Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 8 nov. 2005
Bologna non è una questione bolognese. Piuttosto, complice il piglio autoritario di Cofferati, è il luogo dove uno dei principali nodi politici e strategici dell’Unione è venuto al pettine. E, si badi bene, non si tratta semplicemente di qualcosa che riguarda il rapporto tra sinistra moderata e Rifondazione, bensì concerne il baricentro politico e il progetto di società degli eventuali futuri governi, nazionale e cittadini, del centrosinistra.
Altro che resa dei conti tra Rifondazione e Cofferati, come molte interessate opinioni sostengono. Siamo semmai di fronte al tentativo, nemmeno troppo velato, di mettere nell’angolo la sinistra radicale e di movimento, di espellere le sue istanze di cambiamento dall’orizzonte del centrosinistra e di spostare il centro di gravità dell’Unione verso destra.
Se preoccupante è l’operazione politica che si intravede, inquietante è il terreno prescelto. Chi scrive, vive e fa politica in una città e in una regione, cioè Milano e la Lombardia, dove le destre governano da tempo immemorabile. Legalità, ordine, sicurezza e tolleranza zero non sono certo delle novità, anzi sono parole d’ordine strasentite e ormai persino un po’ logore. Destinatari principali di quelle invocazioni securitarie sono da sempre i migranti, ma non vengono risparmiati nemmeno autoferrotranvieri in sciopero, centri sociali, occupanti di casa e lavoratori della Scala. Sempre e comunque ridotti a una questione di ordine pubblico, laddove le questioni sociali vengono invece bellamente ignorate.
La città è peggiorata, la precarietà del lavoro e della vita imperversa, le giovani coppie scappano nell’hinterland, perché affittare o comprare una casa è diventata un’impresa impossibile, le famiglie milanesi si indebitano sempre di più per far fronte alle spese normali, l’area del disagio sociale si è allargata e i 180mila nuovi cittadini, cioè i migranti, vengono guardati con sospetto, non per quello che fanno o non fanno, ma per quello che sono. Che dire, se non che siamo di fronte a un bilancio fallimentare e denso di nubi per il futuro?
Eppure, sarebbe sufficiente riflettere su quanto avviene ora in Francia, su quella rivolta dei figli e dei nipoti dei migranti, nati è cresciuti in terra francese, cittadini sulla carta, ma nella vita reale relegati nei ghetti urbani, nell’esclusione e nel degrado civile e sociale.
Il problema non si chiama legalità sì o legalità no. Il problema è il modello di società che intendiamo perseguire. Il problema è se assumiamo come nostro nemico da battere la povertà oppure i poveri, l’esclusione oppure gli esclusi, la condizione di clandestinità oppure i “clandestini”. Dalla risposta che diamo a tali quesiti discendono due politiche diverse e opposte.
Allo stato attuale, sia nella Milano di Albertini che nella Bologna di Cofferati, legalità e sicurezza non sono state altro che una clava impugnata per dare addosso a migranti, lavoratori e studenti. Quando mai abbiamo visto un simile impegno per altre illegalità, sicuramente più nocive, come l’evasione fiscale, equivalente al 7% del PIL, o quella contributiva, visto che secondo l’Inps nella sola efficiente Lombardia il 75% delle aziende ispezionate nel 2004 risultavano irregolari?
Insomma, il problema vero per la sinistra è uscire da quella subalternità culturale e politica che provoca balbettii ogniqualvolta si tocca il tasto della sicurezza o dell’immigrazione. Una subalternità che nel caso di Cofferati è diventata una esplicita rivendicazione. Occorre invece un autentico rovesciamento della questione, dello stesso concetto di sicurezza, mettendo al centro la giustizia sociale, i diritti di cittadinanza e l’inclusione. Continuare a rincorrere la destra sul suo terreno ci porta diritti alla sconfitta, anche quando si vincono le elezioni.
Qualcuno sembra invece aver deciso che Bologna è l’occasione buona per stroncare sul nascere la possibilità di una politica alternativa e per esigere delle rese preliminari. Ecco perché Bologna non è soltanto una questione bolognese ed ecco perché non possiamo permetterglielo.
di lucmu (del 02/11/2005, in Pace, linkato 1311 volte)
Il presidio al consolato iraniano di Milano, indetto per domani da “Sinistra per Israele”, ha un pregio e un grande difetto.
Il pregio sta nel tentativo di volersi sottrarre all’irritante e stucchevole operazione politica che sta alla base dell’iniziativa romana, promossa da Giuliano Ferrara, e che prende a pretesto le gravi e inaccettabili dichiarazioni del presidente iraniano, per rilanciare invece il delirio dello “scontro di civiltà”.
Il grande difetto sta nel fatto di non esserci riuscito, se non in minima parte, riproducendo ancora una volta quello strabismo politico che fa intollerabilmente coincidere il sostegno al popolo ebraico e al sacrosanto diritto di Israele di esistere con l’appoggio acritico e incondizionato alla politica di Sharon.
Anche a Milano, la giusta aspirazione del popolo palestinese a una terra e a uno stato non trova nemmeno lo spazio di una riga, di un cenno nell’appello dei promotori. E questo è un errore. L’unica sicurezza, per Israele, per la Palestina e per tutti i popoli del Medioriente, compreso quello irakeno, sta nella costruzione di una pace giusta, nel riconoscimento del diritto all’autodeterminazione per tutti e nella fine delle occupazioni militari.
Ecco perché l’unico modo per stare in piazza domani a Milano, fuori dalle ipocrisie e dalle ambiguità, è quello che ci propongono le associazioni pacifiste raccolte in Action for Peace (Amal - Bambini per la pace, Arci, Associazione Italia-Palestina, Associazione Jalla, CRIC, Donne in nero, Ebrei contro l’occupazione, Guerre & Pace, Gruppo Bastaguerra – Milano, Pax Christi, Rete Radiè Resch, SCI, Salaam ragazzi dell’olivo), che saranno presenti al presidio con uno striscione che dice “Diritti per tutti i popoli del Medioriente, due stati per due popoli in Palestina/Israele, contro la guerra in Iraq”. E chissà, forse questo potrà essere anche l’unico modo per aprire davvero un confronto serio.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Dopo la grande manifestazione nazionale del 25 ottobre e l’occupazione di numerosi atenei in tutta Italia, la protesta degli universitari contro la riforma Moratti è arrivata anche a Milano. Da venerdì sera centinaia di studenti occupano la Statale di Milano.
Forse il centrodestra si era illuso che l’approvazione a colpi d’ascia del ddl Moratti potesse zittire la vastissima protesta che vede protagonisti tutti i soggetti del mondo universitario, dagli studenti ai docenti, passando per i ricercatori. Ma evidentemente si sono sbagliati. Non solo la protesta continua, ma si estende.
La riforma Moratti devasta ulteriormente la qualità dell’insegnamento universitario italiano, precarizza a vita i ricercatori e la ricerca e rende le università sempre più dipendenti dagli interessi particolari di grandi aziende private. Ecco perché non può essere accettato il fatto compiuto e va rilanciata la mobilitazione, sociale e politica, per impedire la sua applicazione.
Esprimiamo la nostra solidarietà agli studenti milanesi e alla loro civilissima occupazione. E auspichiamo che questa possa diventare occasione di dialogo con tutte le forze dell’Unione e di coinvolgimento anche di altre espressioni della società civile milanese.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer e Giuseppe Civati (Ds)
In Lombardia c’è un esercito di invisibili, almeno a giudicare dal programma di governo, detto PRS, presentato oggi in Consiglio Regionale dalla rediviva Giunta Formigoni. Sono gli uomini e le donne migranti, più di 600mila in tutta la regione e in città come Milano, Brescia o Bergamo ben oltre il 10% della popolazione metropolitana.
Ogni dato disponibile, oltre che il buon senso, ci conferma che si tratta di una presenza dal carattere stabile e non transitorio. Dall’inserimento nel mondo del lavoro, dove di solito svolgono i lavori più umili e peggio retribuiti, all’apertura di imprese, circa 15mila nel solo capoluogo, fino al dato forse più eloquente, cioè la crescente presenza di studenti stranieri nelle scuole lombarde, che solo a Milano città rappresentano l’11,6% del totale.
Insomma, la Lombardia e le sue città stanno cambiando, anzi sono già cambiate. La multietnicità non è una possibilità futura, ma una realtà presente. Eppure, nelle oltre cento pagine del programma di governo del centrodestra lombardo non c’è nemmeno l’ombra di tutto ciò, neanche un riga, una parola o un accenno. In altre parole, non c’è una politica, un’idea e una strategia.
Un vuoto politico che fa il paio con il protagonismo di taluni esponenti del centrodestra lombardo, in primis della Lega e di An, quando si tratta invece di lanciare invettive xenofobe e razziste contro gli immigrati dalle pagine dei giornali o dalle tribune televisive. Oppure, quando nel corso degli anni si trattava di inserire norme discriminatorie in alcune leggi regionali, come nel caso dell’accesso ai bandi per l’assegnazione di case popolari.
Un ordine del giorno presentato oggi da Rifondazione Comunista e firmato anche da consiglieri regionali dei Verdi, dei DS, del PdCI e dallo stesso Sarfatti, denuncia questo stato di cose, chiedendo che vengano definite e messe in campo una politica attiva e positiva di inclusione e delle corrispondenti risorse finanziarie. In particolare si chiedeva di rifinanziare la legge regionale 77/89, per sbloccare le risorse a favore degli enti locali per interventi abitativi a favore della popolazioni rom, di avviare l’iter per il riconoscimento del diritto di voto ai cittadini immigrati e di sollecitare il Ministero degli Interni a procedere alla chiusura dell’infamia del Cpt di Via Corelli di Milano.
Ma il centrodestra lombardo continua a fare orecchie da mercante, a quanto pare poco interessato alla società lombarda realmente esistente e ai problemi che vivono tutti i giorni i suoi cittadini, vecchi e nuovi, mentre non sembrano mancare le energie nella lotta per la spartizione delle nomine nella sanità, che tanto stanno a cuore sia a Formigoni che a Cé. Uno spettacolo triste e sempre più insopportabile, che ci riconferma nella convinzione che un’alternativa a questo governo regionale non può aspettare altri cinque anni.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 24/10/2005, in Casa, linkato 1054 volte)
Il gruppo consiliare regionale di Rifondazione Comunista esprime il suo sostegno alla mobilitazione promossa dal coordinamento dei comitati inquilini (Comitato inquilini Molise-Calvairate-Ponti, Forum Q.re Mazzini, Gratosoglio informa, gruppo lavoro Q.re San Siro, Caritas di S. Pio V e S. Eugenio, Ass. Luisa Berardi, Sicet e Unione Inquilini) e aderisce al presidio che si terrà oggi alle ore 17.00 davanti a Palazzo Marino.
Da lunghi mesi gli inquilini delle case popolari milanesi coinvolti nel Programma Contratti di Quartiere II denunciano in tutte le sedi istituzionali il non rispetto di uno dei principali capisaldi dei CdQ, cioè la progettazione partecipata. Protestano anche i Consigli di Zona, in particolare quello di zona 4. Il 23 maggio il Consiglio Comunale di Milano vota all’unanimità la richiesta di proroga dei termini per la progettazione partecipata e lo stesso Assessorato regionale, su sollecitazione dei consiglieri dell’Unione (interpellanza del 5 luglio), afferma di sostenere la richiesta di proroga e riconosce che a Milano le cose in buona parte non sono andate come dovevano .
Malgrado tutto ciò la proroga non arriva. L’assessore regionale Borghini dice di non preoccuparsi, senza tuttavia mettere in campo alcuna iniziativa concreta, mentre a fine Settembre l’impagabile Guido Manca nega persino l’evidenza e passa all’insulto pubblico contro i cittadini-inquilini, che altro non sarebbero che ‘professionisti della mistificazione’ dediti alla ‘demagogia parolaia’.
Questa è la breve cronaca di una vicenda che lascia sbigottiti. Eppure, lo strumento dei contratti di quartiere ha dato buona prova di sé in altri paesi europei, dove viene utilizzato da anni. Ma ovunque abbia funzionato, la chiave stava nel coinvolgimento e nella partecipazione effettiva degli abitanti e dei soggetti presenti sul territorio. Qui a Milano, invece, la partecipazione è stata negata, ridotta a una triste farsa, con il risultato che tra le circa mille famiglie, spesso anziani, che dovrebbero lasciare per due anni la loro casa prevale la preoccupazione o addirittura l’angoscia.
Altro che riqualificazione! Oggi il rischio concreto è quello dell’occasione perduta, dello spreco di risorse pubbliche e del peggioramento della situazione. Occorre cambiare strada prima che sia troppi tardi, a partire dalla direzione dell’Aler, che brilla per autismo politico, e soprattutto dal Comune di Milano, che semplicemente ha il dovere di ascoltare i cittadini e le cittadine.
Le proposte avanzate dai comitati inquilini, anzitutto quello dell’apertura di tavoli di lavoro per la riprogettazione degli interventi, sono sensate e responsabili. Sarebbe altrettanto sensato e responsabile accoglierle.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 21/10/2005, in Lavoro, linkato 1391 volte)
Oltre mille lavoratori e lavoratrici del gruppo Zucchi-Bassetti-Standartela, provenienti da tutta Italia, hanno oggi manifestato a Milano per il ritiro dei 742 licenziamenti, di cui 500 soltanto in Lombardia, e per chiedere un nuovo piano industriale.
L’atto unilaterale dell’azienda di scaricare sui lavoratori e sui territori, licenziando 742 dipendenti, gli errori del management è stato giustamente respinto dalle maestranze e dalle rappresentanze sindacali, che oggi chiedono un impegno diretto delle pubbliche amministrazioni per favorire la riapertura del tavolo di trattativa e il ritiro della procedura di mobilità. Un appello raccolto da molte istituzioni, presenti oggi in piazza, a partire dai Comuni toccati dai licenziamenti e dai piani di deindustrializzazione della Zucchi, alla Provincia di Milano, fino alla Regione Basilicata. Nemmeno l’ombra, invece, della Regione Lombardia.
E’ davvero triste constatare che l’assessore alle attività produttive della Regione Basilicata, che ha già sollecitato il Governo ad aprire un tavolo nazionale, non abbia avuto difficoltà ad affrontare un lungo viaggio pur di essere presente oggi a Milano, mentre nessun assessore regionale lombardo sembra aver trovato il tempo di fare qualche centinaio di metri per interessarsi ai 500 licenziamenti in Lombardia.
Difficile pensare a una semplice svista, poiché non è stata nemmeno data una risposta alla lettera inoltrata il 13 ottobre scorso al presidente Formigoni e all’assessore Corsaro, in cui i segretari regionali di Cgil, Cisl e Uil avevano chiesto un incontro urgente per affrontare i licenziamenti della Zucchi.
Un silenzio e un’assenza non soltanto stucchevoli, ma inaccettabili da ogni punto di vista. Rifondazione Comunista chiede che la Giunta Formigoni apra subito un tavolo con le organizzazioni sindacali, si coordini con gli altri enti locali e aggiunga la sua voce a quella della Regione Basilicata, per sollecitare l’intervento del Ministero.
Lunedì tutti i gruppi regionali dell’Unione depositeranno un’interpellanza urgente, affinché la Giunta regionale prenda subito iniziative atte a evitare i licenziamenti e riaprire il tavolo di trattativa.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 18/10/2005, in Sanità, linkato 1420 volte)
Chiunque sia l’assessore alla Sanità lombarda, Cè, Formigoni o di nuovo Cè, le cose vanno sempre alla stessa maniera, con i processi di privatizzazione che avanzano senza tregua nel silenzio generale.
C’è il progetto di esternalizzazione dell’unità operativa della dialisi della P.O. di Vizzola Predabissi, afferente all’ospedale di Melegnano, per ora bloccato dal tribunale di Lodi, con sentenza del 19 settembre scorso. Ma adesso entra in campo anche l’ospedale San Raffaele di Milano, che intende avviare l’esternalizzazione dei sistemi informativi, compresi i 38 lavoratori lì impiegati. Beneficiaria di questa privatizzazione dovrebbe essere la Siemens Spa di Milano, azienda senza esperienza significativa in campo sanitario e che versa in una situazione tutt’altro che solida, considerato che essa stessa ha avviato dei processi di esternalizzazione che coinvolgono ben 68 lavoratori delle sedi di Marcianise e di Cassina de’ Pecchi.
Comprensibili dunque le preoccupazioni delle rappresentanze sindacali del San Raffaele, che stamattina realizzano un presidio congiunto con i lavoratori della Siemens. Ma in gioco non è soltanto il futuro occupazionale di decine di lavoratori, bensì la stessa qualità del servizio sanitario regionale. Infatti, quanto sta avvenendo al San Raffaele, tempio della sanità privata lombarda a finanziamento pubblico, sembra essere una sorta di privatizzazione pilota, essendo previste a breve, secondo quanto affermato dal direttore generale Botti, altre 8 esternalizzazioni di servizi informativi in altrettanti ospedali lombardi.
I Consiglieri Regionali lombardi di Rifondazione Comunista esprimono la loro piena solidarietà ai lavoratori e alle rappresentanze sindacali dell’ospedale San Raffaele e, insieme ai consiglieri Riccardo Sarfatti, Bebo Storti e Carlo Monguzzi, hanno presentato un’interrogazione affinché la Giunta Regionale informi immediatamente il Consiglio sulle finalità dei progetti di privatizzazione in atto.
Nel frattempo è auspicabile che la direzione del San Raffaele sospenda ogni ipotesi di privatizzazione, che rischia concretamente di mettere a rischio dei posti di lavoro e di rendere instabile il servizio.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 16 ott. 2005 (pag. Milano)
Via Corelli, via Capo Rizzuto, via Quaranta. Tre vie di Milano, tre episodi diversi di un’unica storia, quella dello scontro di civiltà in salsa meneghina. In via Corelli si trova il centro di detenzione per migranti non in regola con il permesso di soggiorno, detto Cpt, in via Capo Rizzuto si trovava la baraccopoli abitata da rom e rasa al suolo senza troppe formalità dalle ruspe del sindaco Albertini e in via Quaranta ha sede la scuola araba chiusa dal comune dopo le parole scagliate dal signor Magdi Allam, che accusava i suoi oltre 400 studenti di essere niente di meno che dei futuri kamikaze.
Tre episodi, le cui relative campagne xenofobe e razziste da parte del centrodestra milanese hanno cercato di costruire l’immagine del nemico: il clandestino delinquente, il rom ladro e stupratore, l’islamico invasore e terrorista. E se questo è l’unico modo in cui si parla di migranti, allora il gioco è presto fatto, il nemico è l’immigrato tout court.
Difficile sapere quanto ci credano davvero questi novelli difensori della “nostra civiltà”, presi come sono a puntare tutto sulla questione sicurezza nell’intento di recuperare un po’ del consenso elettorale perduto. Ma è fuori di dubbio che i guasti prodotti da queste continue campagne e iniziative rischiano di diventare durature e radicate in una parte del corpo sociale.
E inizia qui il vero problema. Milano non diventerà una città multietnica, semplicemente è già multietnica, multiculturale e multireligiosa. Sono oltre 180mila i migranti residenti in città e soprattutto sta arrivando la seconda generazione, cioè i figli dei migranti nati in Italia, come confermano gli ultimi dati del MIUR che ci dicono che l’11,6% degli alunni delle scuole milanesi è di origine straniera.
L’Italia si è trasformata soltanto di recente in paese di immigrazione, ovvero ha appena smesso di essere paese di emigrazione, anche se nessuno sembra aver voglia di ricordarsene. Se, da una parte, questo può costituire un problema aggiuntivo, dall’altra rappresenta una grande opportunità. Cioè, si potrebbe imparare da altre esperienze di altri paesi europei, da Londra e Parigi ad esempio. Insomma, imparare a non ripetere, magari in peggio, la formazione di ghetti urbani e sociali e la produzione di ripiegamenti identitari che tagliano ogni comunicazione. Basterebbe in fondo leggersi quel bel libro, Allah superstar, scritto a ritmo di rap dallo scrittore algerino-francese Yassir Benmiloud, per riflettere un po’.
Insomma, Milano e altre aree metropolitane italiane stanno correndo velocemente verso un bivio. O si prosegue con una politica che esclude, clandestinizza e criminalizza, mentre contemporaneamente mette a disposizione delle imprese dei lavoratori ricattabili e sottopagati, infilandosi così direttamente in un vicolo cieco per tutti e tutte, migranti o nativi che siano. Oppure si cambia strada, radicalmente.
Pare quasi un discorso di buon senso, eppure, guardando al dibattito politico, si presenta come il più difficile di tutti. E non ci riferiamo alle destre, che hanno scientemente scelto di scimmiottare Bush e di sostituire il canto della “fine delle ideologie” con il rilancio ideologico in stile teo-con. No, ci riferiamo alle sinistre, alle opposizioni, dove troppe volte i silenzi, i balbettii e le reticenze si sprecano non appena si tocca il tasto dell’immigrazione o della sicurezza.
È come se non si volesse vedere quello che succede, cadendo in una tragica sottovalutazione. Quando personaggi che godono, ahimè, di significativo ascolto nell’opinione pubblica, come la Fallaci, il sempre più scatenato Magdi Allam oppure il presidente del Senato della Repubblica, teorizzano e invocano lo scontro di civiltà, riscrivendo per l’occasione lunghi secoli di storia europea, allora siamo di fronte ai sintomi evidenti di qualcosa che dovrebbe preoccupare e dunque spingere a reagire. Invece no, persino nel giorno della pubblicazione dell’inchiesta di Gatti sul lager di Lampedusa, a ribadire che i Cpt non si toccano non ci pensa soltanto Pisanu, ma anche Livia Turco.
No, non ci siamo. Il tema dell’immigrazione non è marginale, è centrale per ogni progetto politico di alternativa che voglia guardare ad una società più giusta, democratica e libera. Occorre il coraggio di cambiare strada e di respingere le logiche securitarie ed escludenti, di cestinare quella fabbrica della clandestinità e del lavoro ipersfruttato che è la Bossi-Fini, senza sciagurati ritorni al suo antenato, la Turco-Napolitano, di chiudere una volta per tutte quei luoghi della apartheid giuridica che sono i Cpt, senza l’ipocrisia della loro delocalizzazione fuori dai confini dell’UE, e di riconoscere il diritto di voto agli immigrati. Tre misure semplici che non risolvono certo tutti i problemi, ma che sono un punto di partenza necessario per avviare una politica alternativa che investa su una nuova cittadinanza basata sull’inclusione, la partecipazione e i diritti.
Milano non è poi tanto diversa da altre città o dall’Italia intera. Il problema è il medesimo. Per questo non dobbiamo permettere che cada sotto silenzio e che rimanga fuori dalla discussione delle forze che compongono l’Unione. Un impegno ineludibile per la sinistra, senz’altro, ma anche -e forse soprattutto- per i movimenti e le associazioni, che proprio ora dovrebbero alzare la voce. Perché a nessuno vengano concessi degli alibi.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Giorno Milano del 11 ott. 2005
Con la guerra per le poltrone tra Lega e Formigoni che ha portato il Pirellone alla crisi e che sta monopolizzando l’attenzione pubblica, nessuno sembra più vedere la crisi che i cittadini lombardi vivono invece ogni giorno e che richiederebbe un’azione politica urgente e incisiva. Così è successo che nessuno si è accorto dei lavoratori e delle lavoratrici della formazione professionale lombarda che lunedì scorso hanno scioperato contro gli esuberi in arrivo, ben 254 e cioè il 19% del personale assunto a tempo indeterminato nel settore.
La formazione professionale, una volta fiore all’occhiello della Lombardia, è oggi al collasso. 13 sono stati i licenziamenti un anno fa, 254 persone rischiano il posto di lavoro oggi e per l’anno prossimo si annuncia una situazione tragica. Infatti, l’intero sistema di finanziamento è costruito sulle sabbie mobili. Il 45% del totale per il periodo 2000-2006 proviene dall’Ue, mediante il Fondo Sociale Europeo. Ma, e sta qui il problema, il Fse non verrà più erogato l’anno venturo e una sua eventuale ripresa non si avrà realisticamente prima del 2008.
E, come se non bastasse, le risorse sono già oggi praticamente finite tanto che i fondi alla Province hanno subito tagli molto pesanti. La sola Provincia di Milano ha dovuto ridurre il numero di corsi erogati del 45%. Un fiume di denaro si è perso senza lasciare traccia in questi anni, grazie al sistema di accreditamenti introdotto nel 2001, che ha fatto balzare il numero di enti formativi dai 282 del 2000 ai 1143 del 2004. Un esercito di enti privati, spesso erogatori di un unico corso in tutto l’anno scolastico, che senza trasparenza e controllo effettivo si accaparrava i miliardi del Fse. Un assalto alle risorse pubbliche che ha prosciugato le casse, dequalificato il sistema della formazione e trasformato l’assessorato lombardo all’istruzione in quello più indagato d’Italia.
Ora c’è voluto questo ennesimo sciopero perché l’assessore Guglielmo accettasse almeno di sedersi attorno a un tavolo con le organizzazioni sindacali, per affrontare in extremis la situazione di questi 254 lavoratori. Meglio tardi che mai, si direbbe. Tuttavia, il problema di fondo, cioè la crisi strutturale della formazione professionale lombarda, rimane in tutta la sua drammaticità.
Anni di gestione a dir poco allegra di un settore strategico per la Lombardia da parte della Giunta regionale sono la causa del dissesto odierno. Occorre cambiare strada, mettendo mano a una riforma profonda del settore, che ridia centralità ai soggetti pubblici e trasparenza, prospettiva e stabilità al sistema. E occorre farlo ora, prima che sia troppo tardi.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto dell’8 ott. 2005
Vi è qualcosa di profondamente inquietante nella vicenda della scuola araba di Via Quaranta a Milano, riapertasi nel peggiore dei modi nella giornata di ieri. In fondo la soluzione era ed è a portata di mano, con tutti i crismi della legalità, come tutti, ma proprio tutti, ben sanno. Eppure, tutte le volte arriva in extremis qualche stop da qualche parte. Questa volta è arrivato direttamente da Roma, dal Ministero presieduto da Letizia Moratti, futura candidata a sindaco di Milano per il centrodestra.
Della scuola di Via Quaranta si era detto di tutto e il premio della sparata più grossa va senz’altro riconosciuto a Magdi Allam, che parlò di una madrassa per futuri kamikaze.
Poi arrivò il provvedimento del comune di Milano che chiuse la scuola, ma per semplice “inidoneità”. Il resto è cronaca di queste settimane, dalle campagne d’odio leghiste e post-fasciste fino allo stantio ritornello della tolleranza zero degli esponenti milanesi di Forza Italia. L’unica autorità cittadina a distinguersi e a lavorare per una soluzione è stato il Prefetto Ferrante, armato semplicemente di buon senso. Ce l’aveva quasi fatta, ma poi è arrivata la Moratti.
Inquietante è che nessuno nel centrodestra sembra preoccuparsi minimamente di che fine faranno le centinaia di alunni della scuola di Via Quaranta. Inquietante è che in una città come Milano, già multietnica e multiculturale oggi, con i suoi oltre 180mila migranti residenti, il centrodestra non si preoccupi di sviluppare politiche di inclusione, ma anzi pratichi una sorta di scontro di civiltà in salsa meneghina. Inquietante è che in questa città esistono scuole private e parificate di ogni tipo, cattoliche, ebraiche, americane, francesi, tedesche e così via, ma si afferma tranquillamente che una scuola araba non può e non deve esistere. Hanno davvero torto i genitori dei ragazzi della scuola di via Quaranta se si sentono discriminati in quanto egiziani e in quanto di fede islamica?
C’è un grande bisogno che la società civile milanese si faccia viva e che si faccia viva la sinistra di questa città. Vi era stata una reazione di fronte alle parole e agli atti inqualificabili della Lega, ma poi non si è sentito più nulla. In fondo, lo ripetiamo, la soluzione c’è già, ma vanno rimosse le strumentalizzazioni politiche. La Moratti e il centrodestra hanno il diritto di fare la loro campagna elettorale come tutti, ma non è accettabile che la facciano sulla pelle di centinaia di bambini e ragazzi.
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