Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Domenica e lunedì si vota per i referendum. Voteremo per tutti e quattro i referendum nazionali, visto che ieri la Corte Costituzionale ha fatto naufragare anche l’ultima furbizia del Governo, che voleva impedire ai cittadini e alle cittadine di esprimersi liberamente sull’energia nucleare. A Milano, poi, voteremo anche per i cinque referendum cittadini “consultivi di indirizzo”.
In questa sede ci risparmio, ovviamente, una dettagliata argomentazione della mia posizione favorevole ai quesiti referendari, poiché considero questo blog da sempre sufficientemente schierato sul merito delle questioni sollevate (beni comuni, energia pulita, uguaglianza davanti alla legge, temi ambientali). Mi limito pertanto a ribadire il miei sì ai 4 referendum nazionali (per l’acqua pubblica, per fermare le centrali nucleari e per abrogare l’ennesima legge ad personam di Berlusconi) e a dire che penso di votare sì anche ai 5 quesiti milanesi, che sono certamente soltanto di carattere consultivo e sicuramente non perfetti, ma ritengo che un responso positivo dell’elettorato aiuterebbe non poco il nuovo Sindaco ad indirizzare la politica cittadina verso una maggior sensibilità all’ambiente, allo sviluppo del trasporto pubblico e al contrasto della cementificazione.
Detto e ribadito questo, arriviamo però al punto vero. Cioè, come hanno dimostrato le truffe governative tese a far saltare dei quesiti all’ultimo momento (sul nucleare anzitutto) e lo scandaloso boicottaggio informativo sulle tv, la vera partita si gioca sul quorum (serve il 50% più uno di affluenza alle urne perché il referendum sia valido), visto che ormai tutti danno per scontato che i “sì” prevarranno sui “no”. Ecco perché è decisivo, da parte nostra, usare questi ultimi giorni per convincere più persone possibili ad andare alle urne e per far circolare una corretta informazione su che cosa è in gioco con questi referendum. Quest’ultimo aspetto, poi, è ancora più importante per quanto riguarda Milano, perché gli elettori milanesi si troveranno in mano ben 9 schede e la maggior parte neanche lo sa!
Quindi, nel rinnovarvi l’invito pressante ad andare a votare e convincere anche altri ed altre a farlo, eccovi di seguito le informazioni su quando, come e cosa si voterà domenica e lunedì.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
QUANDO votare
Le urne sono aperte domenica 12 giugno, dalle 8:00 alle 22:00, e lunedì 13 giugno, dalle 7:00 alle 15:00.
 
COME votare
Occorre, come già al ballottaggio di due settimane fa, un documento d’identità e la tessera elettorale. Se avete smarrito quest’ultima durante i festeggiamenti per la vittoria di Pisapia, allora dovete andare in Comune a farvene rilasciare una nuova (i milanesi trovano tutte le info al riguardo qui).
Votare è semplicissimo, perché basta mettere su ogni scheda (4 per i referendum nazionali e 5 per quelli milanesi) una X sull’opzione prescelta, cioè sul SÌ (ricordo che nel caso dei referendum nazionali votare “sì” significa abrogare le norme sottoposte a referendum, mentre nel caso di quelli consultivi cittadini votare “sì” significa rispondere affermativamente alla domanda posta sulla scheda).
In allegato a questo post trovate dei facsimile delle schede.
 
COSA si vota
 
Referendum nazionali (riporto le denominazioni sintetiche, così come formulate dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte Suprema di Cassazione):
 
referendum popolare n. 1Scheda di colore rosso - Modalità e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione; il quesito prevede l'abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a operatori economici privati.
referendum popolare n. 2Scheda di colore giallo - Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norme; il quesito propone l'abrogazione delle norme che stabiliscono la determinazione della tariffa per l'erogazione dell'acqua, il cui importo prevede attualmente anche la remunerazione del capitale investito dal gestore.
referendum popolare n. 3Scheda di colore grigio - Abrogazione dei commi 1 e 8 dell'articolo 5 del dl 31 marzo 2011 n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 26 maggio 2011, n. 75. Abrogazione parziale di norme; il quesito propone l'abrogazione delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare.
referendum popolare n. 4Scheda di colore verde - Abrogazione di norme della legge 7 aprile 2010, n. 51, in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale, quale risultante a seguito della sentenza n. 23 del 2011 della Corte Costituzionale; il quesito propone l'abrogazione di norme in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale, quale risultante a seguito della sentenza n. 23 del 2011 della Corte Costituzionale.
 
Referendum cittadini consultivi di indirizzo (Comune di Milano):
 
Referendum n. 1 - Scheda di colore marrone - richiesta di referendum consultivo d’indirizzo per ridurre traffico e smog attraverso il potenziamento dei mezzi pubblici, l’estensione di “ecopass” e la pedonalizzazione del centro:
“Volete voi che il Comune di Milano adotti e realizzi un piano di interventi per potenziare il trasporto pubblico e la mobilità “pulita” alternativa all’auto, attraverso l’estensione a tutti gli autoveicoli (esclusi quelli ad emissioni zero) e l’allargamento progressivo fino alla “cerchia ferroviaria” del sistema di accesso a pagamento, con l’obiettivo di dimezzare il traffico e le emissioni inquinanti?
In particolare gli interventi richiesti sono:
a. il raddoppio entro il 2012 dell’estensione delle aree pedonali, sia in centro che in periferia, comprendendo per lotti l’intera area della Cerchia dei Navigli a partire dal “Quadrilatero della moda”;
b. il raddoppio entro il 2012 delle aree a traffico moderato (zone a 30 Km/h) e la realizzazione di interventi per la sicurezza stradale dei quartieri residenziali;
c. la realizzazione entro il 2015 di una rete di piste ed itinerari ciclabili integrati e sicuri di almeno 300 km ed il raddoppio entro il 2012 degli stalli di sosta per le biciclette;
d. la protezione e “preferenziazione” di tutte le linee di trasporto pubblico entro il 2015, in modo da aumentarne velocità e regolarità;
e. l’introduzione in tutta la città, a partire dalle aree periferiche, di un servizio diffuso diurno e notturno di “bus di quartiere” in collegamento con le principali fermate del trasporto pubblico, senza costi aggiuntivi rispetto al titolo di viaggio;
f. l’estensione sull’intero territorio cittadino del servizio di bike sharing, raggiungendo 10.000 bici entro il 2012 e del servizio di car sharing raggiungendo 1.000 auto elettriche entro il 2012;
g. il prolungamento dell’orario di servizio delle linee metropolitane fino alle ore 1.30 tutte le notti;
h. il potenziamento del servizio taxi mediante il ripristino del secondo turno che garantisca fino a 8 ore aggiuntive di servizio (“seconda guida”);
i. il ripristino del divieto di circolazione e carico e scarico merci nella Cerchia dei Bastioni nelle fasce orarie di picco del traffico mattutine e pomeridiane e la promozione di un sistema di trasporto condiviso con veicoli elettrici;
j. l’estensione della regolamentazione della sosta in tutta l’area compresa all’interno della “cerchia filoviaria” e nelle aree circostanti gli assi delle metropolitane, con esclusione del pagamento dei soli residenti e per i veicoli ad emissioni zero;
k. incentivi a sostegno del trasporto pubblico”.
 
Referendum n. 2 - Scheda di votazione di colore azzurro - richiesta di referendum consultivo d’indirizzo per raddoppiare gli alberi e il verde pubblico e ridurre il consumo di suolo:
“Volete voi che il Comune di Milano adotti tutti gli atti ed effettui tutte le azioni necessarie a: ridurre il consumo di suolo destinando almeno il 50% delle grandi superfici oggetto di riqualificazione urbanistica a verde pubblico ed escludendo l’assegnazione di diritti edificatori a fronte della realizzazione di “servizi” che comportino consumo di suolo; preservare gli alberi e le aree verdi esistenti; garantire il raddoppio del numero di alberi e dell’estensione e delle aree verdi e la loro interconnessione entro il 2015, assicurando che ogni residente abbia a disposizione un giardino pubblico con aree attrezzate per i bambini a una distanza non superiore a 500 metri da casa?”.
 
Referendum n. 3 - Scheda di votazione di colore viola - richiesta di referendum consultivo d’indirizzo per conservare il futuro parco dell’area EXPO:
“Volete voi che il Comune di Milano adotti tutti gli atti ed effettui tutte le azioni necessarie a garantire la conservazione integrale del parco agroalimentare che sarà realizzato sul sito EXPO e la sua connessione al sistema delle aree verdi e delle acque?”.
 
Referendum n. 4 - Scheda di votazione di colore blu - richiesta di referendum consultivo d’indirizzo per il risparmio energetico e la riduzione della emissione di gas serra:
“Volete voi che il Comune di Milano adotti il piano per l’energia sostenibile ed il clima che lo impegni negli obiettivi europei di riduzione di almeno il 20% delle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra nel dimezzamento delle principali emissioni inquinanti connesse al riscaldamento degli edifici?
All’interno del piano devono essere previsti i seguenti interventi:
1. la conversione entro il 2012 di tutti gli impianti di riscaldamento alimentati a gasolio degli edifici comunali;
2. la conversione degli impianti di riscaldamento domestico alimentati a gasolio fino alla loro completa eliminazione entro il 2015;
3. la previsione della classe energetica di massima efficienza come standard di costruzione per tutti i nuovi edifici e l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili;
4. la promozione e la diffusione del teleriscaldamento, utilizzando fonti rinnovabili e tecnologie ad alta efficienza, al fine di raggiungere almeno 750.000 abitanti equivalenti entro il 2015;
5. la concessione di incentivi per la demolizione e ricostruzione (“rottamazione”) degli edifici a maggiore inefficienza energetica e privi di valore storico e architettonico attraverso premi volumetrici”.
 
Referendum n. 5 - Scheda di colore rosa - richiesta di referendum consultivo d’indirizzo per la riapertura del sistema dei Navigli milanesi:
“Volete voi che il Comune di Milano provveda alla risistemazione della Darsena quale porto della città ed area ecologica e proceda gradualmente alla riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi sulla base di uno specifico percorso progettuale di fattibilità?”
 

Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare i facsimile delle schede dei 4 referendum nazionali e dei 5 referendum consultivi milanesi (ATTENZIONE: il facsimile della scheda n. 3 del referendum popolare nazionale è ancora quello vecchio, perché non è ancora disponibile il facsimile della scheda rifatta in base alla riformulazione della Cassazione, poi confermata ieri dalla Corte Costituzionale).
 

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Il quorum c’è ed i “sì” sono praticamente un plebiscito. In altre parole, nel nostro paese l’acqua deve rimanere pubblica, il nucleare non tornerà e il “legittimo impedimento” di Berlusconi non sarà più legittimo.
Un risultato straordinario, ottenuto nonostante lo spudorato boicottaggio informativo e comunicativo da parte del Governo. E anche una continuazione ideale dell’ondata di partecipazione dal basso che due settimane fa aveva mandato a casa i governi cittadini della destra di Milano, Napoli, Cagliari e altre città.
La vittoria dei “sì” è un’indubbia e pesante sconfitta politica per il Governo e le destre, checché ne dicano ora, poiché vengono abrogate delle leggi volute, scritte ed approvate da loro.
Ma la vittoria dei “sì” è anche molto di più, perché l’approvazione dei quesiti sull’acqua e sul nucleare rappresenta una scelta di merito politico che va ben oltre gli schieramenti. Cioè, vengono bocciate delle opzioni politiche che spesso hanno trovato –e tuttora trovano- consenso anche in settori del centrosinistra. Anzi, per dirla tutta, le principali privatizzazioni dell’acqua nel nostro paese erano state avviate proprio da amministrazioni di centrosinistra.
E questo significa, se vogliamo leggere quanto avvenuto tra le elezioni amministrative e il referendum con un minimo di sano ottimismo, che il movimento di opinione e di partecipazione che sta crescendo in Italia non chiede soltanto di cacciare Berlusconi, ma anche di costruire delle politiche chiaramente alternative a quelle liberiste ed oligarchiche imperanti.
Beninteso, con questo non vogliamo dire che sta per sorgere il sol dell’avvenire -figuriamoci-, né che ora il baricentro del centrosinistra si sia spostato magicamente a sinistra, ma molto più semplicemente che la cosa si fa seria, che ora abbiamo una possibilità.
Vi sembra poco? A me sembra moltissimo. Il resto, come sempre quando si è di fronte a una possibilità, dipende da noi, da quello che sapremo fare o non fare.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Capitano dei momenti in cui la statura morale e politica di chi governa il paese si rispecchia e si riassume fedelmente in un atto o in una decisione. E questo è senz’altro il caso di quanto avvenuto ieri nella riunione n. 143 del Consiglio dei Ministri, che ha pensato bene di reagire alla sempre più incalzante crisi politica nella maniera più misera ed vigliacca possibile, prendendosela con i migranti.
Ci sono diverse misure nel decreto-legge, come il ripristino della procedura di espulsione coattiva immediata (in realtà già in vigore oggi…) o l’espulsione per motivi di ordine pubblico anche di cittadini comunitari, e c’è pure l’annuncio di un accordo con il Comitato transitorio di Bengasi in tema di flussi migratori, giusto per tornare ai bei tempi di Gheddafi. Tuttavia, il provvedimento simbolo è sicuramente il prolungamento del periodo massimo di detenzione amministrativa nei Cie (ex-Cpt) per immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, da 6 a 18 mesi!
Un provvedimento infame non soltanto perché stabilisce che delle persone possano essere private della libertà personale fino a un anno e mezzo senza aver commesso o essere accusati di aver commesso un reato (perché altrimenti vai in carcere e non nel Cie), senza subire un processo e senza nemmeno vedere un giudice vero, poiché è sufficiente l’atto di convalida da parte di un giudice di pace, ma anche perché è un provvedimento assolutamente inutile ai fini che dichiara di voler perseguire, cioè facilitare ed accelerare le espulsioni di clandestini.
Infatti, a sbugiardare il Ministro Maroni c’è anzitutto il precedente del “pacchetto sicurezza” del 2009, che introdusse il reato di clandestinità (nel frattempo bocciato dall’Europa) e innalzò il periodo di detenzione nei Cie a 6 mesi, ottenendo però come unico effetto concreto la drastica riduzione del numero di espulsioni, come aveva denunciato in splendida solitudine Il Sole 24 Ore l’anno scorso (vedi il nostro articolo Cie (ex-Cpt) via Corelli: i dati dei giudici di pace sbugiardano Lega e De Corato).
Ma poi c’è anche la più elementare matematica a contraddire la tesi leghista, visto che è palese che l’allungamento del periodo medio di permanenza dei trattenuti nelle strutture tenderà a ridurre l’offerta complessiva di posti liberi nel sistema Cie in un dato intervallo di tempo. A meno che, ovviamente, il Governo non voglia costruire nuovi Cie in giro per l’Italia, ma di tutto questo attualmente non c’è traccia.
Insomma, quella di ieri è soltanto una triste e misera farsa, uno spettacolo vigliacco allestito ad uso e consumo di una Lega uscita malconcia dalla prova elettorale, ma che non inciderà minimamente sui problemi del paese e nemmeno sulle dinamiche migratorie, ma che in cambio arreca un’ulteriore offesa allo stato di diritto, ai principi costituzionali e ai diritti umani.
Berlusconi, Bossi e La Russa pensano di salvare così il loro potere e i loro affari, riproponendo cioè la collaudata macchina della paura e del rancore. C’è da augurarsi che gli italiani e le italiane non ci ricaschino, così come non ci sono ricascati alle ultime amministrative, ma che, anzi, rimandino rumorosamente al mittente l’infamata di ieri.
 
Luciano Muhlbauer
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo completo dello schema di decreto-legge recante “Disposizioni urgenti per la completa attuazione della Direttiva 2004/38/CE e per il recepimento della Direttiva 2008/115/CE”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 giugno 2011
 

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Come preannunciato e rivendicato preventivamente dal Ministro degli Interni, il leghista Maroni (quello di “padroni a casa nostra”), il presidio e le barricate dei valsusini sono stati spazzati via militarmente, mediante la più grossa operazione di polizia dai tempi del G8 di Genova: circa 2.500 uomini delle forze dell’ordine sono stati impegnati. Ovviamente, non c’era partita, perché gli abitanti della Val di Susa e quanti e quante, solidali con loro, sono presenti sul posto sin da ieri sera, non sono un esercito, né vogliono esserlo.
Sono rimasti dunque inascoltati gli appelli che chiedevano di fermare l’intervento di forza e di aprire invece un grande confronto nazionale, come quello reso pubblico ieri e sottoscritto da diversi esponenti della società civile, tra cui anche il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, e il presidente dell’Arci, Paolo Beni.
Ora il Governo Berlusconi-Lega canterà vittoria e molta parte dell’opposizione sarà purtroppo d’accordo con loro. Ma noi no! E siamo convinti che anche tanta parte di quel popolo che in Italia ha ripreso la parola, con il voto amministrativo e con i referendum, la pensi così. Anzitutto e soprattutto, perché non si mandano gli eserciti contro le popolazioni.
 
In molto città si stanno organizzando mobilitazioni di solidarietà con i valusini e i no tav e di richiesta di fine immediata dell’intervento delle forze dell’ordine. A Milano l’appuntamento è alle ore 18.00 in piazza San Babila.
 
Il primo soggetto a lanciare l’appuntamento in San Babila è stato il Comitato No Expo, al quale si sono subito aggiunte diverse realtà di movimento e, mentre scriviamo, stanno per partire anche i comunicati di adesione al presidio di Fiom Milano e Arci Milano e siamo certi che altre adesioni seguiranno.
 
Invitiamo quindi tutt* quant* ad esserci alle ore 18 in San Babila, per dare un segno di solidarietà ai valsusini e per chiedere la fine immediata dell’intervento di polizia.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Il vento è cambiato è l’espressione più diffusa per descrivere quanto è successo nel nostro paese in questi ultimi mesi, per dare senso generale allo splendido risultato delle elezioni amministrative e alla netta affermazione dei referendum popolari, su temi peraltro fortemente caratterizzati politicamente e culturalmente.
Indubbiamente, qualcosa di grosso sta succedendo, perché non solo ora si intravede davvero la fine del ciclo berlusconiano-leghista, ma soprattutto si è affacciato prepotentemente un nuovo protagonismo democratico, dal basso e giovane, come non si vedeva da tanto tempo.
Una partecipazione straordinaria, una vera e propria riappropriazione dello spazio pubblico e della politica, manifestatasi ben oltre –e forse a prescindere- i confini dei partiti politici dell’opposizione. Un movimento che si è impadronito della rete, delle piazze e di mille iniziative, ma anche un movimento fragile, perché esprime molte più domande ed aspettative che risposte. Un movimento non tanto dissimile poi, nella sua ansia di futuro e cambiamento, dagli indignati di Madrid e Atene, con la differenza che qui ed ora ha trovato degli obiettivi a positivo, come Pisapia o De Magistris e come i referendum popolari.
Insomma, è ampiamente giustificata l’ondata di ottimismo e gioia che si è liberata dopo le amministrative e i referendum, poiché siamo di fronte a una possibilità straordinaria di cambiare. Ma, com'è risaputo, vincere due battaglie, anche se importanti, non significa affatto aver vinto la guerra e sconfiggere l’avversario non significa avere pronta l’alternativa, specie in tempi di crisi ed austerity.
Anzi, le politiche dell’austerità, che postulano la salvezza delle banche e il sacrificio delle popolazioni, per ovvi motivi tendono a non gradire troppo la democrazia e la partecipazione. Lo sanno bene in Grecia, in Portogallo o in Irlanda, dove non importa chi e come votano gli elettori, tanto le politiche le decidono le banche centrali e i fondi monetari. E lo sentiamo ogni giorno al notiziario, perché basta che una privatissima agenzia di rating faccia vedere il pollice verso perché interi Stati sovrani vengano spinti verso il baratro della bancarotta.
Ma soprattutto c’è il fatto che il grado di democrazia di una nazione si misura nei luoghi di lavoro, dove ognuno e ognuna di noi, se non è disoccupato, passa buona parte della sua vita. E da questo punto di vista non stiamo andando affatto bene. Precari a parte, i quali per definizione non dispongono di diritti, gli ultimi 12 mesi sono stati segnati dall’assalto di Marchionne, al quale fondamentalmente interessa la Fiat, ma che per forza di cose ha determinato l’apertura di una questione generale.
Ma dal punto di vista che ci interessa qui, quello del vento che cambia, anche la fiera resistenza operaia a Pomigliano e Mirafiori e la coerenza della Fiom hanno aperto una questione generale, poiché la carica democratica e partecipativa è quasi subito fuoriuscita dalla fabbrica, occupando uno spazio politico e simbolico ampio e vasto, come aveva dimostrato la straordinaria manifestazione voluta dalla Fiom il 16 ottobre scorso. Anzi, osiamo affermare che le battaglie ed i movimenti messisi in moto nell’autunno scorso –gli operai, gli studenti, i comitati per i beni comuni- sono stati determinanti per innaffiare il campo che poi avrebbe fatto germogliare le primavere di Milano, Napoli e di altre città.
E una delle principali materie del contendere a Pomigliano e Mirafiori è costituita propria dalla questione democratica, cioè dalla domanda del chi decide, cosa decide e come decide. Infatti, i contratti aziendali sostitutivi del contratto nazionale aboliscono le elezioni dei delegati sindacali (Rsu) da parte degli operai –ci saranno soltanto i “delegati” nominati (Rsa) dalle segreterie di quei sindacati che hanno firmato il contratto di Marchionne-, rendono sanzionabile l’esercizio del diritto di sciopero mediante la clausola dell’esigibilità e di consultazione dei lavoratori e delle lavoratrici non si parla neanche più. Insomma, comanda il padrone, l’operaio lavora in silenzio e il “sindacalista” garantisce l’ordine.
In altre parole, un bel bavaglio per tutti e tutte è l’altra faccia della medaglia della politica dell’austerity. Una cosa scandalosa che dovrebbe suscitare la più netta delle opposizioni da parte di ogni sindacato degno di questo nome. E qualcuno quella opposizione effettivamente l’ha fatta, come la Fiom e i sindacati di base o come molti lavoratori e lavoratrici. A molti sembrava che anche la Cgil potesse resistere al richiamo della foresta, specie ora, con il vento che è cambiato, con le piazze piene e con quel nuovo entusiasmo democratico che attraversava la società. Invece no, non è andata così, anzi!
L’accordo interconfederale tra Confindustria, Cisl, Uil e Cgil, siglato il 28 giugno, rappresenta un grave passo indietro e un cedimento altamente significativo. Basta leggerlo, anche se non si conosce il sindacalese, per capire che vi hanno trovato notevole spazio tutti i principali temi che stanno a cuore a Confindustria, al Governo e a Bonanni, dall’esigibilità dei contratti (leggi: norme antisciopero) alla blindatura della rappresentanza, passando per la derogabilità del contratto nazionale, destinato a questo punto a diventare poco più di una cornice.
Se la firma della Cgil sotto questo accordo verrà confermata si apriranno tempi difficili e cupi per la democrazia e le libertà sindacali nel nostro paese e per tutte le forze sindacali ancora indipendenti da padroni e governo. Ma non basta, perché è evidente che i suoi effetti andrebbero ben oltre i confini delle aziende, assumendo una valenza generale, di negazione manifesta del vento di cambiamento e della straordinaria partecipazione civica e politica.
Insomma, questi mesi hanno indicato una via, cioè che il cambiamento si costruisce nella società e non nei palazzi, investendo sulla partecipazione libera e democratica degli uomini e delle donne. L’accordo firmato ieri ne indica un’altra, opposta e pericolosa per i lavoratori e, più in generale, per la possibilità di costruire un’alternativa non solo a Berlusconi, ma soprattutto al berlusconismo e alle politiche dell’austerity.
 
Luciano Muhlbauer
 
Questo articolo è stato pubblicato anche sul giornale on line Paneacqua.eu il giorno 30 giugno.
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo dell’Accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, siglato il 28 giugno 2011
 

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di lucmu (del 14/07/2011, in Politica, linkato 1269 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 14 luglio 2011
 
Tutti uniti, tutti responsabili, tutti coesi in nome della nazione strapazzata e delle richieste dei mercati. E così, la mega manovra da oltre 70 miliardi di euro sarà approvata in un lampo, senza inutili discussioni e sterili proteste. Le banche centrali e i commissari europei applaudono, le agenzie di rating annuiscono e gli speculatori, per ora, tornano ad occuparsi dei Pigs (Portogallo-Irlanda-Grecia-Spagna).
Insomma, a sentire la vulgata massmediatica del momento, l’abbiamo scampata bella. Siamo stati bravi. Persino il governo, ormai in avanzato stato di putrefazione politica, ha dato prova di apparente serietà e l’opposizione ha finalmente dimostrato di essere fit to govern, come direbbero gli anglosassoni. Anzi, si ricomincia pure a parlare di governi tecnici, di transizione, di unità nazionale e chi più ne ha più ne metta, tanto la questione è non andare al voto subito e condividere a 360 gradi la responsabilità dei sacrifici.
Già, perché ci sono i sacrifici e quelli toccano ai soliti noti. E questa volta sono proprio una bella botta, che colpisce un tessuto sociale ed economico già indebolito da anni di crisi e misure anticrisi. Evitiamo qui di fare l’elenco dettagliato dei tagli e dei balzelli, perché basta ricordare i titoli per capire chi pagherà il conto.
Tra interventi sulle pensioni, ticket sanitari, tagli alle agevolazioni fiscali e blocchi sempre più lunghi degli stipendi nella pubblica amministrazione, ai quali vanno aggiunti i micidiali effetti differiti dei tagli alle Regioni e agli enti locali, è evidente che la manovra massacra il reddito e le condizioni di vita di chi vive del proprio lavoro, fisso o precario che sia, e di chi il lavoro neanche ce l’ha.
“Ci dispiace, ma non possiamo farci niente, ce lo chiedono i mercati”, è il refrain che ricorda tanto il TINA (There is no alternative) di thatcheriana memoria, ma stranamente tutti si dimenticano poi di spiegare chi sono questi benedetti “mercati”. Infatti, lungi dall’essere posti anonimi dove agiscono mani invisibili, i mercati sono luoghi dominati da concretissimi interessi e poteri, con tanto di nome e cognome. Ne volete uno, tanto per rompere l’omertà? Eccovelo: Raymond Dalio, reddito annuo di 2,5 miliardi di dollari (secondo Fortune), fondatore di “Bridgewater Associates”, il più grande hedge fund al mondo, il quale dispone di una massa attiva di 92 miliardi di dollari.
Sono uomini come Dalio che decidono cosa succede nelle borse, chi vive e chi muore. E con loro ci sono anche quegli archetipi del conflitto di interessi che si chiamano agenzie di rating. Basta un cenno di “Moody’s”, di “Fitch” o di “Standard & Poor’s” e interi Stati sovrani rischiano la rovina. E il punto non è sapere se abbiano sempre ragione o torto nei loro giudizi, bensì che dispongano di quel pazzesco potere che gli permette di autoavverare le loro profezie, a prescindere dal fatto che abbiano ragione o torto.
In altre parole, in quei mercati non risiedono le soluzioni, bensì parte significativa dei problemi. Anzi, proprio la follia e l’insostenibilità di un siffatto governo dell’economia mondiale è la prova dell’urgenza di un radicale cambiamento. Beninteso, non siamo degli ingenui e sappiamo bene che non basta affermare queste cose perché la realtà cambi e che, invece, occorrerà una lotta titanica e una cooperazione sul piano europeo ed internazionale. Ma da qualche parte bisogna pure cominciare. O no?
E insistiamo con questo quesito, perché tutto questo unanimismo nasconde troppe cose non dette. Anzitutto, perché a nessuno sfugge che l’insieme delle misure anticrisi, identiche in tutta Europa, tendono a ridisegnare complessivamente il modello sociale del dopoguerra, in senso classista, liberista ed escludente. E con esso, ovviamente,  anche il modello politico, che assume tratti sempre più autoritari nel rapporto tra governo e popolo, sebbene in un quadro formalmente democratico. Se volessimo trovare un paradigma ispirato all’attualità, allora potremmo trovarlo in Val di Susa.
E non è affatto un caso che il vento del cambiamento che abbiamo respirato in primavera, con le elezioni amministrative ed i referendum, fosse caratterizzato da una massiccia domanda di democrazia e partecipazione e da una volontà manifesta di riappropriazione della sfera pubblica e, in ultima analisi, del proprio futuro. E non è nemmeno un caso che quella caratteristica la troviamo anche nei movimenti in giro per l’Europa, da Atene a Madrid, o per il Maghreb e il Medio Oriente.
Insomma, oggi e qui la questione è cosa vogliamo fare di fronte alla crisi economica e politica, in che direzione vogliamo lavorare. Per semplificare all’estremo, di direzioni di marcia possibili ce ne sono due. Una è quella indicata dai movimenti e sommovimenti che fanno concretamente quel famoso vento che è cambiato, che mettono in discussione le politiche economiche depressive e che esprimono una straordinaria potenzialità democratica, sia in termini di salvaguardia di beni comuni e diritti, che di partecipazione attiva. La seconda, invece, è quella indicata dalla politica dell’union sacrée attorno al governo dell’esistente e al patto con i poteri economici e finanziari dominanti.
Ed è bene essere consapevoli che le due strade non sono compatibili e tendono a confliggere, come stanno dimostrando proprio gli avvenimenti di questi giorni. In primo luogo, è stata proprio la logica dell’unità e coesione nazionale a fare da levatrice all’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria di due settimane fa, il cui obiettivo è palesemente la normalizzazione della Fiom e il restringimento della democrazia sui luoghi di lavoro.
In secondo luogo, la pesante stretta nella manovra economica sugli enti locali, compresa la norma che inserisce nel patto di stabilità interno il criterio delle “dismissioni di partecipazioni societarie” (leggi: privatizzazioni), inciderà in maniera significativa sulle esperienze di governo locale nate in primavera. Un esempio ante litteram di che cosa questo significhi l’abbiamo avuto proprio ieri a Milano, quando il Sindaco Pisapia ha confermato l’accordo sulle aree per l’Expo, così com’era stato elaborato dalla Moratti e da Formigoni, cioè consentendo la valorizzazione delle aree con la loro trasformazione da agricole in edificabili.
Beninteso, questo esito era nell’aria da settimane, perché dopo i tre anni spesi dalla destra unicamente per farsi la guerra sulla gestione dell’affare immobiliare dietro l’Expo, si era ormai giunti al dunque e l’unica alternativa possibile (a parte un’improbabile decisione di non fare più l’Expo) era trovare in extremis le non poche risorse finanziarie aggiuntive che permettessero di realizzare il progetto dell’orto globale, come chiesto dall’assessore Boeri. Considerato che difficilmente Governo e Regione avrebbero messo mano al portafoglio, avrebbe dovuto pensarci il Comune di Milano, che però deve già fare fronte agli enormi buchi di bilancio lasciati dall’amministrazione precedente, nonché ai tagli dei fondi in arrivo da Roma.
Insomma, con la leva dei soldi e delle compatibilità finanziarie imposte dal centro, che sarebbe poi l’esatto contrario del tanto reclamizzato federalismo, si riesce a mettere la camicia di forza agli enti locali, espropriando i cittadini-elettori della loro sovranità. Ma ricatto o no, chi a primavera ha votato per il cambiamento, ora si aspetta dei fatti in coerenza con il suo voto e non si accontenta della spiegazione razionale delle difficoltà del momento. Un bel problema in prospettiva, con questa manovra, perché se uccidi la speranza non rimane che la smobilitazione oppure il rifugio in forme di contestazione difficilmente riconducibili a un progetto capace di esprimere un’alternativa al potere esistente.
Insomma, tra le vittime programmate di questo tutti uniti sulla manovra non troviamo solo le condizioni di vita delle fasce sociali che vivono del proprio lavoro, ma anche la stessa speranza di cambiamento, che a quanto pare suscita preoccupazione non soltanto a destra. E quindi vi è una ragione in più per non farsi incantare dall’union sacrée.
 
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Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 18 luglio 2011
 
Ma chi ha vinto la causa sul contratto di Pomigliano? La Fiat o la Fiom o chi? Un quesito tutt’altro che banale, vista l’altalena di interpretazioni e dichiarazioni contrastanti che si sono susseguite dopo la pubblicazione della sentenza del giudice del lavoro di Torino, sabato notte.
Da parte nostra, sebbene sia necessario attendere le motivazioni della sentenza per una valutazione definitiva, anticipiamo da subito che consideriamo di capitale importanza il fatto che sia stata dichiarata illegittima l’espulsione manu militari della Fiom dallo stabilimento di Pomigliano (e quindi anche di Mirafiori), poiché questo significa che la Fiom continuerà ad esistere in Fiat e che dunque continuerà ad esistere, sebbene in condizioni difficili, la possibilità perché i lavoratori possano esprimersi liberamente e in maniera indipendente. In altre parole, chi pensava di cancellare la Fiom ha fatto male i conti e la partita non è affatto chiusa.
Ma vediamo da vicino questa sentenza.
Anzitutto, occorre formulare un’avvertenza. Cioè, ad oggi conosciamo soltanto il dispositivo, ma mancano ancora le motivazioni della sentenza, che verranno depositate dal giudice del lavoro, Vincenzo Ciocchetti, entro 60 giorni. Segnaliamo questo fatto perché nel caso in questione le motivazioni sono di cruciale importanza per capire tutte le implicazioni delle decisioni del tribunale di Torino.
In secondo luogo, va detto chiaramente che Marchionne e la Fiat si portano a casa un risultato importante, che avrà delle conseguenze ben oltre il perimetro degli stabilimenti italiani del gruppo Fiat-Chrysler, visto che la sentenza riconosce la legittimità della stipula di contratti di lavoro aziendali in sostituzione di quelli nazionali e del meccanismo della costituzione ad hoc di nuove società (newco) dove riassumere con contratto diverso i propri dipendenti.
Terzo, è più che probabile che l’accordo interconfederale tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria del 28 giugno scorso, sebbene giuridicamente estraneo alla causa, abbia però influito non poco sulle decisioni finali del giudice. Infatti, non sembra un caso che quell’accordo sia stato portato in tribunale in extremis, cioè lo stesso sabato, proprio dai legali della Fiat a sostegno della propria posizione, anche se fino al giorno prima la stessa Fiat sparava a zero su quell’intesa, perché ritenuta insufficiente. Insomma, giuridicamente irrilevante, ma politicamente pesante…
In quarto luogo, eccoci al punto positivo: il giudice ha dato torto marcio alla Fiat sul punto dell’estromissione della Fiom dalla fabbrica di Pomigliano, in quanto non firmataria del contratto della newco (“dichiara antisindacale la condotta posta in essere”). E, pertanto, il tribunale “ordina a Fabbrica Italia Pomigliano S.p.A. di riconoscere, in favore di Fiom-Cgil, la disciplina giuridica come regolata dal Titolo Terzo (…), artt. da 19 a 27, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori)”.
Per i non addetti ai lavori, ricordiamo che gli articoli in questione stabiliscono il diritto di costituire rappresentanze sindacali, indire assemblee, avere permessi sindacali e disporre del diritto di affissione e di un locale per le rappresentanze. Insomma, avere agibilità sindacale. Tuttavia, qui c’è anche un’apparente contraddizione nel dispositivo della sentenza, poiché il famoso articolo 19 della legge 300, così come modificato dal referendum del 1995, afferma che tutti questi diritti ci sono soltanto per le organizzazioni “firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva” e la Fiom, appunto, non è firmataria.
Orbene, in attesa delle motivazioni della sentenza, che chiariranno definitivamente questo aspetto, sottolineiamo però che allo stato soltanto alcuni esponenti di Cisl e Uil interpretano la sentenza in senso restrittivo, mentre non solo la Fiom, ma anche, ad esempio, il Prof. Maresca, nella sua lunga intervista su il Sole 24 Ore di ieri, ritiene che la firma non sia necessaria.
Insomma, per concludere questa lunga argomentazione, possiamo senz’altro affermare che la Fiom non esce con le ossa rotte da questa causa e che anzi ottiene un risultato importante in termini di agibilità sindacale.
Un risultato, peraltro, dal significato più generale in termini di difesa della democrazia sui luoghi di lavoro, perché ribadisce la vigenza del principio costituzionale che “l’organizzazione sindacale è libera” (art. 39) e che non è una variabile dipendente degli interessi del padrone e/o di qualche sindacato complice.
Poi, certo, Marchionne passa con le newco, la sostituzione del contratto nazionale o le deroghe ad esso vanno avanti come un treno ovunque, le Rsu e il libero voto degli operai non ci saranno più in Fiat, ma difficilmente si poteva pensare che un giudice solitario risolvesse una questione che è sociale e politica e che chiama in causa ben altre responsabilità. Ma una cosa Marchionne e suoi complici non sono riusciti a fare: fucilare la Fiom e mettere il bavaglio agli operai. E questo non è poco, perché consente ai metalmeccanici e a tutti e tutte noi di poter continuare la battaglia.
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il dispositivo della sentenza del Tribunale di Torino del 16 luglio 2011, relativa al ricorso Fiom contro il contratto Fiat Pomigliano

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di lucmu (del 22/07/2011, in Movimenti, linkato 1098 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 22 luglio 2011 con il titolo “I no global e noi, movimenti in connessione”
 
Sono passati dieci anni da quel luglio genovese e nel frattempo molte cose sono cambiate. A chi c’era, a chi ha vissuto e condiviso gioie, dolori e rabbia può sembrare anche ieri, ma in un mondo dove tutto corre e la memoria è sempre più labile, un decennio è un tempo maledettamente lungo. E così, la trappola della commemorazione, del come eravamo è sempre in agguato.
Cascarci sarebbe però un disastro, perché equivarrebbe alla collocazione di quella stagione di movimenti nel museo delle cere. E, possiamo starne certi, in quel caso i detrattori di ieri le darebbero un posto d’onore, magari pure un piedistallo, in cambio dell’espulsione dal tempo presente.
Ebbene sì, perché Genova continua ad essere una spina nel fianco per troppi da troppe parti, sia per quelli implicati nella repressione di ieri, che per quelli tuttora convinti che il cambiamento consista nella semplice sostituzione degli inquilini del palazzo.
Quindi, evitiamo di regalare ai responsabili operativi e politici delle violenze la tranquillità dell’archiviazione storica. Non è una questione che riguarda le sole vittime della violenza poliziesca del 2001, a partire dalla famiglia Giuliani e da quelli e quelle che subirono le infamie di Bolzaneto e della Diaz. No, è una questione generale che riguarda l’insieme del paese, perché il lezzo nauseabondo dell’impunità corrode il rapporto tra istituzione e cittadino e la stessa legalità costituzionale. Né più né meno.
Ma appunto, Genova non era soltanto repressione. Anzi, a meno che non vogliamo sposare la tesi che tutta quella violenza, così come le sue anticipazioni di Napoli e Goteborg, fosse il prodotto di qualche eccesso di qualche subalterno, allora dobbiamo rammentare chi e che cosa era quel movimento.
Partito da Seattle, era un movimento giovane, che rompeva argini e schemi, oltrepassava i confini e riscopriva e riformulava il linguaggio dell’alternativa. Contrappose alla globalizzazione liberista la cooperazione globale dei movimenti sociali e la parola d’ordine “un altro mondo è possibile!”. E soprattutto era in crescita, era un fiume in piena e, di fatto, andava ad occupare la posizione di antagonista del potere, ormai abbandonata da una ex-socialdemocrazia ostaggio del pensiero unico. Quel movimento andava dunque stroncato sul nascere. Questo si tentò di fare a Genova.
Oggi c’è chi sostiene che l’operazione riuscì, ma non è vero. Anzi, il movimento resistette anche all’11 settembre e si fece carico dell’opposizione alla guerra permanente. Poi seguirono il Forum sociale europeo di Firenze del 2002 e la straordinaria mobilitazione contro la guerra in Iraq del 2003. La fase discendente arrivò soltanto dopo. Insomma, non fu la repressione a spezzare il movimento, fu la politica.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma oggi ci troviamo di nuovo di fronte a una fase di partecipazione dal basso e di protagonismo dei movimenti: la battaglia della Fiom, il 16 ottobre, l’onda studentesca, la lotta degli insegnati, il 14 dicembre, i comitati per l’acqua pubblica, la primavera delle elezioni amministrative e dei referendum, la Val di Susa eccetera.
E anche oggi, come ieri, invece di coglierne le potenzialità, molta parte dell’opposizione politica sembra piuttosto spaventata ed intenta a normalizzare, come indicherebbero il clima da unità nazionale attorno alle politiche anticrisi o, su un altro piano, la firma sotto l’accordo interconfederale da parte della Cgil.
Problemi analoghi, dunque, ma anche attori e scenario mutati, perché i movimenti non sono più gli stessi, c’è una nuova generazione che il 2001 genovese lo conosce soltanto per sentito dire e i nodi della globalizzazione liberista sono ormai venuti al pettine.
Ecco perché non ha senso tornare oggi a Genova per commemorare il movimento di ieri e perché occorre invece essere sufficientemente lucidi per tentare di connettere la stagione dei movimenti di ieri a quella di oggi, di costruire ponti, di individuare obiettivi e iniziative e di far tesoro delle esperienze passate.
Tra oggi e domenica a Genova ci saranno sufficienti luoghi e momenti dove tentare di farlo. Il resto dipende da noi.
 
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di lucmu (del 31/07/2011, in Regione, linkato 1206 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 31 luglio 2011
 
Chissà se ha ragione Bersani quando grida alla macchina del fango. A noi, francamente, sembra un po’ poco, anche perché il coinvolgimento di Filippo Penati, comunque vada a finire la vicenda giudiziaria, tira in ballo un intero ciclo politico dei Ds e del Pd del Nord e, pertanto, di tutto il centrosinistra.
Già, perché Penati ha incarnato più di altri quel pensiero politico e culturale che individuava nell’assomigliare il più possibile all’avversario la chiave per recuperare consensi e battere le destre. Per questo bisognava disconoscere il passato ed iniziare a parlare come i leghisti, con l’effetto tutt’altro che collaterale della riduzione del governo della cosa pubblica a mera amministrazione dell’esistente.
La “diversità”, di cui in questi giorni tanto si disquisisce, è stata seppellita da quel pensiero, in nome del quale un po’ tutto divenne lecito e possibile e che produsse una politica fallimentare, peraltro sconfitta sul campo: prima, la perdita della Provincia, poi la pessima performance alle regionali e, infine, la vittoria di Pisapia a Milano, che di fatto ha capovolto il paradigma penatiano.
Eppure, Bersani non ha tutti i torti. Anzi, c’è da rimanere basiti di fronte al contrasto tra la soddisfazione unanime per le dimissioni di Penati e il buonismo che regna nei confronti degli uomini di Roberto Formigoni. E non ci riferiamo tanto ai randelli mediatici della destra, come il Giornale, Libero o la Padania, che fanno quello che sanno fare, ma a tutti gli altri.
Ma è mai possibile che alle giustissime richieste di dimissioni di Penati non siano seguite anche quelle di un altro componente del medesimo ufficio di presidenza, cioè l’ex-assessore formigoniano, Massimo Ponzoni (Pdl)? Ebbene sì, perché Ponzoni è indagato pure lui e non solo per corruzione, ma anche per i rapporti con il crimine organizzato. Secondo i magistrati, Ponzoni avrebbe persino ricevuto nei suoi uffici alcuni boss e sarebbe da considerarsi parte del “capitale sociale” della ‘ndrangheta.
Nel settembre dell’anno scorso, infatti, le opposizioni in Consiglio regionale chiesero le sue dimissioni, ma la mozione fu respinta, con voto compatto di Pdl e Lega, e da allora regna un irreale silenzio, senza troppo scandalo pubblico.
Ma la tolleranza nei confronti del mondo di Roberto Formigoni è più generale e radicata. Tanto per stare nell’attualità, potremmo ricordare lo scandalo del San Raffaele, dov’era sufficiente che Formigoni dicesse “ma che c’entra la Regione?”, perché più o meno tutti lasciassero perdere. Eppure, i rapporti privilegiati tra Cl e Don Verzé sono cosa nota e, soprattutto, c’è il fatto che il San Raffaele ha goduto, mediante i rimborsi, di un finanziamento pubblico regionale di 400 milioni di euro nel solo 2010.
E se non bastasse ancora, potremmo ricordare l’operetta padana che vede protagonista l’assessore leghista Monica Rizzi, indagata per uso illecito di dati protetti per favorire l’elezione di Renzo Bossi e per aver millantato istituzionalmente un’inesistente laurea in psicologia. Oppure, la nota vicenda di Nicole Minetti, “laureata” al San Raffaele ed “eletta” in Consiglio regionale nel listino bloccato di Formigoni, con tutto il suo corollario delle firme falsificate. Qualcuno si è dimesso? Ma figuriamoci!
Beninteso, tutto questo scenario non ci stupisce affatto e, se l’autocitazione non fosse peccato capitale, potremmo qui ripetere le nostre considerazioni di un anno fa sulla questione morale al Pirellone. Ma quello che continua a stupirci, nonostante tutto, è la diffusa acquiescenza nei confronti di Formigoni.
Certo, chi conosce la Lombardia sa bene quanto sia solido e capillare il sistema di potere ciellino costruito in 16 anni di governo ininterrotto della Regione. E tutti sappiamo che molti sono anche i legami con pezzi del centrosinistra, tra i quali, ironia della sorte, soprattutto quello penatiano.
Ma questa è una ragione in più e non in meno per cambiare registro, a partire da una po’ di pulizia in casa proprio e con l’apertura formale della questione morale in casa Formigoni.
 
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Non ha sorpreso, in fondo, ma ha fatto impressione lo stesso vedere ieri sera al Tg quella conferenza stampa dei firmatari delle “proposte delle parti sociali”, dove il capo di Confindustria, Emma Marcegaglia,ha parlato a nome di tutti, compresa la Cgil.
Non ha sorpreso il patto tra banche, imprese e sindacati e il “documento comune” (vedi allegato) con le proposte da presentare a Governo e opposizione, perché le premesse c’erano già tutte, dalla firma dell’accordo interconfederale sulla rappresentatività del 28 giugno scorso fino al clima da unità nazionale attorno alla pesantissima manovra economica di qualche settimana fa.
Ma, appunto, fa impressione lo stesso. Un po’ per i tempi, perché colpisce la rapidità con la quale hanno trovato piena conferma le preoccupazioni e le critiche circa la firma della Cgil dell’accordo del 28 giugno, allora da troppi respinte con sufficienza. E un po’ perché quella iniziativa certifica l’inconsistenza –e quindi l’inesistenza- dell’alternativa politica al quadro esistente.
Insomma, basta uno sguardo al documento comune delle parti sociali, al quale il Governo ha risposto con i suoi otto punti (vedi sempre allegato), per capire qual è l’indicazione politica che ne viene fuori. Cioè, allo stato esiste un ampio consenso tra le “parti sociali” (segreterie dei sindacati confederali, vertici degli imprenditori e management delle banche) rispetto alla necessità di liberarsi di Berlusconi, considerato ormai ingombrante e cotto, e di definire un quadro di governo, dello Stato e della crisi, che abbia ampie basi bipartisan e che non si discosti dalle linee strategiche indicate dalla Commissione Europea.
In sintesi, il quadro politico post-berlusconiano prevede larghe intese e non è in discussione chi deve pagare la crisi e i costi della speculazione finanziaria (cioè: redditi da lavoro dipendente, risparmi famiglie, welfare, servizi pubblici). A questo proposito, è altamente significativo che proprio ieri Marchionne sia intervenuto a distanza, essenzialmente per collocarsi in quel nuovo quadro.
Certo, nulla è e nulla sarà lineare e scontato, perché Berlusconi non è uomo da mettersi da parte così facilmente, perché le contraddizioni tra i firmatari del patto e i loro alleati politici sono sempre presenti, perché la crisi non accenna a fermarsi e produce instabilità eccetera eccetera.
Ma, comunque sia, dobbiamo prendere atto che in questo momento la situazione è questa e che, quindi, dobbiamo guardare all’autunno con la consapevolezza che c’è poco da sedersi sugli allori della primavera e molto, invece, da lavorare e costruire.
 
di Luciano Muhlbauer
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il documento comune delle parti sociali del 4 agosto (ABI, ALLEANZA COOPERATIVE ITALIANE (CONFCOOPERATIVE, LEGA COOPERATIVE, AGCI), ANIA, CGIL, CIA, CISL, CLAAI, COLDIRETTI, CONFAGRICOLTURA, CONFAPI, CONFINDUSTRIA, RETEIMPRESE ITALIA (CONFCOMMERCIO, CONFARTIGIANATO, CNA, CASARTIGIANI, CONFESERCENTI), UGL, UIL, nonché il documento presentato dal Governo.
 

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