Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 17 dicembre 2011
Stando al discorso che va per la maggiore, anche gli omicidi razzisti di Mor Diop e Samb Modou sarebbero responsabilità di un folle. Così come, a Milano, erano stati dei “balordi” a sprangare a morte Abba, al grido “negro di merda”, o ad ammazzare l’antifascista Davide “Dax” Cesare. D’altronde, pure il neonazista norvegese, Breivik, che massacrò 77 persone, è stato definito “incapace di intendere e volere” da una recente perizia psichiatrica.
Insomma, preoccupiamoci, ma non troppo. In fondo, è roba da cronaca nera e noi non c’entriamo e nemmeno la politica. Una tesi molto comoda e rassicurante, ma soprattutto terribilmente miope e deviante, poiché è un po’ come voler spiegare l’Olocausto con la follia di Hitler, rimuovendo en passant il consenso di massa che portò il nazionalsocialismo al potere in un quadro ancora democratico.
Cioè, il punto non è sapere se il Casseri di turno è un po’ squilibrato, cosa peraltro molto probabile, bensì interrogarsi su quegli ambienti culturali e politici che favoriscono, stimolano e finanche legittimano il prodursi di atti violenti di stampo razzista e neofascista.
In questo senso, bisogna proprio tapparsi occhi ed orecchie per non accorgersi che vi è ormai, in tutta Europa, un clima propizio per il diffondersi della xenofobia e per la rilegittimazione su ampia scala dell’estremismo di destra. Un clima, beninteso, non piovuto dal cielo, ma in larga parte provocato dalle scelte e dalle azioni degli attori politici.
Particolarmente grave è la situazione in Italia, dove il berlusconismo ha abbattuto deliberatamente ogni confine e distinguo sul lato destro, inglobando non soltanto gli ex-missini, ma persino il neofascismo più bieco, e legittimando ai massimi livelli istituzionali la propaganda xenofoba della Lega.
Non c’è da meravigliarsi, dunque, che si sia arrivati al punto che i gruppi militanti della galassia neofascista e neonazista abbiano potuto godere di sostanziose complicità da parte di molte istituzioni locali. A Roma, il Sindaco Alemanno ha addirittura comprato, con denaro pubblico, la sede a Casa Pound, l’organizzazione neofascista in cui militava Gianluca Casseri. A Milano, dove il quasi ventennale dominio della destra è terminato soltanto la primavera scorsa, se ne sono visti di tutti i colori. Dalla facilitazione di spazi pubblici fino al rifiuto del Sindaco di prendere posizione contro un’adunata europea di neonazisti in pieno centro, passando per il revisionismo militante di molti consigli di zona. E, per stare in tema, ricordiamo altresì il sostegno di Casa Pound Milano alla campagna elettorale dell’attuale Assessore regionale alla Cultura, Massimo Buscemi, poi ricompensata con il patrocinio regionale alle iniziative dei neofascisti.
Ma il problema non è solo a destra, perché troppe volte anche esponenti del centrosinistra hanno finito per favorire lo sdoganamento dei neofascisti, magari partecipando incredibilmente a confronti pubblici con i capi di Casa Pound, perché anche loro “sono ragazzi”.
Insomma, se vogliamo essere seri ed onorare davvero la memoria di Mor e Samb e di tutte le vittime della violenza razzista e fascista, allora non possiamo accettare che si continui a blaterare di folli e di balordi, perché qui l’unica follia sarebbe persistere nella tolleranza nei confronti delle tesi e dei centri di reclutamento dei razzisti e dei fascisti. Specie adesso, con la crisi che devasta le esistenze.
È ora, quindi, di rialzare quello steccato democratico che si chiama “antifascismo” e questo significa, anzitutto, impegnarsi perché gli spazi dei gruppi nazifascisti, a partire da quelli di Casa Pound, vadano chiusi e che si rompa ogni complicità istituzionale. A Firenze, a Milano, a Roma, ovunque.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sui giornali on line Paneacqua.eu e MilanoX il 1° dicembre 2011
No, in Lombardia non è questione di qualche mela marcia che si aggira nei sottoscala della Regione, bensì di un sistema di potere politico-affaristico, tanto radicato quanto ormai avariato e irriformabile, il quale occupa il governo lombardo sin dal lontano 1995. E se non fosse per la sua straordinaria capacità di condizionamento, anche ben oltre i propri confini politici, questa lampante verità sarebbe da tempo manifesta consapevolezza pubblica e non assisteremmo alla recita infinita della favola dell’eccellenza lombarda.
Già, perché in fondo basterebbe mettere in fila i fatti e guardare bene le fotografie del potere per rendersene conto. Franco Nicoli Cristiani (Pdl), arrestato ieri dai Carabinieri, insieme ad un alto dirigente dell’Arpa (l’ente regionale che si occupa di ambiente), è vicepresidente del Consiglio regionale e fino al 2010 era assessore nella terza giunta Formigoni. Cioè, la medesima Giunta che vantava tra i suoi componenti anche lo xenofobo militante Pier Gianni Prosperini (Pdl), arrestato in diretta tv nel 2009 per corruzione, nonché indagato per una miriade di altri reati, compreso un traffico d’armi con il dittatore eritreo.
In quella Giunta faceva l’assessore anche Massimo Ponzoni, sempre Pdl, allo stato indagato per bancarotta fraudolenta, ma diventato famoso perché aveva ricevuto nei suoi uffici alcuni boss della ‘ndrangheta, che lo consideravano, secondo la Direzione distrettuale antimafia, un loro “capitale sociale”. Ovviamente, Formigoni si è guardato bene dal riconfermarlo nella sua Giunta numero 4 e così Ponzoni è stato piazzato nell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale. Cioè, lo stesso ufficio, presieduto dal leghista Boni, dove siede anche Nicoli Cristiani e dove sedeva fino a poco fa Filippo Penati. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, Ponzoni non ha mai sentito il bisogno di dimettersi e la sua maggioranza, peraltro, non gliel’aveva mai chiesto.
Infine, in quella Giunta c’era anche Gian Carlo Abelli, conosciuto nella sua Pavia come “il faraone”. Lui si occupa di sanità ed era già rimasto coinvolto nelle inchieste su Poggi Longostrevi. Ma soprattutto era poi diventato l’uomo di fiducia di Formigoni nella sanità lombarda, dove gestiva le nomine, sebbene fosse assessore alla solidarietà sociale. Anche lui non lo vediamo più accanto a Formigoni nelle occasioni pubbliche, perché era stato toccato dallo scandalo delle bonifiche sull’area Montecity-Santa Giulia a Milano, esploso nel 2009. Non è stato mai formalmente indagato, beninteso, ma sua moglie, Rosanna Gariboldi, ex-assessore provinciale a Pavia, è stata condannata e lui, comunque, non si faceva troppi problemi a girare con la Porsche messagli a disposizione dal “re delle bonifiche”, Giuseppe Grossi, nel frattempo deceduto.
Rifiuti, bonifiche, sanità, infrastrutture autostradali. Ecco che tornano sempre gli stessi settori, cioè quelli dove oggi si riescono a fare soldi, truffando la collettività e fregandosene altamente di dettagli come la salute dei cittadini. Eppure, sarebbe sempre e soltanto colpa di qualche singolo. Formigoni, politico navigato e autocandidato a leader nazionale del Pdl, è sempre pronto a dire che la responsabilità è esclusivamente personale e che lui e la sua maggioranza non c’entrano nulla. Chissà se gli riesce anche questa volta, ma finora il gioco ha funzionato egregiamente.
Chi si ricorda più di Prosperini? Anzi, sembra quasi che non sia mai esistito. Abelli? Idem. E poi, ci sarebbero anche i casi come quello del San Raffaele, dove lo stretto rapporto tra Cl-Formigoni e la cricca di Don Verzé è di dominio pubblico, senza contare che Regione Lombardia ha girato all’ospedale privato 400 milioni di euro di denaro pubblico nel solo 2010. Eppure, è stato sufficiente che Formigoni dicesse “ma che c’entra la Regione?” perché più o meno tutti si adeguassero e facessero calare il silenzio su eventuali responsabilità del governo regionale, finanche sul mancato rispetto di quell’elementare obbligo di controllo, che sussiste sempre di fronte a un finanziamento pubblico.
Un’efficienza straordinaria nel cancellare le tracce, insomma, che ricorda quasi i tempi di Stalin, quando si ritoccavano addirittura le foto del passato per far sparire la memoria delle persone. Ma anche un’efficienza che non può essere opera di un solo uomo, né di un solo movimento politico, ma che necessita di complicità, collaborazione.
Da questo punto di vista, anzitutto, ci sarebbe la Lega, sempre pronta ad urlare la sua diversità, ma poi parte organica del governo lombardo, in alleanza con Comunione e Liberazione. Insomma, mai visto niente in questi 10 anni di governo? Mai sentito nulla? Anzi, l’unico tentativo di dimostrare la famosa “diversità” che ci risulti era costato carissimo al suo protagonista. Infatti, nel 2005 la Lega impose un suo uomo all’assessorato della sanità, Alessandro Cè, il quale avviò immediatamente uno scontro frontale con Abelli sulle nomine, denunciando lo strapotere di Cl. Ebbene, la cosa finì come doveva finire e nel 2007 Cè venne prima cacciato dalla Giunta e subito dopo espulso dalla Lega.
E che dire dell’opposizione, a partire dal suo azionista di maggioranza, il Pd? Già, perché da quelle parti e da molti anni va per la maggiore la tesi del “dialogo” con Cl e Formigoni, con tutto il suo corollario di “opposizione responsabile” eccetera. Nell’era penatiana del Pd questa era praticamente la linea ufficiale e, comunque, ampiamente praticata in Regione. Ora l’era penatiana non c’è più, ma la tesi del dialogo con Cl continua a resistere in ampi settori del partito, anche in virtù dei molteplici ed insani intrecci d’interesse, compresi quelli tra le Coop e la Compagni delle Opere. E chissà, forse l’operazione governo Monti, nella misura in cui dura, può persino portare nuova linfa vitale a questo “dialogo”.
Di fronte all’attuale bufera giudiziaria, Formigoni tenterà ovviamente di riproporre la solita tattica, contando sulla buona stampa e sulle troppe omertà politiche. Da parte nostra, però, riteniamo che non gli vada permesso di cavarsela ancora una volta, che bisogna iniziare seriamente a metterlo di fronte alle sue responsabilità e che vada avviato subito un percorso che porti alle sue dimissioni, senza aspettare eventuali sue ricollocazioni nazionali nel 2013 e certamente senza attendere la scadenza naturale di questa legislatura regionale. E questo significa tagliare ogni complicità e ogni omertà e chiedere, da parte di tutta l’opposizione, le sue immediate dimissioni.
E, beninteso, questo non è il solito discorso della sinistra che cerca di approfittare di fatti di cronaca per danneggiare l’avversario politico. No, si tratta di prendere atto che il sistema di potere formigoniano è diventato un peso ormai insostenibile per la Lombardia. Anzi, una palla al piede, un modello irriformabile e una porta aperta per le infiltrazioni criminali. E ogni giorno che passa aumenta un po’ di più la delegittimazione dell’istituzione regionale. Questa è la realtà e continuare a negarlo è colpevole.
Oggi, alla Camera dei Deputati, inizia il suo iter uno dei provvedimenti simbolo delle politiche europee in tempi di austerity: l’introduzione nella Costituzione italiana dell’obbligo del pareggio di bilancio.
Si tratta di una norma in discussione in molti paesi europei e negli Usa, ma finora è stata approvata soltanto in Spagna. Ed è una norma pesante in tutti i sensi, anche se spesso sottovalutata dal dibattito pubblico, poiché i suoi effetti devastanti, in termini di smantellamento del welfare, saranno misurabili soltanto nel tempo.
Vi consigliamo pertanto di leggere attentamente la proposta che oggi inizia il suo complesso percorso, trattandosi di una modifica della Costituzione (articoli 81, 100, 117 e 119), e che dovrebbe entrare pienamente in vigore nel 2014. Si tratta della proposta di legge costituzionale “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, frutto dell’unificazione delle diverse proposte in materia già presentati, sia dal centrodestra, che dal centrosinistra (il testo unificato lo puoi trovare in allegato).
In estrema sintesi, si prevede l’introduzione del principio del pareggio non soltanto per il bilancio dello Stato, ma anche per quelli delle Regioni e degli enti locali. Inoltre, vi è un richiamo esplicito ai “vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea” e questo significa una sorta di costituzionalizzazione dei trattati europei, a partire da quello di Maastricht, con tutto ciò che questo comporta.
Infine, segnaliamo che, sebbene il testo in discussione preveda che la funzione di controllo venga esercitata dalla Corte dei Conti (vedi art. 2 della proposta di legge costituzionale), il nuovo Presidente del Consiglio, Mario Monti, nel suo intervento al Senato del 17 novembre scorso, ha invece evocato la necessità di affidare tale funzione “ad autorità indipendenti”. In altre parole, non possiamo escludere che nel corso del dibattito venga presentato un emendamento che assegni ad un soggetto non pubblico, ma privato il potere di sindacare le decisioni del Parlamento in materia di bilancio…
Insomma, buona lettura!
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il Testo unificato della proposta di legge costituzionale sul pareggio di bilancio del 10 novembre 2011
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 17 novembre 2011
Il Governo Berlusconi non c’è più. Il caimano si è dimesso, consumato da un inglorioso autunno del patriarca e sempre più isolato. Era nell’aria sin dai tempi della rottura con Fini ed era diventato quasi una certezza con la splendida primavera dei sindaci e dei referendum. Ora finalmente è accaduto e quindi facciamo bene, noi di sinistra, ad esultare e sentirci sollevati.
Eppure, c’è un “ma” che pesa, perché dopo anni di lotte, speranze, delusioni, traversate del deserto ed indignazioni, alla fine non siamo stati noi a dargli la spallata. Nessun 14 dicembre, primavera democratica o 15 ottobre l’hanno mandato a casa. No, l’hanno fatto i “mercati finanziari” o meglio, visto che la mano invisibile esiste solo nelle favole, quei soggetti che dispongono dei mezzi finanziari per agire e per orientare.
E attenzione, non si tratta di una quisquilia, poiché quella dei protagonisti del cambiamento è questione decisiva. Altrimenti, per scomodare altre epoche storiche, perché nell’aprile 1945 il capo delle forze alleate in Italia avrebbe chiesto ai partigiani di stare fermi in attesa che le sue truppe liberassero il nord del paese e perché il CLN avrebbe invece deciso l’esatto contrario, dando l’ordine per l’insurrezione popolare?
In altre parole, il modo in cui si esce dal disastro berlusconiano è dirimente. E da questo punto di vista faremmo molto bene, noi di sinistra, a toglierci dalla testa che la fine di Berlusconi significhi di per sé l’avvento di un’Italia migliore. A maggior ragione nelle condizioni date, cioè nel bel mezzo della più micidiale crisi economica, sociale e politica che l’Europa abbia vissuto dagli anni Trenta del secolo scorso.
Ebbene sì, perché il punto è questo: ci stiamo liberando dall’anomalia italiana, per ritrovarci di colpo nella normalità della crisi europea. C’eravamo anche prima, ovviamente, ma forse il berlusconismo ci aveva un po’ annebbiato la vista. E così, come logica conseguenza dell’incapacità dell’opposizione sociale e politica di buttare giù il sultano e di avanzare una proposta politica alternativa, ci scopriamo ora destinatari di ordini di servizio alla pari di Spagna, Portogallo o Irlanda e commissariati come la Grecia.
In questi giorni Mario Monti gode di grande credito pubblico, un po’ per il legittimo sollievo di non avere più come presidente del consiglioBerlusconi, un po’ perché molti vedono in lui un’ancora di salvezza in mezzo alla tempesta. Tutto questo è comprensibile, ma non ci esime certo dal guardare oltre il momento e l’apparenza.
Mario Monti, come il nuovo primo ministro greco, Lucas Papademos, è espressione diretta dell’establishment finanziario internazionale. Papademos era governatore della banca centrale greca e vicepresidente della Bce fino all’anno scorso. L’ex commissario europeo Monti è advisor della potente banca d’affari “Goldman Sachs” e ricopre ruoli di primo piano nella Commissione Trilaterale e nel Gruppo Bilderberg. Beninteso, qui non è questione di complotti, ma molto più banalmente di prendere atto che oggi i circoli e le istituzioni del finanzcapitalismo (per usare la definizione di Gallino) hanno deciso di intervenire direttamente nella gestione politica degli Stati.
In questa dinamica, ad essere sconfitta e sottomessa non è tanto la politica intesa come ceto o partiti, bensì la democrazia, intesa come possibilità delle classi popolari di poter partecipare alla formazione delle decisioni pubbliche. Infatti, nelle lettere della Bce all’Italia o nello scandalo ufficiale di fronte all’ipotesi di referendum in Grecia ritroviamo la medesima insofferenza nei confronti della democrazia che abbiamo già visto all’opera a Pomigliano, Mirafiori o Grugliasco.
Insomma, delle pessime premesse per il futuro, dove in gioco non è il ricambio dei governanti, bensì la ridefinizione del sistema politico, sociale ed istituzionale. Cioè, la “terza repubblica” e il modello sociale.
Ecco perché non dobbiamo, noi di sinistra, stare nel recinto della Grosse Koalition a sostegno di un governo per nulla tecnico, il cui programma è stato scritto dalle istituzioni finanziarie. Non per ideologia, ma per realismo. E non per sbraitare a bordo campo, bensì per rientrare in gioco e costruire e organizzare un punto di vista alternativo, a partire dal lavoro, possibilmente con spirito unitario e insieme a movimenti e forze degli altri paesi europei. Altrimenti, anche le elezioni, quando finalmente arriveranno, serviranno a ben poco.
In queste ore tutti parlano del governo che se ne va e di quello che viene. Comprensibile e giustissimo, ma c’è il rischio che poi non si dia il giusto peso alla Legge di Stabilità, comprensiva del famoso “maxiemendamento” dell’ultima ora, approvata ieri dal Senato ed oggi, in via definitiva, dalla Camera dei Deputati.
Ebbene, sarebbe un grave errore non occuparsi con la sufficiente attenzione di questa legge, perché si tratta di quella che una volta si chiamava “Finanziaria” e arriva dopo soli pochi mesi dal varo delle “misure urgenti” economiche e finanziarie di ferragosto (vedi decreto-legge n. 138 del 13 agosto 2011).
Non è nostra intenzione e pretesa riassumere o spiegare in dettaglio il contenuto delle “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2012)”, poiché in rete sono sin d’ora reperibili riassunti giornalistici e nei prossimi giorni si troveranno anche i commenti ed approfondimenti. No, molto più semplicemente, poiché carta canta, specie quando parliamo di leggi, mettiamo a disposizione il testo originale, completo e definitivo, comprensivo dunque degli emendamenti.
Per scaricarlo, clicca sull’icona qui sotto.
Domenica 6 novembre ci ha lasciati Onorina Brambilla Pesce, partigiana comunista del III° GAP “Egisto Rubini” di Milano, nome di battaglia “Sandra”, compagna e moglie di Giovanni Pesce, il comandante “Visone”.
La cerimonia funebre si svolgerà mercoledì 9 novembre 2011, alle ore 15.00, presso la Camera del Lavoro di Milano, nel salone “Di Vittorio”, in Corso di P.ta Vittoria 43. Dalle ore 11.00 dello stesso giorno, sempre in CdL, ci sarà anche la camera ardente.
Rendiamo omaggio alla compagna Nori e ci inchiniamo di fronte al suo limpido esempio di impegno e di lotta per la libertà e la giustizia sociale e contro il fascismo.
Luciano Muhlbauer
Biografia di Nori (fonte: Anpi Milano)
La storia partigiana di Onorina Brambilla (1923), detta Sandra, comincia nel settembre del 1943 quando, figlia di operai antifascisti, entra prima nei Gruppi di difesa della donna e poi nelle brigate del 3° GAP di Milano come ufficiale di collegamento. La sua vicenda è un esempio del percorso compiuto da tante donne italiane che all’8 settembre del 1943 con l’occupazione straniera del Paese e il sorgere della Repubblica Sociale Italiana, non ebbero esitazioni a battersi per la libertà, offrendo un contributo decisivo alla Liberazione.
La sua militanza dura fino al settembre del 1944, quando viene catturata dalle SS in seguito alla denuncia di un delatore. Portata alla Casa del Balilla di Monza, è torturata per una notte intera. Da lei non esce una sola parola che possa condurre le SS al comandante dei GAP, Giovanni Pesce. Condotta nel carcere di Monza, vi trascorre un mese e mezzo, finché non viene trasferita brevemente a San Vittore e poi nel campo di concentramento di Bolzano, dove resterà dal novembre del 1944 all’aprile del 1945. A Bolzano entra in contatto con l’organizzazione clandestina collegata con il Comitato di liberazione nazionale. Dopo la Liberazione, Nori Brambilla, torna a piedi, con altri compagni, attraverso la Val di Non, il passo della Mendola e quello del Tonale, a Milano, dove riabbraccerà la famiglia e il “suo” comandante, Giovanni Pesce, medaglia d’oro della Resistenza. Nori e Giovanni si sposeranno il 14 luglio 1945.
Onorina Brambilla Pesce, per decenni militante del Pci e poi di Rifondazione Comunista ha ricevuto il diploma del Comando Alleato di Alexander e la Croce di guerra al ”valor partigiano”. E’ stata dirigente nazionale della Fiom-Cgil. Attiva nel mondo dell’associazionismo partigiano e reducistico nell’Anpi, nell’Aned e nell’Anpiia. Inaccesibile allo scoraggiamento, non si contano le occasioni in cui ha portato testimonianza presso istituzioni, scuole e associazioni. È stata presidente onoraria dell’Aicvas, l’Associazione degli ex-combattenti volontari antifascisti nella guerra di Spagna. Nel 2006 è stata insignita della medaglia d’oro di benemerenza dal Comune di Milano, città dove ha vissuto.
di lucmu (del 03/11/2011, in Lavoro, linkato 3211 volte)
Venerdì 4 novembre c’è lo sciopero di 8 ore dei metalmeccanici della Lombardia, proclamato dalla Fiom. A Milano ci sarà la manifestazione regionale, che partirà alle ore 9.30 da San Babila e terminerà poi davanti alla nuova sede di Regione Lombardia (angolo via Galvani e via Melchiorre Gioia, per chi non lo sapesse).
In corteo, insieme agli operai della Fiom, ci saranno anche alcune componenti studentesche, come Laps, Unione degli studenti ed altri, e lavoratori e lavoratrici di altre categorie. Il nostro invito, ovviamente, è quello di partecipare al corteo, se potete.
E non si tratta di un semplice invito di rito, poiché siamo convinti che la mobilitazione di domani sia molto importante e che abbia valenza generale.
In primo luogo, perché l’attuale situazione di crisi e le risposte anticrisi che vanno per la maggiore, quelle delle lettere e delle letterine, dove comunque a pagare il conto è sempre e comunque chi vive del proprio lavoro, fisso o precario che sia, necessitano terribilmente di un’altra voce, di un altro punto di vista. E quella voce e quel punto di vista li possono offrire soltanto gli operai, i precari, gli impiegati pubblici, gli insegnanti eccetera. Cioè, i lavoratori e le lavoratrici.
In secondo luogo, quello che è successo il 15 ottobre scorso non deve certo allontanarci dalle piazze e dalle mobilitazioni, in una sorta di autorepressione che finisce per essere più deleteria dei divieti e delle leggi speciali dei vari Alemanno, Di Pietro e Maroni. Anzi, a maggiore ragione dopo quanto avvenuto oggi a Roma, con le cariche di polizia contro gli studenti medi, colpevoli di voler semplicemente manifestare nella loro città, dobbiamo ribadire quelle libertà democratiche che fanno tanto paura ai predicatori dell’austerity.
Infine, sebbene lo sciopero regionale della Fiom faccia parte di un “pacchetto” nazionale di iniziative dei metalmeccanici per la riconquista del contratto nazionale, per i diritti sindacali e per l’abolizione del famigerato l’articolo 8, la mobilitazione di domani ha anche una forte dimensione regionale, legata alla Lombardia e alla politica fatta da chi governa Regione Lombardia da tempo ormai immemorabile, cioè da Cl e dalla Lega.
Ebbene sì, perché nella ricca Lombardia, che Formigoni spaccia nei talk show nazionali come terra felice del lavoro e del buon governo, la realtà e molto diversa. Non solo la crisi non accenna a frenare, specie nei settori manifatturieri, come ci ricordano anche gli ultimissimi esempi di una lunga lista, come la Jabil di Cassina de’ Pecchi o la Thales Alenia Space di Vimodrone, ma soprattutto non si è mai vista, da parte del governo regionale, una politica per l’occupazione e per il mantenimento sul territorio delle attività produttive.
No, da parte dei governanti lombardi, sia nella scorsa legislatura (per la quale rinviamo a quanto scritto su questo blog a suo tempo) che in quella attuale, ha sempre prevalso la politica dell’elargizione di ammortizzatori sociali per i lavoratori e di qualche finanziamento a pioggia per le imprese (salvo le imprese amiche di Cl, beninteso, trattate con ben altro riguardo…). Mai però c’è stata una politica che tentasse di contrastare le chiusure e le delocalizzazioni, mai c’è stato un intervento serio per favorire il mantenimento di attività industriali, anche di quelle tecnologicamente avanzate, sul territorio regionale. Mai, nemmeno in casi dove questo era possibilissimo, come in quello dell’Innse (ricordate?), che oggi lavora e produce grazie soltanto alla lotta degli operai.
E, come se non bastasse, all’immobilismo politico ed istituzionale di Regione Lombardia si sono pure aggiunte l’arroganza e la spocchia dei suoi rappresentanti. Diverse situazioni aziendali che domani saranno in piazza di recente avevano già fatto presidi davanti alla sede della Regione, in concomitanza con le sedute del Consiglio regionale del 18 e del 25 ottobre scorsi. Ebbene, la cosa che aveva colpito di più era il comportamento della grande maggioranza dei consiglieri regionali, che non solo non si erano degnati di parlare con gli operai che protestavano, ma che in qualche caso, come in quello del Trota e del suo accompagnatore (il consigliere leghista Frosio), avevano persino evocato l’intervento dei Carabinieri lì presenti…
E cosa dire dell’assessorato regionale all’industria e alle attività produttive? Nella scorsa legislatura, già in piena crisi economica ed occupazionale, questo delicato settore era stato affidato ad una persona palesemente incompetente, come Romano La Russa, mentre nell’attuale legislatura la delega è stata data alla Lega, cioè al vicepresidente regionale Andrea Gibelli. Certamente, Gibelli è più competente di La Russa, ma la musica non è cambiata. E così, i 300 lavoratori della Jabil che rischiano il licenziamento si sono sentiti dire dall’assessore-vicepresidente che la politica non può fare nulla se un’azienda decide di chiudere e licenziare…
A questo punto, pensiamo di aver detto e scritto a sufficienza per motivare il sostegno e la partecipazione alla mobilitazione di domani. Non ci rimane, dunque, che invitarvi a visitare il sito della Fiom Lombardia, per maggiori informazioni sulla piattaforma dello sciopero, e darvi/ci appuntamento per domani.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 20/10/2011, in Lavoro, linkato 3153 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line Paneacqua il 20 ottobre 2011
Riprendiamoci la piazza, a partire da domani 21 ottobre, in piazza del Popolo a Roma, insieme ai lavoratori e alle lavoratrici di Fincantieri e Gruppo Fiat e indotto. Non si tratta semplicemente di una dimostrazione generica di solidarietà con la Fiom, bensì di un concretissimo e consapevole atto di ribellione civile a quel tentativo del Governo di limitare la libertà di manifestare di tutti i cittadini, che significativamente non risparmia nemmeno chi lotta per il proprio posto di lavoro ed i più elementari diritti.
E sgomberiamo subito il campo da quei ragionamenti che in nome di un malinteso e, a volte, peloso “buon senso” sostengono che, visto quello che è successo il 15 ottobre, forse è meglio rinunciare alle piazze o starsene a casa per un po’. No, quei ragionamenti sono sbagliati alla radice, perché consegnano la patente della buona fede a chi predica e persegue delle strette autoritarie generalizzate e perché equivalgono a una resa preventiva all’austerity e allo sfascio sociale.
Ma perché un operaio della Fincantieri o dell’Irisbus dovrebbe ora rassegnarsi in silenzio alla perdita del proprio posto di lavoro? Perché un operaio della Fiat non dovrebbe più manifestare nelle vie delle città? O perché le popolazioni della Val di Susa dovrebbero ora chiudersi in casa nella loro valle? Perché sabato scorso a Roma alcuni gruppi politici avevano deciso di sovradeterminare un’enorme manifestazione?
No, qui la questione è un’altra e nemmeno particolarmente originale. C’è un governo e un potere politico in difficoltà estrema, con un Parlamento ridotto a votare che gli indagati per mafia possono fare i Ministri e che Ruby è effettivamente la nipote di Mubarak, e una crisi che picchia duro su ampi settori popolari. Poter buttarla in caciara, invocare il “terrorismo urbano” e le leggi speciali, magari con la gentile collaborazione del Di Pietro di turno, e poi finire per restringere gli spazi legali di protesta e lotta sociale, è un’occasione da non perdere. E, infatti, fanno di tutto per non perderla.
Quello che sta succedendo alla Fiom è estremamente grave ed altamente significativo. Il Sindaco di Roma, l’ex fascista Alemanno, è tradizionalmente allergico ai cortei dei lavoratori. Già il 27 settembre scorso aveva chiesto al Questore di fermare con la forza il corteo degli operai della Fiat di Termini Imerese. E così, il Sindaco con la celtica ha colto la palla al balzo e vietato per un mese intero ogni corteo nel centro città, a partire da quello della Fiom di domani.
La Fiom, non volendo giustamente rinunciare ad un corteo, ha cercato allora la mediazione: facciamo un corteo fuori dal centro. Ma a questo punto è intervenuto direttamente il Ministero degli Interni, attraverso i suoi uffici territoriali, vietando alla Fiom qualsiasi corteo in qualsiasi punto della città. Chiaro? Non un’orda di lanzichenecchi stava per calare sulla capitale, bensì i lavoratori in sciopero del Gruppo Fiat e della Fincantieri (quest’ultima, peraltro, controllata da una società del Ministero dell’Economia e quindi dove dovrebbero andare a protestare se non a Roma?), per chiedere che non si chiudano gli stabilimenti e che si salvaguardi l’occupazione. Eppure, niet, nada, chi se ne frega e vietato tutto.
Insomma, da parte nostra, intesa come molteplicità di movimenti, dovremo sicuramente fare i conti con quanto avvenuto sabato scorso e in parte abbiamo già iniziato farli. Senza luoghi comuni e senza mistificazioni, ma nella chiarezza politica e nella consapevolezza che una cosa del genere non deve più succedere. E questo non perché ce lo chieda qualcuno, ma perché il problema è tutto nostro e perché tutto nostro è l’interesse riattivare il movimento e la partecipazione.
Ma con altrettanta chiarezza, trasparenza ed efficace va rifiutato da subito ogni tentativo di limitazione delle libertà democratiche e di manifestazione in nome dell’emergenza di turno. Per ora il Ministro Maroni ha annunciato delle misure, tra cui anche quella del pagamento di una cauzione preventiva in denaro, che equivale al divieto generalizzato di manifestare per la grande maggioranza, esclusi i milionari, i banchieri e i ministri.
Sta anche a noi, alla nostra capacità di rispondere, a mani nude, ma con fermezza e determinazione, quanto e che cosa delle misure annunciate si trasformerà effettivamente in norma della Stato.
Quindi, iniziamo a muoverci, a partire da domani, con la Fiom, nella più giusta delle battaglie, quella per i diritti e per il lavoro, per chiarire al Governo e ai suoi fiancheggiatori che non accetteremo mai che le libertà democratiche vengano messe agli arresti domiciliari.
In genere, in casi come questi, è sempre preferibile darsi un po’ di tempo e far sedimentare le impressioni e le emozioni, prima di abbandonarsi alla pretesa di formulare valutazioni e letture. Ma non sempre ciò è possibile e sicuramente non è possibile all’indomani della mobilitazione del 15 ottobre, poiché noi non siamo né sociologi, né filosofi, bensì attivisti e protagonisti.
E poi, come hanno dimostrato già le prime ore, forte è la tentazione di affidarsi a qualche luogo comune o a qualche schema un po’ troppo schematico per spiegarsi quello che è successo ieri nelle strade di Roma, rischiando così di prendere lucciole per lanterne.
Quindi, con la consapevolezza dei limiti di tutte le parole pronunciate a caldo, ecco alcune valutazioni, che auspichiamo possano essere un contributo al dibattito del e nel movimento. Ebbene sì, del e nel movimento, perché il problema è tutto nostro.
1. Anzitutto, va evidenziato e sottolineato un dato di cui praticamente non si parla più, ma che sarebbe idiota e autolesionista ignorare da parte nostra, soprattutto perché era un dato non scontato alla vigilia: cioè, la grande è straordinaria partecipazione alla manifestazione.
Ieri a Roma non era nemmeno necessario evocare il consueto balletto dei numeri, perché bastava il colpo d’occhio o la telefonata con l’amico che pensavi fosse dietro di te, invece era ancora imbottigliato davanti alla stazione Termini, per capire che il corteo era più che riuscito, che non c’erano soltanto i militanti delle reti più o meno organizzate, ma che c’era anche quell’eccedenza che, in ultima analisi, fa i movimenti.
Talmente grande era la partecipazione che buona parte del corteo non si è nemmeno accorto di quello stava avvenendo in testa. Quando in San Giovanni erano già in corso gli scontri, la coda iniziava ad imboccare via Cavour.
2. In secondo luogo, la tesi del parallelo con quanto accaduto a Genova dieci anni fa, con i black bloc di allora, le infiltrazioni di polizia eccetera, non ci convince per nulla. Beninteso, siamo persuasi anche noi che ci sarà stato qualche fascio che si è mescolato a qualche scontro e che le forze dell’ordine più che ostacolare abbiano agevolato alcune dinamiche, dalla condizione di via Cavour, dove il giorno prima non erano stati messi nemmeno i consueti divieti di sosta (…), fino ai criminali caroselli di blindati che spazzavano una piazza San Giovanni piena di gente. Ma crediamo, semplicemente, che evocare complotti e infiltrazioni non spieghi affatto la giornata di ieri e, soprattutto, che serva più che altro per autoconsolarci, tranquillizzarci e non affrontare di petto i problemi, i nostri problemi.
Sono passati dieci da Genova e molte cose sono cambiate. Quello che con linguaggio datato si chiama “black bloc” e che altri chiamano “i neri” o “gli agitati” non sono dei marziani o degli agenti infiltrati di qualche servizio segreto, ma un’area politica anarchica che esiste in Europa e in Italia. Non sono apolitici, ma hanno una visione politica, che assomiglia molto al “no future” di altri momenti della nostra storia recente.
E attenzione a non banalizzare! Il loro discorso può calzare a pennello con la condizione sociale concreta e, soprattutto, con la percezione della propria condizione di una parte non indifferente di giovani del nostro tempo. Insomma, il sistema è alla frutta, la sinistra tradizionale è parte del sistema alla frutta, non c’è alcuna speranza per noi, se non la comunità degli insorti, e, quindi, non rimane che accelerare e accompagnare la distruzione del sistema. Una visione immensamente pessimistica, ma è una visione, agli occhi di chi la condivide, che giustifica e che da senso alla pratica della distruzione di cose.
Quell’area politica a Roma c’era nel corteo, peraltro ben visibile, così come c’è nelle grandi città. Non sono reduci di battaglie del passato, ma in larghissima parte giovani e giovanissimi. Hanno deciso di esserci e di portarvi la loro pratica. E loro hanno iniziato.
Ma, anche qui, non prendiamo lucciole per lanterne. Alla fine, verso San Giovanni, a scontrarsi con la polizia non erano soltanto loro, a meno che non si voglia sostenere seriamente che 2 più 2 faccia 10… No, era un pezzo più ampio del corteo che, una volta partiti gli scontri con la polizia, si è fatto coinvolgere.
Perché? Perché erano lì e non volevano stare a guardare di fronte a quello stava accadendo? Perché era già sceso in piazza con quello stato d’animo? Perché pensava che questo era un modo, un po’ politicista, ma non per questo meno reale, di regolare i conti con altre aree del movimento, considerate troppo moderate? Chissà, probabilmente tutte queste cose messe insieme.
Comunque sia, rimane un fatto, che segna una distanza e una diversità non indifferente con Genova 2001. Allora, il rifiuto della violenza e, più concretamente, della strada dell’impatto frontale con le forze antisommossa era sentimento dominante e diffuso, come avrebbe dimostrato il dopo: la reazione alla bestiale repressione di Genova non fu la violenza, bensì il suo contrario, per parecchi anni.
Oggi è diverso. Dalle mobilitazioni dell’Onda al 14 dicembre dell’anno scorso, passando per la Val di Susa, è emersa una realtà nuova, fatta di un rapporto diverso con la piazza, i divieti e le forze dell’ordine. E questo non riguarda soltanto qualche piccola realtà organizzata (che non sarebbe una novità), ma settori più ampi. Insomma, un cambiamento di clima che ieri ha fatto sì che non ci fosse un fuggifuggi generale di fronte alla colonne di fumo che si levavano in via Labicana, ma il grosso dei manifestanti continuasse ad andare in quella direzione, compresa quella parte, molto significativa, che urlava agli “incappucciati” di smetterla.
3. In terzo luogo, se quanto sopra detto ha un senso, dobbiamo tentare anche un primo bilancio sul percorso di preparazione del 15 ottobre qui in Italia. E proviamo a buttare lì alcune considerazioni in maniera un po’ ruvida. Il percorso di avvicinamento al 15 è stato difficoltoso, perché, sebbene tutte le aree di movimento, i sindacati conflittuali (dalla Fiom ai sindacati di base), l’associazionismo eccetera convergessero e concordassero sull’appuntamento internazionale lanciato dagli indignados spagnoli, su tutto il resto prevalevano le divergenze. Cosa fare in piazza, come proseguire dopo il 15, le parole d’ordine caratterizzanti, le prospettive politiche eccetera, tutto questo divideva. Eravamo forse ai livelli unitari più bassi da tempo.
Nulla di sorprendente, perché la disunità prevale da un po’ e i tempi sono complicati, ma in fondo la politica, anche quella di movimento, è fatta per cambiare le cose e non semplicemente per prendere atto dell’esistente. O no? Comunque, c’è stato un tavolo di discussione e un tentativo unitario, il Coordinamento 15 ottobre, dove c’erano quasi tutti, ma non si è riusciti ad andare oltre il minimo sindacale. E quindi, nel percorso di avvicinamento al corteo hanno prevalso le mediazioni che non accontentavano nessuno, gli appuntamenti di parte e la competizione tra le varie aree sulla visibilità eccetera. E tutto questo, a nostro avviso, ha reso più facile che si potesse guardare al 15 ottobre come ad un giornata dove ognuno era libero di fare quello che gli pareva.
Beninteso, questo non è un atto di accusa verso nessuno, ma l’evidenziazione di un problema collettivo, che ci troveremo di fronte anche nelle prossime scadenze. Cioè, un problema che richiede una soluzione.
Ieri sera, tornando a Milano da Roma, mi è venuto in mente un documento che avevo letto quest’estate. Si intitolava Cos’è una resistenza popolare, era firmato “Network Antagonista Torinese (askatasuna-murazzi-cua-ksa) e Comitato di lotta popolare no tav – Bussoleno” e si riferiva alla lotta della Val di Susa. Tra le altre cose diceva che “tacere sui limiti soggettivi dei movimenti non è d’aiuto”, criticava la logica dell’autoreferenzialità, sosteneva che “la Val Susa non è il Luna Park dove trovare quell’appagamento che non si trova sui propri territori” e riteneva necessario il rispetto delle decisioni collettive. Ebbene, forse i firmatari del documento non saranno d’accordo che lo citiamo in questo contesto e forse non c’entra niente, ma mi era venuto in mente e quindi mi sembra giusto dirlo.
Abbiamo scritto un fiume di parole, ma succede così quando si scrive a caldo e quando si vogliono evitare fraintendimenti. Ce ne scusiamo. Ora la domanda che rimane è la solita: “quindi, che facciamo?”.
Io non ho ricette pronte e credo, specie in questo caso, che bisogna trovarle insieme, altrimenti non funziona. Ma sono altrettanto convinto che, per poterlo fare, bisogna parlare chiaro, abbandonare luoghi comuni e mistificazioni. E, in questo senso, mi sento di dire due cose.
Primo, non possiamo più permetterci che l’andamento di un appuntamento collettivo venga determinato dalle decisioni unilaterali di una parte. Non è un problema burocratico, è un problema politico di tutto il movimento e di tutte le sue articolazioni. A meno che, ovviamente, non si pensi che nella società e nella politica debbano essere solo gli altri a decidere e che ai movimenti spetti semplicemente il ruolo di fare le standing ovation oppure un po’ di riot.
Secondo, smettiamola di mistificare e mettiamo sul tavolo le opzioni politiche. Cioè, esplicitiamo le proposte, i percorsi e gli orizzonti. Il governo che viene? Le alternative? Quali? I contenuti? Il rapporto con le forze politiche? Le pratiche? Eccetera, eccetera. Non sto parlando di tavole rotonde in qualche circolo, il dibattito si fa anche con le iniziative e con il conflitto. No, sto parlando di trasparenza e partecipazione.
Rispondere a questi due quesiti non risolve tutti i problemi, ma ci farebbe fare qualche passo in avanti, di cui peraltro abbiamo a questo punto disperato bisogno.
Ieri a Roma eravamo tantissimi, eravamo un embrione di movimento. Forse le scelte e le decisioni di qualcuno l’hanno ucciso. Forse no. Comunque, dipende soltanto da noi e non da qualche forza oscura o da qualche complotto.
di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 14 ottobre 2011
Zone rosse attorno ai palazzi, allarme violenza, qualche manganellata di troppo, come a Bologna, e alcuni arresti inquietanti, come a Brindisi. Insomma, neanche questa volta l’autorità costituita ha voluto deviare dall’ormai consueto e consunto rito. Prendiamone atto e passiamo oltre.
Ebbene sì, perché la giornata globale contro l’austerity del 15 ottobre, la sua riuscita, il suo significato e la sua incidenza, saranno valutati con ben altri parametri, qui e in Europa. Cioè, con la capacità o meno di segnare la presenza e la rilevanza di un altro punto di vista sulla crisi, alternativo a quello della Bce, del Fmi e della Bm, di Marchionne e di Draghi, degli hedge funds, dei banchieri, delle agenzie di rating eccetera.
In altre parole, il punto è se il 15 ottobre quelli e quelle che stanno fuori dal recinto, per usare la metafora bertinottiana, cioè noi, nella nostra pluralità e nelle nostre diversità, riusciremo ad andare oltre all’esplicitazione dell’indignazione, per evocare ed innescare la nostra costituzione in forza, movimento e discorso, capace di incidere sull’agenda sociale e politica e di produrre cambiamento percettibile.
E attenzione, non è un problema marginale e tanto meno astratto o politicista. Anzi, è questione centrale, urgente e concreta. È centrale perché è illusorio pensare che per il solo fatto che la crisi sia di sistema e non congiunturale, essa porti dunque spontaneamente all’emersione di un’alternativa di sistema. Non è affatto così e la realtà di tutti i giorni si incarica di ricordarcelo: in assenza di alternative politiche dotate di forza sociale autonoma, prevale la risposta alla crisi di coloro i quali la crisi l’avevano provocata.
E la loro ricetta è micidiale, perché radicalizza ed estremizza il sistema in crisi, ridisegnando un’epoca e evocando un Ottocento in salsa global e multimedia. Dunque, niente più compromessi sociali, welfare, contratti nazionali, diritti dei lavoratori e partecipazione democratica. E quello che è peggio, nel vuoto la loro risposta conquista adepti a 360 gradi: Enrico Letta plaude alla lettera della Bce, Veltroni invoca governi tecnici per fare quello che pensa Draghi, Renzi parla come Brunetta, insulta i dipendenti comunali ed acclama Marchionne, la Cgil segue Bonanni sulla via del 28 giugno e così via.
Ma definire un orizzonte politico alternativo è anche un’urgenza, perché il dopo incombe. Non solo c’è la crisi e le politiche anticrisi che picchiano sempre più duro, ma c’è anche la fine del ciclo politico berlusconiano. Non importa sapere se finirà domani, tra un mese o tra un anno, importa sapere che sta finendo e che già oggi tutte le forze e gli attori in campo si scontrano, si muovono e si posizionano in funzione del dopo.
Difficile, davvero, sostenere che tutto questo non riguardi il 15 ottobre e i suoi protagonisti. Sarebbe come dichiararsi indifferenti rispetto alla possibilità di trovarci dopo Berlusconi con un governo della Bce o con un centrosinistra che fa la fine del Pasok greco.
Infine, si tratta anche di un problema concreto, anzi concretissimo. La crisi devasta le esistenze e le aspettative delle persone in carne ed ossa. Che sia una giovane precaria che non sa se il mese prossimo avrà ancora una fonte di reddito oppure uno di quei tantissimi operai della Jabil di Cassina de’Pecchi, della Fincantieri di Sestri-Ponente o dell’Irisbus di Valle Uftia che rischiano il posto di lavoro a causa della crisi, di un certo banditismo imprenditoriale e dell’immobilismo istituzionale, a tutte queste persone non si può rispondere “no so” quando ti chiedono cosa proponi per risolvere il loro problema.
Insomma, piaccia o non piaccia, sabato dobbiamo fare i conti con questa dimensione e questo significa che abbiamo, tutti e tutte, un certa responsabilità. Il 15 ottobre si preannuncia partecipato, ma se sarà soltanto una parentesi, una giornata magari un po’ più rumorosa delle altre, allora avremo sprecato un’occasione. Se, invece, accettiamo la sfida e ne uscirà il messaggio che in Italia un altro punto di vista c’è e che si avviano dei nuovi processi politici, allora il domani potrebbe anche riconsegnarci qualche sorriso.
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