare e mobilitare sufficientemente il nostro elettorato e ancor meno a realizzare incursioni in quello del centrodestra. Colpa del fatto di non averci creduto fino in fondo in campagna elettorale, sicuramente, ma anche dell’assenza di un cuore politico pulsante, cioè di un insieme di proposte forti e comprensibili che potessero indicare una politica alternativa per la città.
Lunghi mesi furono infatti spesi nella discussione del Cantiere, luogo di elaborazione del programma dell’Unione, con il coinvolgimento di movimenti e associazioni. Ma questi ultimi si sono presto persi per strada, evidentemente poco affascinati dall’imperante politicismo, mentre il programma si è trasformato in un illustre sconosciuto per la quasi totalità dell’elettorato.
Ma sullo sfondo si staglia la madre di tutte le questioni, tuttora irrisolta, cioè la crisi della sinistra milanese e la sua incapacità di pensare, costruire e comunicare un modello alternativo di città. Non basta sperare che prima o poi il riflesso delle dinamiche nazionali risolva il problema Milano. È qui che sono nati il berlusconismo e il leghismo, è qui che hanno scavato radici profonde ed è qui che vanno sconfitti. Ma per fare questo occorre ri-costruire consenso sul territorio, ritornare ad immergersi nei ceti popolari, nativi e migranti, e nei loro bisogni.
E questo non è un problema di altri, è anzitutto un problema nostro, della cosiddetta sinistra radicale. Messi tutti insieme, Prc, Verdi, Lista Fo’ e PdCI, realizzano a Milano un risultato inferiore a quello del 2001 (allora c’era anche Miracolo a Milano), mentre Rifondazione Comunista paga un prezzo altissimo, scendendo a un inedito 4,2%. Potremmo elencare molti fattori per spiegare questo dato, tra cui la frammentazione determinatasi con la Lista Fo’, ma non centreremmo il problema, che appunto sta da un'altra parte.
Ripartire in maniera autocritica, anzitutto come sinistra radicale e Rifondazione, da questo risultato elettorale non è soltanto un atto di rispetto per le scelte dei “nostri” elettori, ma è condizione imprescindibile per poter costruire, da domani in poi, un’opposizione incisiva alla Moratti e un percorso politico e sociale per un’altra città.
 
“Un fatto grave che implica la necessità immediata di aprire una verifica nell’Unione, non solo in Lombardia ma anche a livello nazionale”.
Così il capogruppo del Prc, Mario Agostinelli, torna a parlare dell’ordine del giorno sul Tavolo Milano approvato ieri in Aula da Margherita e Ds insieme alla Casa delle Libertà.
“Il problema - prosegue Agostinelli – non è tanto quello delle priorità infrastrutturali in sé, ma il fatto che questo documento contraddice in pieno, a partire da un federalismo fiscale spinto all’eccesso, la risoluzione unitaria dell’opposizione sul Dpefr approvata soltanto mercoledì. E contraddice anche il progetto dell’Unione, in cui ha creduto e crede chi ci ha votato”.
“La gravità di quanto è accaduto ieri - incalza il consigliere Luciano Muhlbauer - sta nel fatto che Ds e Margherita hanno sottoscritto una parte del programma della Casa della Libertà e rafforzato la posizione di Formigoni nei confronti del governo nazionale e anche del Comune e della Provincia di Milano.
Un tifo organizzato per il Presidente della Giunta, difficilmente comprensibile se non nell’ottica tutta politicista di voler ridisegnare la geografia politica in Lombardia a prescindere dalla volontà degli elettori. Delle vere e proprie prove tecniche di grande coalizione, andate in scena qui, ma il cui vero obiettivo si trova a Roma”.
“Con l’aggravante - aggiunge il consigliere Osvaldo Squassina - che Ds e Margherita ci hanno tenuti all’oscuro del documento fino al momento della presentazione in Aula. Un’operazione poco limpida, quindi, non solo sul piano dei contenuti, inaccettabili per noi e per le altre forze dell’Unione, ma anche su quello del metodo. Un’operazione che regala un appoggio in più a Formigoni, indebolendo la tenuta del centrosinistra”.
“Occorre evidentemente - conclude il capogruppo Agostinelli - un chiarimento: certo c’è il beneficio dell’errore, ma l’incidente è troppo pesante per potervi soprassedere; la questione è già stata aperta e dovrà essere immediatamente affrontata dal tavolo dell’Unione al rientro dalle vacanze”.
 
Comunicato stampa del Gruppo regionale del Prc
 
di lucmu (del 11/11/2006, in Politica, linkato 1157 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 11 novembre 2006
 
“Neocentrismo”, “seconda fase” eccetera. I neologismi si sprecano per nominare quella potente tendenza all’ammucchiata al centro, che dalle parti del centrosinistra si traduce nel progetto del partito democratico. Cioè, nell’intenzione di traghettare, con le buone o con le cattive, larga parte della sinistra verso l’integrazione nel modello socio-economico esistente, marginalizzando le istanze di alternativa e cambiamento.
Ma in fondo tutto questo lo sappiamo già e, semmai ce ne fosse bisogno, alcune stucchevoli polemiche seguite alla manifestazione del 4 novembre ce l’hanno ricordato. Quello che invece spesso si ignora è che non si tratta di semplici manovre di palazzo romane, ma di qualcosa di più esteso e profondo. E allora conviene volgere lo sguardo alla Lombardia, terra che tradizionalmente fa da laboratorio politico per l’intero paese, sia nel bene che nel male.
In Lombardia e a Milano l’egemonia politica e culturale delle destre, seppure indebolita rispetto a dieci anni fa, è ancora integra, così come appare tuttora irrisolta la crisi delle sinistre. Quindi non stupisce che proprio da qui parta l’offensiva più consistente, capitanata da Formigoni e, in misura minore, dalla sua collega-concorrente Moratti, per risalire la china dopo la sconfitta elettorale alle politiche. Quello che invece stupisce è che quella offensiva trovi interlocutori nella stessa Unione.
Ma cominciamo dall’inizio, cioè da quel 27 di luglio allorquando in Consiglio regionale, con i voti favorevoli del centrodestra, di Ds e Margherita, era stato approvato un ordine del giorno che consegnava a Formigoni il nulla osta per trattare con il governo nazionale alcune sciocchezzuole, tra cui il reperimento di fondi per le grandi opere autostradali (Pedemontana, Bre.Be.Mi. e Tem), il federalismo fiscale e l’avvio delle procedure per l’assegnazione alla Lombardia di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. In altre parole, una larga intesa su un pezzo di programma elettorale di Formigoni e, soprattutto, sul cavallo di battaglia del centrodestra nordista, cioè la devolution sotto mentite spoglie.
Un fatto che difficilmente può essere relegato a incidente di percorso, visto che la “mossa” era stata concordata con Enrico Letta, e che si annuncia denso di implicazioni, poiché la giunta formigoniana ha nel frattempo deliberato il documento di indirizzo per l’avvio della procedura per i poteri speciali –compresa l’istruzione-, convocato un consiglio regionale straordinario sull’argomento per il 13 e 14 novembre e annunciato la volontà di arrivare al voto formale in consiglio entro natale.
Insomma, in Lombardia la “seconda fase” sembra già in piena sperimentazione, mettendo a nudo l’indole profonda dell’operazione partito democratico. Ossia, la rinuncia ad un progetto politico alternativo e la mera competizione per la gestione dell’esistente, con tanti saluti alla nuova questione sociale che bussa alle porte. È come se i tanti anni all’opposizione nel regno di Formigoni si fossero tramutati in una gigantesca sindrome di Stoccolma in salsa padana.
A finire legittimato da quella disinvolta politica ulivista non è soltanto il presidente Formigoni, oggi appunto decisamente rafforzato, ma soprattutto il suo modello politico e sociale. Quel modello, tanto per intenderci, che privatizza il privatizzabile, salvo poi finanziarlo lautamente con denaro pubblico, come già accade con la sanità, la formazione professionale, la scuola privata  e a breve anche con i servizi al lavoro.

La Lombardia è più vicina a Roma di quello che comunemente si pensa e le performance dei sostenitori del partito democratico del nord rischiano dunque di condizionare il quadro nazionale. Ecco perché ci vorrebbe uno scatto straordinario di iniziativa e progettualità, anzitutto in loco, ma anche sul piano nazionale.

 
di lucmu (del 13/06/2007, in Politica, linkato 1193 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 13 giugno 2007
 
Quanto avvenuto sabato scorso a Roma, con le decine di migliaia di persone al corteo no war e la contemporanea desolazione di Piazza del Popolo, è la materializzazione del messaggio che le urne delle elezioni amministrative avevano recapitato appena due settimane prima. Cioè, dopo un anno di governo Prodi le sinistre, e in particolare Rifondazione, non solo appaiono logorate, ma ormai non più comprese da larga parte della propria gente.
Non è semplicemente questione di qualche errore “tattico”, come quello di non aver partecipato al corteo, quando persino i tuoi militanti e iscritti scartano in massa l’opzione Piazza del Popolo, scegliendo tra l’andare al corteo o il rimanere a casa. E non è questione di qualche temporaneo disimpegno quando alle elezioni amministrative l’astensionismo ti punisce così duramente. No, è l’esplicitarsi che la cosiddetta crisi della politica è, oggi e qui, anzitutto crisi della sinistra.
Non bisogna mai banalizzare le questioni complesse, ma forse aveva ragione Ritanna Armeni quando scriveva che il problema della sinistra è che “non fa quello che dice”. Troppo grande è, infatti, la distanza tra le aspettative e le domande sociali evocate un anno fa e la realtà concreta dell’azione di governo. Certo, ci sono i rapporti di forza, i numeri risicati al Senato, una destra aggressiva e incombente eccetera, ma tutto questo alla fine conta poco, perché una persona “normale”, che sia pacifista, lavoratore, pensionato o gay, ti giudica in base ai fatti e allo stato delle sue condizioni di vita. E da questo punto di vista il primo anno di governo, di cui le sinistre sono appunto parte, è stato un autentico disastro.
La parte moderata del centrosinistra una risposta l’ha trovata, attraversando il Rubicone con quel Partito Democratico che archivia definitivamente ogni orizzonte alternativo all’esistente e che finisce per assomigliare all’avversario. Un progetto politico nefasto, senz’altro, che forse non funzionerà nemmeno, ma che nel frattempo contribuisce a spostare a destra l’intero asse della politica. Basta guardare a quello che succede in Lombardia, che lungi dall’essere una realtà separata, è piuttosto anticipatore di processi più ampi. Da qui partì tangentopoli che diede il colpo di grazia al regime democristiano e qui nacque la nuova destra, dalla Lega a Berlusconi. Ed è qui che i fautori del Partito Democratico si esprimono senza remore, dall’attacco in stile Sarkozy alla cultura del 68 fino all’annuncio esplicito di un cambiamento delle alleanze politiche.
Una sinistra e una Rifondazione, da una parte, sotto il fuoco “amico” del Partito Democratico e prigioniere di un’azione di governo talmente insipida che il famoso programma dell’Unione sembra un pamphlet massimalista e, dall’altra, in piena crisi di rapporto non solo con i movimenti, ma anche con i propri referenti sociali. Insomma, cornuti e mazziati.
In una situazione del genere, la cosa più sbagliata che si possa fare è minimizzare e non affrontare il problema di petto. Oggi è aperta la questione della sinistra, della sua proposta politica, della sua pratica e delle sue prospettive. E, francamente, non è sufficiente immaginarsi confederazioni, nuovi soggetti unitari o sinistre europee. Beninteso, non c’è dubbio che ci voglia unità, ma questa non può esaurirsi in convegni o assemblaggi di gruppi dirigenti. Anche qui, il nodo è sempre il medesimo, cioè quello del legame con i movimenti sociali ed i ceti popolari, con i loro bisogni e il loro stato animo, senza il quale qualsiasi sinistra è destinata alla marginalità e/o alla subalternità.
L’urgenza sta nel riconquistare la credibilità perduta, rimettendo in comunicazione tra di loro il dire e il fare, e questo implica anzitutto ritornare nella società e praticare il conflitto, ma anche cambiare radicalmente registro nei confronti del governo. Certo, sappiamo bene che aleggia il fantasma del 98, ma oggi la situazione è ben diversa e andando avanti di questo passo il pullman che raggiungerà Roma non dirà “non fate cadere il governo”, bensì “tornate a casa tutti”. 
 
di lucmu (del 29/10/2007, in Politica, linkato 1090 volte)
Il seguente testo rappresenta un contributo alla discussione, nata con l’assemblea autoconvocata da diversi compagni e compagne di Rifondazione di Milano, ed è stato scritto per il blog www.fareasinistra.it.
 
A volte noi disperiamo. Ed essi confidano nella nostra disperazione
(Heriberto Montano)
 
Care compagne, cari compagni,
non avevo sottoscritto il documento “La sinistra che verrà vogliamo farla insieme”, perché non condividevo alcuni passaggi, ma ho partecipato all’assemblea del 15 ottobre all’Arci Corvetto, perché di luoghi e momenti di confronto libero c’è un terribile e urgente bisogno. In questo senso, quella sera una dose di ragione ce l’avevano coloro i quali dicevano che importante non era tanto quello che c’era scritto nel documento, quanto che fossimo lì a parlarci.
E il fatto che la partecipazione era numericamente significativa e che l’età media dei presenti era decisamente inferiore a quella che di solito riscontriamo nelle riunioni di partito, ha senz’altro confermato che lo spirito del documento e della (auto)convocazione raccoglieva un’esigenza e un sentire diffusi.
Ma il difficile viene ora, poiché quella assemblea ha evidenziato con forza che non c’è soltanto bisogno di parlarsi e di confrontarsi senza vincoli e veli, ma soprattutto di fare, di agire. In altre parole, si tratta di assumere la serata del 15 non come una felice parentesi, bensì come un punto di partenza, che possa innescare processi e partecipazione, senza che le parole e le pratiche corrano su binari separati.
Ebbene, se sono rose fioriranno, come si usa dire, ma questo dipende, in ultima analisi, da noi stessi. Quindi, come sollecitato, cerco di dare il mio piccolo contributo alla riflessione.
Penso sia consapevolezza diffusa e condivisa che viviamo un momento storico in cui è posta la questione dell’esistenza e del futuro della sinistra, cioè di una soggettività e di un progetto politici in grado di farsi interpreti e organizzatori degli interessi delle classi subalterne nella prospettiva di un’alternativa di società. Una questione non nuova, a dire la verità. Rifondazione Comunista stessa era nata proprio in questa prospettiva e, in fondo, anche la stagione dei movimenti, da Seattle e Genova in poi, poneva il problema della ricostruzione di un orizzonte politico e sociale sottratto alla miseria del pensiero unico e del governo dell’esistente. Questo e non altro rappresentava, infatti, l’esclamazione collettiva “un altro mondo è possibile”.
Una questione non nuova, appunto, che affonda le sue radici negli avvenimenti epocali della fine del secolo scorso, nelle sconfitte politiche del movimento operaio, nel crollo inglorioso dell’obbrobrio del socialismo reale e nelle modifiche intervenute nella composizione dei soggetti sociali di riferimento delle sinistre. Ma oggi quella questione si staglia in tutta la sua drammaticità di fronte a noi, in Italia e in Europa. Come sempre accade nella storia, il cambio nei rapporti di forza sociali necessità di tempo prima di produrre tutti i suoi effetti sul piano delle coscienze e della cultura. Ma oggi ci siamo, i nodi sono venuti al pettine, l’egemonia culturale appartiene ormai alle destre e ai soggetti sociali che esse rappresentano e assistiamo a uno spostamento del baricentro dell’intero quadro politico e culturale a destra.
Se non teniamo conto di questo quadro generale è difficile, anzi impossibile, leggere la situazione politica contingente. Appare, infatti, evidente che l’esperienza del governo dell’Unione ha natura transitoria. L’alleanza era nata essenzialmente per mandare a casa Berlusconi  e, una volta raggiunto l’obiettivo, i diversi progetti politici che vi convivono hanno ripreso la loro autonomia. O meglio, soprattutto il progetto del Partito Democratico lo ha fatto, cestinando in un batter d’occhio gli accordi programmatici e imponendo la sua regia e le sue scelte all’azione di governo. Il PD guarda al dopo, sta preparando il dopo, e in questo senso il logoramento sistematico delle sinistre è funzionale alla prospettiva di un nuovo sistema politico basato sulla competizione, all’americana, tra due grandi aggregazioni politiche, molto simili tra di loro e ambedue concordi sulle grandi scelte di fondo, che si scontrano per il governo dell’esistente. Un siffatto progetto non può tollerare una sinistra forte e una prospettiva di alternativa viva, né sul piano politico, né su quello sociale. Ecco perché vi è una forte analogia tra quello che avviene sul piano politico e su quello sindacale, dove ogni tendenza sindacale non compatibile con l’idea neocorporativa e subalterna (sindacalismo di base, Fiom, sinistre interne varie) deve essere schiacciata con ogni mezzo.
Ma tutto questo era in qualche modo prevedibile, poiché gli anni di protagonismo dei movimenti non hanno modificato le posizioni prevalenti nei Ds. Colpisce dunque l’impreparazione e l’improvvisazione con le quali il nostro partito ha affrontato la fase del governo Prodi, affidandosi di fatto alla navigazione a vista e finendo con l’appiattirsi sulla dimensione istituzionale, vista anche la scelta di collocare quasi l’intero gruppo dirigente nelle istituzioni. E il prezzo maggiore del continuismo del governo lo stiamo pagando proprio noi, perché gran parte del peso delle speranze e delle aspettative di cambiamento gravano sulle nostre spalle. E quando vieni percepito, soprattutto dalla tua gente, come simile o uguale agli altri, che promettono tante cose e poi fanno il contrario, allora perdi credibilità. Ne sono dimostrazione i risultati elettorali delle ultime amministrative, con un forte astensionismo nel nostro elettorato, e la vera e propria crisi di rapporto con le situazioni di movimento (da Vicenza alla Val di Susa).
Tutto questo per dire che il problema primario che oggi abbiamo di fronte non è tanto quello di capire se è meglio mantenere Rifondazione o costituire, nelle forme possibili, un nuovo soggetto della sinistra. Ambedue le ipotesi, infatti, per non diventare rispettivamente un ripiegamento identitario o un’acrobazia politicista, devono fare i conti con la natura della crisi delle sinistre e con l’attuale perdita di credibilità e di radicamento sociale.
Per dirla in altre parole, è sufficiente calare il ragionamento generale nella realtà che viviamo tutti giorni, cioè quella milanese e lombarda. Anzi, proprio qui si riescono a cogliere meglio i processi e i pericoli, perché il nostro territorio ha anticipato e anticipa quanto avviene sul piano nazionale. Qui sono nate le nuove destre che hanno dilagato, da Berlusconi alla Lega. Qui si leggevano sin dall’inizio e con maggior chiarezza le dinamiche del centrosinistra, con un PD che corre velocemente a destra, convergendo sul “modello Formigoni” e cavalcando il securitarismo, e con una sinistra incapace di uscire dalla logica della resistenza, cioè dalla difesa degli spazi fisici e politici esistenti. Insomma, il PD risponde alla crisi della sinistra, fuoriuscendo dalla sinistra, mentre noi ci chiudiamo nei fortini assediati, che diventano sempre di meno. Ed è sempre dalle nostre parti dove i soggetti sociali sono cambiati prima e più a fondo, dov’è saltato con più forza il tessuto di relazioni sociali e la precarietà si è impadronita ampiamente del lavoro e delle esistenze.
Oggi le destre riescono a comunicare con i ceti popolari, sono presenti nei quartieri. Rispondono al disagio e alle insicurezze di lavoratori, pensionati e giovani, parlando alla pancia e fornendo nemici facili e abbordabili: il rom, l’immigrato, il diverso eccetera. È razzismo e securitarismo, ma soprattutto è guerra tra i poveri.
Ma mentre tutto questo accade, noi siamo sempre meno presenti sul territorio e nei quartieri popolari. Non parliamo più alla nostra gente, perché di nostra gente si tratta, non di ricchi e borghesi. E non risolviamo il problema andando nei quartieri a dire “non prendertelo con l’immigrato, devi essere più solidale”. No, non funziona, perché la persona a cui parli vive un disagio reale, fa fatica ad arrivare alla fine del mese, non guarda al futuro con serenità e sente la politica e le istituzioni lontane dalla sua quotidianità. Ma noi, di Rifondazione e della sinistra in generale, compresa quella “antagonista”, siamo sempre meno presenti, sempre meno capaci di interloquire con il disagio, di abbozzare risposte, di organizzare vertenze e lotte. Un esempio tra i tanti? A Milano la questione casa è di primaria importanza per i ceti popolari, di ogni fascia d’età. Ma, a parte singoli compagni, il partito è completamente assente dalla questione, sia in termini di presenza organizzata, che di iniziativa e proposta politica. Anzi, la federazione milanese non dispone nemmeno di un dirigente responsabile della questione.
Oggi la priorità delle priorità è quella di ricominciare dal basso, ma per davvero, non semplicemente scrivendolo su qualche manifesto o documento. Non ci sarà né Rifondazione, né sinistra di alternativa, né sinistra plurale, né niente se non si comincerà dalla ricostruzione di una nostra internità ai nostri referenti sociali e ai loro problemi, stando nei luoghi di lavoro e sui territori. Vanno riconquistate le nostre casematte, che stanno nella società e non nei palazzi.
Ahinoi, la federazione milanese, nonostante le felici intuizioni della conferenza d’organizzazione, continua come prima e lo stesso processo di confronto con le altre forze della sinistra risente di un certo verticismo e politicismo; ovvero, non riesce a uscire dagli ambiti propri del “ceto” politico e istituzionale. Certo, non è facile fare altrimenti, ma bisogna pure iniziare da qualche parte e sperimentare pratiche, e soprattutto occorre collocarci dal punto di vista dei soggetti sociali e meno da quello delle mediazioni istituzionali e degli equilibrismi politici. E bisogna farlo subito, perché il tempo è implacabile.
In questo senso, anche i comitati che contestano l’uso e l’abuso del territorio urbano a fini speculativi, il centro sociale che ricostruisce il murale cancellato, dei lavoratori che scioperano o qualsiasi altro segno tangibile di conflittualità e vertenzialità, persino a prescindere da ogni eventuale giudizio politico di merito, non sono mai un problema, ma sempre una preziosa occasione di confronto e relazione.
Forse il compito di un ambito informale e aperto di confronto come quello nato il 15 ottobre può servire a questo, a dare un contributo in quella direzione. Ma occorre fare in fretta, anche per evitare che altri compagni e compagne si facciano vincere dalla rassegnazione.
Ovviamente, nessuno è ingenuo e tutti e tutte sappiamo che Milano non è un isola, né lo è la federazione milanese. Per forza di cose bisogna fare i conti con quanto accade nella discussione e nella pratica del partito a livello nazionale, ma noi siamo qui ed è qui dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. E così facendo, misurandoci con il fare e rompendo la logica degli schieramenti interni precostituiti e fossilizzati, forse riusciamo a dare un contributo anche più ampio.
 
di Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 29/11/2007, in Politica, linkato 3047 volte)
Abbiamo bisogno di una sinistra nuova, sociale, autonoma e aperta a chi vuole costruire un’alternativa al dominio dell'impresa, alla mercificazione delle nostre vite e all'organizzazione patriarcale della società. Pensiamo a una sinistra partecipata da soggetti e movimenti, reti e collettivi, ma anche da persone in carne ed ossa, singole e singoli, che stanno in soggetti già organizzati o che si riconoscono semplicemente nel progetto politico. Vogliamo una sinistra capace di mettere in luce le sue differenze, non per ricondurle a sintesi, ma per dialettizzarle e metterle a valore.
Attraverseremo gli Stati Generali delle sinistre di Milano con questo spirito, affinché  il loro percorso di costruzione sia il più partecipato possibile. Intendiamo intraprendere, nei tempi a cui siamo costretti, un percorso di quei tanti e tante che non vogliono rimanere a guardare, ma diventare protagonisti per il cambiamento.
Riteniamo  necessario che la sinistra rompa l'egemonia amico-nemico e si costruisca nella pratica, animando il conflitto contro la repressione e il securitarismo. Dobbiamo contrastare la deriva che trascina a destra la società italiana e, in particolar modo, quella di Milano, che ormai da tantissimi anni costituisce un laboratorio in negativo. Il Partito Democratico e pezzi di società chiedono l'inasprimento generale delle pene e trasformano comportamenti sociali in reato; la percezione di insicurezza costruita dai media spinge alla criminalizzazione dei migranti e delle differenze sessuali, e all'equiparazione di writers, manifestanti e consumatori di sostanze stupefacenti alla macrocriminalità. Siamo convinti che la prima e vera insicurezza sia la precarietà del lavoro e delle nostre esistenze, così come riteniamo che la sinistra debba avere anche la capacità di dare risposte efficaci, garantiste e non discriminatorie per tutelare, anzitutto con strumenti di prevenzione, la sicurezza di tutti e tutte in ogni suo aspetto.
Per noi che vogliamo costruire una nuova sinistra, la sicurezza passa, innanzitutto, anche se non solo, attraverso il welfare, la riqualificazione dei quartieri popolari e politiche non proibizioniste, capaci di promuovere la cittadinanza, l’inclusione e nuove forme di aggregazione nelle periferie e nei luoghi bui della nostra metropoli; passa attraverso la denuncia e la lotta contro la nascita di centri di reclutamento dell'estrema destra xenofoba e razzista, che a Milano ha trovato il suo triste epilogo in "Cuore Nero".
Per queste ragioni proponiamo il tema della Sicurezza Sociale come uno degli elementi centrali della discussione, capace di attraversare gli Stati Generali della sinistra milanese.
 
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