Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 07/06/2007, in Scuola e formazione, linkato 948 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 7 giugno 2007 (pag. Milano)
 
Che il cosiddetto buono scuola della Regione Lombardia fosse un truffaldino finanziamento pubblico della scuola privata lo sapevamo già. Ce l’hanno confermato ancora una volta i dati relativi ai 43 milioni di euro erogati per l’anno scolastico 2005/2006, visto che il 99,14% è andato a famiglie i cui figli frequentano istituti privati e che il 63% dei beneficiari dichiarano al fisco un reddito tra 35 e 180mila euro annui.
Ma quanto successo ora con il bando per il buono scuola 2006/2007, scaduto il 31 maggio scorso, aggiunge al danno anche la beffa. Infatti, gli uffici regionali avevano inviato a tutte le scuole lombarde una circolare che le invitava a “informare le famiglie” della possibilità di richiedere il buono. E così, molti genitori della scuola pubblica si erano collegati con il sito della Regione per compilare la domanda on line –unica modalità consentita-, salvo poi scoprire che ciò non era possibile, perché il software rifiutava l’inserimento di dati relativi agli istituti pubblici. Chi poi non si arrendeva e chiamava il numero verde della Regione, si sentiva rispondere che il buono scuola valeva soltanto per scuole private.
In altre parole, le famiglie di quel 90% di ragazzi lombardi che frequentano la scuola pubblica non solo vengono escluse de facto al momento dell’assegnazione, ma ora vengono pure prese in giro.
Evidentemente, il Presidente Formigoni è talmente impegnato a promuovere il suo anticostituzionale progetto di ridisegno regionalista dell’istruzione e della formazione professionale, che si è dimenticato addirittura di salvaguardare le apparenze. Ebbene sì, perché escludere preventivamente i genitori delle scuole pubbliche dall’accesso al buono scuola non costituisce soltanto una violazione della legge nazionale, ma anche di quella regionale che aveva istituito i buoni scuola. Infatti, la legge regionale n. 1/2000 afferma espressamente che destinatari del sussidio sono le famiglie degli allievi delle “scuole elementari, medie e superiori statali e non statali, paritarie, legalmente riconosciute, e parificate”.
Il buono scuola di Formigoni si è sempre mosso sull’estremo confine della legge, che appunto vieta il finanziamento esclusivo della scuola privata, ma ora è stato decisamente oltrepassato il limite. Per questo abbiamo depositato un’interpellanza, sollecitando immediati chiarimenti e sollevando la questione di legittimità del bando 2006/2007.
Infine, chiediamo ancora una volta che venga posta fine allo scandalo del buono scuola lombardo e che si usino, invece, i fondi pubblici per sostenere il diritto allo studio degli studenti di tutte le scuole lombarde, a partire da quelli in condizioni economiche svantaggiate”.
 
qui puoi scaricare il testo dell’interpellanza

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di lucmu (del 31/05/2007, in Regione, linkato 1233 volte)
Il presidente Formigoni si è vantato con la stampa di aver ridotto il personale dell’amministrazione regionale da oltre 4.000 a 3.000 unità. Peccato però che si dimentichi di dire che questi lavoratori “mancanti” continuino ad essere pagati dal contribuente lombardo.
Infatti si tratta di centinaia di lavoratori dei Centri di formazione professionale passati dalla Regione alle Province, di un altro nutrito gruppo di lavoratori trasferiti dal Pirellone all’ARPA - ente strumentale di Regione Lombardia - e di molti lavoratori precari dipendenti di varie cooperative che lavorano direttamente per l’amministrazione regionale.
Insomma, non di riduzione di personale si tratta bensì di trasferimenti e di esternalizzazioni.
Invece di fare il gioco delle tre carte sul numero dei dipendenti, Formigoni farebbe meglio a spiegare ai cittadini lombardi quanti soldi pubblici spende il sistema regionale lombardo per le consulenze e per le iniziative di comunicazione del Presidente.
Inoltre dovrebbe ricordarsi che alla fine del 2005 è stato aumentato il livello massimo di retribuzione per i direttori centrali della Regione che prima era fissato al “misero” livello di dirigente generale di ASL. Oppure potrebbe ricordare che il bilancio regionale ha stanziato mezzo miliardo di euro per il nuovo palazzo di vetro della Regione, contestualmente alla riduzione del 75% delle spese per la manutenzione e la costruzione di case popolari.
E’ davvero irritante che un argomento serio come quello del costo della politica venga ridotto a puro terreno di demagogia da parte del Presidente della più importante regione italiana.
 
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
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di lucmu (del 30/05/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 935 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 30 maggio 2007 (pag. Milano)
 
Sono passati due mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 6/2006 contro i phone center e quasi nessuno ne parla più. Eppure, il carattere strumentale, discriminatorio e irragionevole del provvedimento sta emergendo proprio ora in tutta la sua drammaticità.
Risulta persino impossibile tracciare un quadro preciso dell’applicazione della legge su scala regionale, poiché i singoli Comuni si muovono in maniera difforme e in una situazione normativa caotica. E così ci sono Comuni, come ad esempio Bresso, San Giuliano Milanese e Pavia, che contestano la legittimità della legge, mentre altri che hanno preso la palla al balzo per delle vere e proprie spedizioni punitive.
Ma il caso più eloquente è senz’altro rappresentato dal Comune di Milano, che da solo ospita sul proprio territorio oltre 700 esercizi: di questi, risultano in regola con le nuove norme soltanto 10. Tutti gli altri sono dunque a rischio di blocco dell’attività e, infatti, sono state emesse circa 650 salatissime multe, mentre 150 provvedimenti di chiusura sono già pronti per la consegna, anche se in gran parte ancora fermi negli uffici a causa, supponiamo, di un elementare senso di prudenza, visto che è già stato presentato il primo ricorso alla sezione milanese del Tar.
Che la normativa regionale faccia acqua da tutte le parti, lo dimostrano peraltro le motivazioni dell’ordinanza del Tar della Lombardia, sezione di Brescia, trasmesse alla Corte Costituzionale pochi giorni fa, ordinanza che solleva la questione di legittimità costituzionale di tre articoli fondamentali della legge regionale. Vengono contestate la retroattività della normativa, la violazione dei principi di ragionevolezza, di parità di trattamento e di proporzionalità e persino l’invasione di ambiti di competenza non propri.
Ma ancora più illuminanti sono le reazioni del centrodestra regionale ai rilievi del Tar. Mentre le dichiarazioni ufficiali propongono il ritornello dei giudici che fanno politica, a livello amministrativo vengono emessi degli atti a dir poco ambigui. Non ci riferiamo soltanto alla ormai famosa “circolare esplicativa” della D.G. Commercio, Fiere e Mercati del 21 marzo scorso, con la quale la Regione cerca furbescamente di scaricare la responsabilità delle chiusure sui Comuni, ma altresì a una serie di note che interpretano creativamente la legge. Citiamo, a mo’ di esempio, quella inviata dalla D.G. Sanità il 20 aprile scorso al Comune di Pavia, dove si “chiarisce” che l’obbligo della larghezza minima di 1,20 metri per le cabine telefoniche vale solo per quelle “aperte” e non per quelle “chiuse”, una distinzione di cui non si trova traccia nella legge. E, guarda caso, è proprio la prescrizione di misure del genere, per phone center già esistenti, ad essere considerata dal Tar un “inutile gravosità”.
Insomma, ci pare che il livello di caos applicativo e di incertezza normativa abbia superato definitivamente il limite dell’accettabile, considerato che stiamo parlando di migliaia di legittime attività commerciali e delle esistenze di quanti e quante vi lavorano, messe a rischio da un provvedimento xenofobo e insensato e rispetto al quale la Corte Costituzionale si esprimerà a breve. Forse è davvero giunto il momento di far tornare almeno il buon senso. Per questo chiediamo con forza, alla Giunta regionale e ai Comuni, una moratoria dei provvedimenti sanzionatori fino al pronunciamento della Consulta nonché l’apertura di un tavolo di confronto con le associazioni dei gestori.
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Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 25 maggio 2007
 
Di scuola si parla poco, troppo poco. Eppure, contro la riforma Moratti era sceso in campo un movimento straordinario e lo stesso programma dell’Unione annunciava una “radicale discontinuità”. Ma poi arrivò il rigore della Finanziaria e il cacciavite di Fioroni, con il risultato che oggi alla scuola pubblica mancano drammaticamente le risorse, mentre il quadro legislativo morattiano, seppure “sospeso”, appare sostanzialmente integro.
Una situazione di incertezza e di immobilismo che, lungi dal lasciare le cose come stanno, consente ai sostenitori della riforma Moratti di riprendere l’iniziativa. A dare il via non è a caso il potente Presidente della Regione Lombardia, Formigoni, il quale ha presentato  un progetto di legge regionale sul “sistema educativo di istruzione e formazione”, che rappresenta insieme un progetto federalista dal sapore devoluzionista e incostituzionale, nonché un autentico rilancio per la via dei fatti del disegno di una scuola al servizio del mercato, anzi essa stessa mercato.
La proposta del centrodestra lombardo, accompagnata da una pomposa campagna pubblicitaria -ovviamente a spese del contribuente-, fa leva sui pasticci del riformato Titolo V della Costituzione e pretende di esercitare unilateralmente tutte le competenze in materia di istruzione e formazione professionale, istituendo de facto il doppio canale, con l’istruzione liceale e quella tecnico-professionale che si allontanano sempre di più. In altre parole, torna il vecchio avviamento al lavoro, a partire dal 14° anno di età, visto che il progetto prevede che l’innalzamento dell’obbligo scolastico di due anni, introdotto nell’autunno scorso, potrà essere assolto anche nella formazione professionale.
Il sistema si basa, inoltre, sulla piena di equiparazione tra istituzioni formative pubbliche e private, che dovranno quindi accreditarsi presso la Regione per ottenere  risorse sulla base del principio della quota capitaria. Inoltre, alle famiglie verrà riconosciuto un “buono” da spendere presso l’operatore che ritengono e gli istituti potranno assumere direttamente il personale docente e non docente, senza dover ricorrere a fastidiose graduatorie.
Per capire meglio cosa dobbiamo aspettarci, conviene brevemente ricordare due precedenti lombardi. In primo luogo, il nuovo sistema pubblico-privato è in vigore per la formazione professionale sin dal 2001. Ebbene, il primo effetto fu che tra il 2000 e il 2004 il numero degli enti formativi balzò da 282 a 1143. Un esercito di enti privati, spesso erogatori di un unico corso in tutto l’anno scolastico, che senza trasparenza e controllo effettivo si accaparrava i miliardi del fondo sociale europeo. Un vero e proprio assalto alla diligenza che ha prosciugato le casse, dequalificato il sistema della formazione e trasformato l’assessorato lombardo all’istruzione in quello più indagato d’Italia. In secondo luogo, nel 2001 fu introdotto anche il “buono scuola”, cioè un sussidio pubblico, che nel solo anno scolastico 2005/2006 assorbì 43 milioni di euro di fondi regionali. Ma, e sta qui lo scandalo, il 99% è andato a famiglie i cui figli frequentano la scuola privata e il 63% beneficiari dispongono di un reddito dichiarato che si colloca nella fascia tra 35 e 180mila euro annui. In altre parole, un finanziamento indiretto, ma esclusivo, della scuola privata e un sussidio pubblico a famiglie in maggioranza non bisognose.
Sarebbe dunque un grosso errore sottovalutare la mossa di Formigoni. Qui non si tratta di un semplice affare lombardo, bensì del tentativo di aprire un varco su scala nazionale, approfittando dell’inerzia governativa, dell’assenza di mobilitazione sociale e delle molte ambiguità in settori non marginali del Partito Democratico. La via delle Regioni per riproporre l’attacco alla scuola pubblica, libera e laica è oggi quella più insidiosa e, se non si svilupperà un’iniziativa politica, istituzionale e sociale all’altezza, rischia pure di essere quella vincente.
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di lucmu (del 22/05/2007, in Regione, linkato 1107 volte)
Oggi in Regione è stato presentato il progetto di legge “Contributo alla competitività e all'innovazione della Pubblica Amministrazione lombarda attraverso l'utilizzo di formati aperti e FLOSS per la gestione dei dati elettronici”, 13 articoli firmati trasversalmente da 19 consiglieri per portare anche in Lombardia l’innovazione e la competitività dei formati aperti e del software libero.
In Lombardia vengono spese decine di milioni di euro ogni anno per il software –ha detto Saponaro, consigliere dei Verdi e primo firmatario–. Questa legge offre l’opportunità di risparmiare molti soldi e nello stesso tempo innovare e migliorare la competitività. I milioni di euro risparmiati si potrebbero investire in programmi software elaborati da piccole, medie e grandi imprese lombarde invece di darli a gruppi monopolisti oltre oceano. E la Pubblica Amministrazione potrebbe dare perenne accessibilità ai suoi dati, maggiore sicurezza dai virus e garantire la privacy e al riservatezza nella gestione di dati sensibili”.
Solo vantaggi dunque sul lato pratico attraverso l’impiego dei formati aperti nella gestione di dati nelle pubbliche amministrazioni, senza contare l’immenso valore che la legge rivestirebbe, una volta approvata, nella diffusione del sapere libero da brevetti, uno strumento superato, inventato nello scorso millennio per proteggere le invenzioni meccaniche.
“Il software libero ha cessato di essere cosa per ‘smanettoni’ – ha detto Luciano Muhlbauer, consigliere di Rifondazione Comunista tra i firmatari del pdl – ed è oggi pienamente competitivo con quello dei grandi monopolisti internazionali. Sarebbe perciò irresponsabile non adottarlo nella pubblica amministrazione, non solo per risparmiare, ma altresì per riacquistare il pieno controllo sulle informazioni sensibili da essa gestite.”
Dello stesso parere anche il capogruppo dei Verdi Carlo Monguzzi, secondo il quale “Questa legge fa risparmiare, innova e rende partecipi i cittadini. Quindi – aggiunge - non vedo perchè la Regione Lombardia non dovrebbe approvarla in un minuto”.
“In un momento in cui i costi e gli sprechi degli enti pubblici sono considerati intollerabili dai cittadini – aggiunge il consigliere della Margherita Luca Gaffuri -questa nostra proposta di legge comune rappresenta un segnale importante per una gestione più efficiente e più competitiva del sistema lombardo. I soldi risparmiati saranno investiti nell’innovazione”.
“L’Italia –conclude Saponaro– è il quarto paese nel mondo per la produzione di software libero, ma agli ultimi posti per l’utilizzo dello stesso nella PA. L’augurio dunque è che i liberali che siedono in consiglio regionale non si lascino distrarre dalle pressioni di pochi monopolisti e comprendano le potenzialità innovatrici della Lombardia”.
 
Hanno firmato il progetto di legge:
Marcello Saponaro (Verdi), Silvia Ferretto Clementi (A.N.), Luciano Muhlbauer (P.R.C.), Osvaldo Squassina (P.R.C.), Carlo Monguzzi (Verdi), Stefano Zamponi (I.D.V.), Alberto Storti (P.D.C.I.), Mario Agostinelli (P.R.C.), Elisabetta Fatuzzo (Pensionati), Giuseppe Civati (D.S.), Riccardo Sarfatti (L’unione Lombarda), Francesco Prina (Margherita – Uniti nell’Ulivo), Maria Grazia Fabrizio (Margherita – Uniti nell’ulivo), Luca Gaffuri (Margherita – Uniti nell’ulivo), Carlo Spreafico (Margherita – Uniti nell’Ulivo ), Marco Cipriano (D.S.), Ardemia Oriani (D.S.), Stefano Tosi (D.S.), Gianfranco Concordati (Uniti nell'Ulivo)
Comunicato stampa
qui puoi scaricare il testo del progetto di legge

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di lucmu (del 19/05/2007, in Sicurezza, linkato 986 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 19 maggio 2007 (pag. Milano)
 
Sarà perché tra una settimana si vota per le amministrative o perché Sarkozy sembra piacere anche dalle parti del nascituro Partito Democratico, ma rimane il fatto che le tesi della destra in materia di sicurezza si rivelano terribilmente contagiose. E così il sindaco di Torino, Chiamparino, si scopre proibizionista sulle droghe leggere, quello romano, Veltroni, inizia a prendersela con i rom e, last but not least, il Ministero degli Interni firmerà domani un patto sulla sicurezza con la Moratti.
Un successo che forse sorprende lo stesso sindaco meneghino, la cui campagna propagandistica sulla sicurezza, che, in fondo, era nata sull’onda dei fallimenti della sua amministrazione, sembra ora assurta a modello da imitare.
Il “patto per la sicurezza” riproduce lo strabismo politico che da tempo regna a Milano e per il quale ogni problema è soltanto un problema di ordine pubblico. Il fenomeno dell’immigrazione e l’affacciarsi di una società multietnica, i ghetti insalubri in cui sono confinate le popolazioni rom, in larga parte non più nomadi da tempo, la prostituzione, il consumo di stupefacenti eccetera eccetera, tutto quanto ridotto a mera questione di polizia da sbattere periodicamente in prima pagina.
E come se non bastasse, anche le misure di ordine pubblico previste non scherzano quanto a strabismo. Così arriva un’apposita task force composta da polizia, carabinieri, finanza e polizia municipale per rincorrere i piccoli venditori abusivi nei mercati, mentre regna il più completo menefreghismo per quanto riguarda il contrasto dello sfruttamento del lavoro nero e dell’elusione delle misure di sicurezza negli innumerevoli cantieri. Infatti, il Comune di Milano dedica a questo compito soltanto tre dei suoi tanti vigili urbani e non chiede nemmeno una mano al Governo. Sarà perché in questo caso si toccherebbero interessi forti vicini a Sindaco e Vicesindaco?
A noi pare che questo strabismo sempre più bipartisan non prometta nulla di buono. A Milano il degrado è conseguenza diretta di anni di noncuranza e di abbandono delle periferie, di smantellamento del welfare e di prevalenza di una politica cittadina che mette al centro gli affari immobiliari, a scapito delle esigenze e dei diritti delle persone. Finché non si affronterà questo nodo, le condizioni di vivibilità e di sicurezza percepita continueranno a deteriorarsi e le centinaia di agenti di polizia in arrivo potranno ben poco, se non consentire al sindaco Moratti di proseguire sulla strada della demagogia. Ci saremmo aspettati che queste cose le dicesse qualche illustre sindaco di centrosinistra, invece di rincorrere i temi della destra, ma evidentemente ci siamo sbagliati.
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Che la proposta dell’assessore comunale De Albertis, fatta poi propria dal Sindaco Moratti, di distribuire il test antidroga alle famiglie milanesi fosse una terribile sciocchezza propagandistica, l’avevamo denunciato in molti. Ma ora sembra dirlo persino il centrodestra in Regione.
Infatti, questa mattina, nel corso del Consiglio Regionale, l’esponente di An, Ferretto, ha invitato i consiglieri a sottoporsi a quel test che il Comune di Milano vorrebbe imporre alle famiglie. Ebbene, non solo non ha convinto più di sette colleghi di maggioranza a farlo, ma ha raccolto l’aperta ostilità dei capigruppo di An e Forza Italia. L’assessore di An, Prosperini, solito a proporre la frusta per i consumatori di stupefacenti, ha rifiutato il test perché non attendibile scientificamente, mentre il gruppo di An ha fatto sapere di considerare l’iniziativa di “bassa propaganda”.
Insomma, era certamente evidente che la pensata della Ferretto serviva soltanto per conquistarsi qualche riga su qualche giornale, ma le reazioni provenienti dal centrodestra sono oltremodo illuminanti. Toccati in prima persona, gli esponenti di quelle forze politiche che hanno per giorni riempito i giornali con la loro demagogia sulla bontà del test antidroga sono i primi a sottrarsi.
Forse il centrodestra deve qualche scusa ai cittadini e alle cittadine. E, soprattutto, il Sindaco Moratti farebbe bene a ritirare immediatamente l’assurda e dannosa campagna tesa a trasformare i genitori in sceriffi dei loro figli.
 
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
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di lucmu (del 15/05/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 877 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su “SinistraCritica” di maggio 2007
 
Quando il 12 aprile scorso iniziava a diffondersi la notizia sulla rivolta cinese in via Paolo Sarpi, in città lo stupore fu piuttosto generale. Non tanto perché era la prima volta che a Milano dei cittadini stranieri si ribellavano in maniera collettiva, ma perché a farlo era proprio una comunità, quella cinese, tradizionalmente poco incline alla protesta pubblica.
Molto si è detto e scritto sulla vicenda, ma il più delle volte delle interessate sciocchezze, a partire dalla minestra riscaldata del non vogliono integrarsi e del non vogliono rispettare le nostre regole. E allora ci pare necessario riepilogare prima di tutto gli antefatti, poiché in realtà ha poca importanza come sono andate le cose in mattinata tra la signora cinese e la pattuglia della polizia locale che hanno dato fuoco alle polveri (anche se la misteriosa sparizione delle registrazioni delle telecamere comunali dovrebbe far sorgere qualche sospetto).
Il quartiere in questione ospita un insediamento cinese risalente a un secolo fa, ma è da un decennio circa che vive una forte espansione del commercio all’ingrosso gestito da cittadini cinesi. Così, oggi, in poche vie si concentrano centinaia di esercizi, mentre la popolazione residente continua ad essere prevalentemente italiana. Trattandosi di una zona storica, va da sé che le movimentazioni delle merci avvengano sul marciapiede e al di fuori dei regolamenti comunali. Ma -e qui casca l’asino- tutto questo non ha mai rappresentato un problema, considerato che l’amministrazione cittadina, gestita da quindici anni dal centrodestra, ha sempre rilasciato le licenze e i vigili non hanno mai distribuito multe. Insomma, i commercianti cinesi hanno agito in piena legalità. Anzi, i rapporti tra gli assessori comunali e i commercianti cinesi sono stati sempre buoni e vi sono stati persino cospicui finanziamenti comunali ad un’associazione italo-cinese, l’Alkeos, strettamente legata ad alcuni settori di Alleanza nazionale.
E così arriviamo a qualche mese fa, quando all’improvviso è cambiato tutto. Ovvero, il Comune ha deciso di riscoprire antichi regolamenti comunali e di applicarli inflessibilmente mediante quotidiane e massicce multe contro i carrelli sui marciapiedi, facendo diventare illegale ciò che era perfettamente legale fino al giorno prima. Obiettivo dichiarato della guerra dei carrelli era costringere i commercianti cinesi a “delocalizzare” le loro attività.
Ovvio che nel quartiere stesse crescendo la tensione e, soprattutto, che si diffondesse la percezione di essere presi di mira in quanto cinesi. Infatti, quel 12 aprile a scendere in strada e a scontarsi con le forze dell’ordine non erano i vecchi commercianti, bensì centinaia di giovani di origine cinese, in larga parte cresciuti a Milano e con piena padronanza della lingua italiana.
La storia della rivolta di via Sarpi, come ogni storia, va raccontata tenendo conto delle sue specificità. Eppure, non può sfuggire a nessuno che a Milano stiamo assistendo ad una preoccupante moltiplicazione di momenti di conflitto tra istituzioni e settori di popolazioni immigrate. A dimostrarlo ci sono le ronde anti-rom e le campagne anti-moschee, per non parlare della razzista legge regionale contro i phone-center. Tutte storie diverse, certo, ma che nel loro insieme disegnano un unico quadro generale, fatto da istituzioni che si rapportano con i migranti unicamente attraverso gli strumenti dell’ordine pubblico e da forze di governo locale -in primis Lega e An- che della xenofobia militante fanno una bandiera.
La Lombardia e il suo capoluogo vivono oggi un paradosso esplosivo. È la regione che concentra da sola un quarto dell’immigrazione nazionale, ma anche quella che si ostina esplicitamente a non dotarsi di una politica tesa all’inclusione e alla convivenza. In questo senso, la rivolta di via Sarpi rappresenta un campanello d’allarme, che andrebbe colto anzitutto a sinistra, per non lasciare definitivamente il terreno alla demagogia xenofoba e securitaria delle destre.
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di lucmu (del 15/05/2007, in Migranti&Razzismo, linkato 844 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Guerre&Pace di maggio 2007
 
Il programma elettorale dell’Unione ci aveva consegnato un linguaggio ambiguo rispetto a molte questioni politiche decisive. E così, il terrificante termine “superamento” ha fatto il suo ingresso nell’arena politica. Il fatto che in materia di immigrazione si parlasse invece esplicitamente di “abrogazione” della Bossi-Fini aveva suscitato non poche aspettative nel mondo dell’associazionismo migrante e antirazzista. Eppure, ad un anno di distanza dalle elezioni politiche, l’impianto normativo definito dal governo Berlusconi, compresa la scandalosa e truffaldina convenzione con le poste, è sostanzialmente immutato e dunque tuttora vigente.
Anzi, la dilatazione dei tempi sembra essere diventato uno dei leitmotiv. La nuova legge sulla cittadinanza è impantanata nelle aule parlamentari, della legge organica sul diritto d’asilo –di cui l’Italia è semplicemente sprovvista- non si vede traccia e il provvedimento principe, cioè quello che dovrebbe porre fine alla razzista Bossi-Fini e che è conosciuto sotto il nome ddl Amato-Ferrero, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri soltanto il 24 aprile scorso, dopo numerosi rinvii e aggiustamenti.
Tuttavia, la legge non cambierà nell’immediato. Infatti, stiamo parlando di un disegno di legge delega, che dopo il varo in CdM dovrà essere approvato dal Parlamento e, successivamente, il Governo avrà dodici mesi di tempo per adottare “un decreto legislativo per la modifica del testo unico …, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni”.
In altre parole, il ddl Amato-Ferrero fissa i “principi e criteri direttivi” a cui dovrà ispirarsi il futuro decreto legislativo. Cioè, il percorso sarà prevedibilmente accidentato, i tempi non saranno brevissimi e il risultato finale, cioè l’articolato, è ancora da scrivere. Ma vediamo da vicino il merito del disegno di legge delega.
Anzitutto, ci pare necessario chiarire meglio l’oggetto del provvedimento di modifica. La cosiddetta legge Bossi-Fini non aveva, infatti, abolito la disciplina preesistente, cioè il d.lgs n. 286 del 1998, noto come Turco-Napolitano, ma si presentava sul piano formale come una sua modifica. Una modifica massiccia e di sostanza, che aveva esasperato ed estremizzato il carattere repressivo e proibizionista delle politiche migratorie, ma che non rappresentava un capovolgimento netto. Infatti, la prevalenza dell’approccio repressivo e la considerazione del migrante prima di tutto come forza lavoro a buon mercato erano anche i principi ispiratori della Turco-Napolitano, nonché delle odierne e sempre più integrate politiche europee in materia.
La conseguenza più vistosa di questo orientamento sta anzitutto nell’allocazione insensata delle risorse pubbliche, come dimostrarono i dati pubblicati dalla Corte dei Conti nel 2005. Infatti, il 72,5% delle risorse complessive spese per le politiche migratorie sono destinate a misure repressive, comprese le spese per i Cpt, mentre soltanto il restante quarto va a favore di politiche di accoglienza. Un approccio che tende dunque a spostare tutta la tematica dell’immigrazione sul terreno dell’ordine pubblico.
Inoltre, l’irrazionalità dell’allocazione delle risorse fa il paio con quella della normativa sugli ingressi, tesa più a soddisfare la necessità di un certo discorso politico, che non a “governare” il fenomeno migratorio, con la conseguenza dell’istituzionalizzazione di fatto di una significativa area di clandestinità.
Tuttavia, a guardare bene, nell’irrazionalità vi è una ratio. Il migrante indicato come problema di ordine pubblico, sempre sull’orlo della clandestinità e portatore di un pacchetto di diritti differenziato, cioè inferiore a quello del cittadino italiano o comunitario, è infatti lo stesso che va a ingrossare le fila dei lavoratori malpagati o sfruttati in nero. Così, il corpus legislativo speciale per gli stranieri non comunitari –con tanti saluti al principio la legge è uguale per tutti- vige non soltanto sul piano dei diritti civili, ma anche su quello dei diritti sociali. Il “capolavoro” della Bossi-Fini, cioè il ricatto del contratto di soggiorno, sta lì a dimostrarlo.
E allora, la domanda che dobbiamo porci è se la proposta Amato-Ferrero modifica tale approccio e in che misura.
La prima -e più dettagliata- parte del ddl è dedicata alla questione degli ingressi. Viene previsto un meccanismo di programmazione su base triennale, da integrare con una procedura di adeguamento annuale delle quote stabilite. Inoltre, alcune categorie di lavoratori potranno essere autorizzate all’ingresso al di fuori delle quote, in particolare il “lavoro domestico e di assistenza alla persona”.
Per quanto riguarda le modalità di ingresso si prevedono anzitutto delle “liste organizzate in base alle singole nazionalità” a cui uno straniero che intenda lavorare in Italia può iscriversi. Responsabili della gestione delle liste sono una pluralità di soggetti, come gli enti e gli organismi nazionali e internazionali con sedi nei paesi d’origine e convenzionate allo scopo, nonché le autorità dei paesi d’origine. Tali liste verranno istituite “prioritariamente” in Stati che abbiano dimostrato un “atteggiamento collaborativo” in materia di contrasto dell’immigrazione clandestina. Fino all’istituzione di tali liste, verrà attivata una Banca dati interministeriale.
A tali liste potranno poi attingere, con chiamata nominativa o numerica, le regioni, gli enti locali e le associazioni imprenditoriali, professionali e sindacali, nonché istituti di patronato, con la costituzione di “forme di garanzia patrimoniale a carico dell’ente o associazione richiedente”. Viene altresì prevista una forma di ingresso per ricerca lavoro, a condizione che il cittadino straniero sia iscritto nelle liste e che possa fornire le sufficienti garanzie patrimoniali –proprie o di altri- per il suo sostentamento. Più in generale, si prevede una semplificazione delle procedure per il rilascio dei visti.
Per quanto riguarda gli ingressi, possiamo dunque affermare che rimane ferma la logica dei flussi, rendendola tuttavia molto più flessibile, e che la selezione continua ad essere determinata dalle necessità dell’economia italiana, salvo la possibilità –condizionata- della ricerca lavoro.
Per quanto riguarda i permessi di soggiorno, va prima di tutto sottolineato che non si esplicita un passaggio netto delle procedure per il rinnovo agli enti locali, come chiesto da tempo dall’associazionismo, ma si parla di più generiche “forme di collaborazione”. In secondo luogo, in relazione alla tipologia e alla durata dei permessi, vanno evidenziati i seguenti punti: eliminazione del “contratto di soggiorno”; allungamento dei termini di validità iniziale e raddoppio della durata in sede di rinnovo; permesso di un anno per rapporti di lavoro a tempo determinato inferiori a sei mesi, di due anni in caso di rapporti di durata superiore a sei mesi e di tre anni in caso di rapporti a tempo indeterminato o di lavoro autonomo; misure tese alla continuità della condizione di regolarità nelle more del rinnovo; estensione dei termini di validità a un anno per attesa occupazione, in caso di perdita del lavoro; possibilità del permesso per motivi umanitari anche a favore dello straniero che “dimostri spirito di appartenenza alla comunità civile”.
Insomma, non siamo certo di fronte al tanto invocato –da parte dei movimenti- sganciamento del permesso di soggiorno dal rapporto di lavoro, ma piuttosto ad una sua maggiore autonomizzazione. In caso di applicazione effettiva di tali misure, è prevedibile una riduzione della precarietà del migrante e del fenomeno della clandestinità di ritorno.
Prima di arrivare alla questione delle espulsioni, occorre però segnalare alcuni altri punti. Anzitutto, il fatto che viene esplicitamente previsto il diritto di voto attivo e passivo per le elezioni amministrative per gli stranieri “titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo”. In secondo luogo, una serie di misure a tutela degli stranieri minori, tra cui la previsione di meccanismi volti a garantire un permesso di soggiorno al compimento della maggiore età, seppure non in maniera generalizzata. In terzo luogo, l’equiparazione degli stranieri soggiornanti regolarmente da almeno due anni ai cittadini italiani in relazione all’accesso all’assistenza sociale. In quarto luogo, l’agevolazione e maggior regolamentazione dell’invio delle rimesse. Infine, il “potenziamento”, anche mediante la definizione della figura del mediatore culturale, della misure dirette all’inclusione. Va inoltre segnalato, negativamente, che il CdM ha eliminato in extremis la possibilità di accesso al pubblico impiego per cittadini non comunitari.
Ma eccoci al punto che ha sempre costituito una sorta di cartina di tornasole delle politiche migratorie, cioè la disciplina delle espulsioni e la questione dei Centri di Permanenza Temporanea (Cpt). Va anzitutto ricordato che il carattere securitario e ideologico della legislazione vigente comporta inevitabilmente la presenza di un’ampia e fisiologica area di clandestinità. E nonostante la mobilitazione di ingenti risorse pubbliche per le misure repressive –a dimostrazione della natura strumentale e demagogica del discorso securitario-, il sistema delle espulsioni mostra un efficacia assai ridotta. Nel 2005, soltanto il 45% dei 120mila destinatari di provvedimenti di espulsione sono stati effettivamente rimpatriati e di questi soltanto una minoranza è transitata attraverso i Cpt. Va inoltre segnalato che i Cpt italiani hanno trattenuto, sempre nel 2005, 16.163 persone, di cui due terzi sono stati effettivamente espulsi.
Il ddl Amato-Ferrero prevede una serie di modifiche: il rimpatrio volontario dell’espulso, incentivato da appositi mezzi finanziari e con la riduzione dei tempi di divieto di reingresso; la “graduazione” delle sanzioni penali e la “riconduzione” delle stesse ai principi generali della giustizia penale; la revisione delle “modalità” di allontanamento (per esempio, la sospensione dell’esecuzione per “gravi motivi”); una serie di garanzie per lo straniero vittima di violenza e grave sfruttamento; l’attribuzione delle competenze alla magistratura ordinaria.
Per quanto riguarda i Cpt, non si prevede la loro chiusura, ma di “superare l’attuale sistema”. Cioè, il potenziamento delle funzioni “di accoglienza e soccorso”, la revisione dei criteri strutturali e gestionali, la riduzione dei tempi di trattenimento, la possibilità di uscire dalla struttura in alcuni orari, la maggior collaborazione nei Cpt con associazioni, l’individuazione di procedure di identificazione durante la permanenza in carcere (molti trattenuti nei Cpt provengono infatti dagli istituti di pena), la previsione di specifiche “strutture per le espulsioni” e, infine, una maggior accessibilità dei Cpt da parte di soggetti istituzionali, di rappresentanti di alcune associazioni e della stampa. Nulla si dice, invece, della politica di delocalizzazione dei Cpt in Africa, perseguita dall’insieme dell’UE.
Contestualmente al varo del ddl, sono stati poi emananti due direttive: la prima di chiusura dei Cpt di Brindisi, Crotone e Ragusa e, la seconda, di invito ai Prefetti di definire nuovi criteri per l’accesso e la trasparenza dei Cpt.
Insomma, le modalità di rimpatrio diventerebbero un po’ più flessibili e garantiste, si introduce il “rimpatrio volontario”, si toglie finalmente la materia ai giudici di pace e si afferma la volontà di attenuare il carattere speciale del sistema sanzionatorio per i migranti. In relazione ai Cpt va registrato che le misure indicate sembrano collocarsi al di sotto di quanto raccomandato dalla Commissione ministeriale De Mistura, la quale, seppure evitando come la peste la parola “chiusura”, aveva tuttavia suggerito una strategia di “graduale svuotamento”.
Per concludere, possiamo affermare, anzitutto, che gli indirizzi contenuti nel ddl Amato-Ferrero non equivalgono all’abrogazione secca della Bossi-Fini, bensì a una sua modifica in direzione di una maggior flessibilizzazione e razionalizzazione della normativa, nonché di un’attenuazione del carattere discriminatorio della legislazione in materia. In secondo luogo, va ricordato che il ddl non è una proposta di legge, ma un insieme di principi e criteri direttivi.
Siamo quindi di fronte ad una proposta che non rappresenta il capovolgimento richiesto dai movimenti, ma che indubbiamente migliorerebbe le condizioni di vita dei migranti presenti nel nostro paese. Tuttavia, sarebbe un grande errore limitarsi a queste constatazioni, poiché la partita è appena cominciata.
Il ddl che abbiamo sommariamente esaminato rappresenta il risultato di una negoziazione, avvenuta nel vuoto di movimenti, tra le posizioni della cosiddetta sinistra radicale e quelle dei soci fondatori del partito democratico. E non occorre certo essere dei geni per capire che lo scontro frontale che aprirà il centrodestra tenderà a spingere i termini del compromesso a destra, visti anche i tanti balbettii e subalternità delle forze dell’Ulivo.

Il clima che si respira in queste settimane a Milano, con le ronde anti-rom, le campagne contro le moschee, l’applicazione della razzista legge regionale contro i phone center e i proclami anticinesi, dovrebbe far riflettere. Il discorso pubblico sull’immigrazione è inquinato e egemonizzato dalle destre e risulta evidente che se dal basso e da sinistra non si riuscirà ad avviare l’iniziativa sociale e politica, l’esito della battaglia sarà scontato. Ecco perché non basta essere severi nei giudizi, ma occorre buttarsi nella mischia e ricostruire il terreno del conflitto.

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La vittoria elettorale di Sarkozy sembra aver dato nuova linfa alle campagne securitarie del Sindaco Moratti, reduce da un anno di insuccessi della sua amministrazione cittadina. E così, dopo la manifestazione “per la sicurezza”, si apre un nuovo capitolo con delle proposte tanto demagogiche e ipocrite, quanto inutili e dannose.
Tutti i dati disponibili indicano nella sempre più ampia diffusione della cocaina, anche tra i giovanissimi, e nel costante aumento del consumo di alcolici tra i ragazzi sotto i 16 anni le nuove e preoccupanti tendenze. Ma tutto questo sembra non interessare minimamente il sindaco e i suoi assessori, visto che le uniche proposte consistono nell’abolizione delle macchinette scambia-siringhe, con le quali si tentava almeno di ostacolare la diffusione del virus HIV, nel taglio dei fondi alle comunità non in linea con l’ideologia delle destre e in una grottesca crociata contro lo spinello, con l’ausilio della strumentalizzazione senza scrupoli della tragedia del pullman.
Dall’altra parte, cosa aspettarsi da un Sindaco che proclama la guerra contro le “isole di illegalità”, salvo poi ignorare regolarmente e colpevolmente la principale isola del genere esistente in città, cioè i cantiere edilizi? Milano è letteralmente disseminata di cantieri e chiunque sa che lo sfruttamento del lavoro irregolare e il non rispetto delle norme di sicurezza hanno raggiunto livelli inauditi. Eppure, la polizia municipale meneghina, tra i cui compiti c’è anche quello di polizia edilizia, semplicemente non fa nulla. E come potrebbe agire, peraltro, visto che a questi compiti sono destinati, secondo i dati comunicati alla Regione, soltanto 3 agenti in tutta la città?
Insomma, a noi pare che da parte del centrosinistra, locale e nazionale, ci vorrebbe un po’ più di tolleranza zero nei confronti della demagogia del centrodestra meneghino, che governa questa città da 15 anni. Sappiamo bene che la politica è fatta anche di propaganda, ma di questo passo la farsa rischia di tradursi in tragedia.
 
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
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