Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 19 giugno 2010 e sui giornali online MilanoX e Paneacqua (ex Aprileonline)
 
Ma che cavolo ha l’articolo 41 della Costituzione che non va? Insomma, è rimasto lì per 60 anni, non lo toccavano nemmeno ai tempi di Scelba, quando la polizia sparava sugli operai in sciopero, e ora, all’improvviso, è diventato un insopportabile ostacolo alla libertà d’impresa, un freno alla libera concorrenza e un rimasuglio di quel socialismo reale che in Italia non c’è mai stato (a differenza di Scelba, delle stragi di Stato e del regime democristiano, beninteso).
L’articolo 41 va riscritto. L’hanno detto Berlusconi e Tremonti e l’ha confermato un “tecnico” d’eccellenza, come il presidente dell’antitrust. I capi di Confindustria, da papà e mamma fino ai figli, si sono messi a sbraitare come ossessi: ci vuole la “deforestazione normativa”.
E allora, siccome la memoria potrebbe anche ingannarmi, sono andato a rileggermi l’articolo dello scandalo. Chissà, magari mi era sfuggito qualcosa in tutti questi anni.
Inizio a leggere. Il primo capoverso recita così: “L'iniziativa economica privata è libera.” Non mi pare roba da Carlo Marx, anzi, potrebbe averlo scritto Adam Smith in persona.
Passo quindi al secondo capoverso: “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” E questo mi pare persino ovvio. Mica può essere considerato lecito ridurre un cittadino in schiavitù o mutilarlo pur di ricavarne un guadagno. Insomma, ci vuole pure un confine tra l’imprenditoria e il crimine organizzato.
E poi, a pensarci bene, cose del genere si sentono dire e ridire anche da banchieri, imprenditori e manager, almeno nei convegni e nei seminari dedicati alla responsabilità sociale dell’impresa, o Corporate Social Responsibility, se preferite.
Mi leggo allora il terzo e ultimo capoverso: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” Nulla di strano neanche qui, mi pare. In fondo dice soltanto che le cose affermate al punto secondo non sono semplici auspici, bensì prescrizioni obbligatorie da tradurre in pratica con apposite leggi. Certo, questo rappresenta sicuramente una differenza con la storia della responsabilità sociale dell’impresa, che è un atto soggettivo e volontario, ma dall’altra parte è anche vero che lo stato di diritto è cosa diversa da un convegno di Bill Gates.
A questo punto, però, continuo a non capire dove stanno tutti questi impedimenti alla libertà d’impresa che frenano la ripresa economica. E così, per cercare di capire meglio, mi armo delle sagge parole del mio prof di Istituzioni di Diritto Pubblico di tanti anni fa -“quando c’è contrasto tra realtà materiale e realtà normativa, allora la prima tende a prevalere sulla seconda”- e volgo lo sguardo verso Sud, a Pomigliano d’Arco per la precisione.
Lì c’è uno stabilimento Fiat, ex-Alfa, con oltre 5.000 dipendenti, ai quali andrebbero aggiunti quelli generati dall’indotto. A dire la verità, in quella fabbrica c’è stato ultimamente un tasso di assenteismo un po’ altino, visto che i lavoratori hanno passato più tempo in cassa integrazione che al lavoro.
Comunque sia, gli operai di Pomigliano sono fortunati, perché la Fiat gli offre l’opportunità di non fare la fine dei loro colleghi siciliani dello stabilimento di Termini Imerese, destinato alla chiusura per fine 2011. No, per loro c’è sul tavolo l’offerta di 700 milioni di euro di investimenti e la produzione della nuova Panda a partire dal 2012.
Come si fa a non esultare, a non ringraziare la Fiat per la sua generosità? Invece di spostare anche la produzione della nuova Panda all’estero, dove ormai viene prodotta la grande maggioranza delle automobili Fiat, alla faccia del tanto decantato Made in Italy e, soprattutto, del mare di miliardi girati dalle tasche del contribuente italiano a quelle della multinazionale, il signor Marchionne ha deciso di fare un patriottico sacrificio.
Tuttavia, c’è una condizione. I sacrifici devono farli anche gli operai. Insomma, c’è la crisi e la competizione internazionale e quindi bisogna rinunciare a qualche piccolo privilegio italiano, per avvicinarsi maggiormente alle situazioni di avanguardia in termini di condizioni di lavoro, tipo la Polonia. Quindi, riduzione delle pause da 40 a 30 minuti giornalieri, aumento degli straordinari comandati da 40 a 120 ore a testa per anno, da fare anche durante la pausa mensa – peraltro spostata a fine turno-, deroga all’obbligo di riposo di almeno 11 ore tra un turno e l’altro, possibilità per l’azienda di non pagare la malattia al singolo lavoratore se l’assenteismo medio in fabbrica supera una certa soglia eccetera eccetera.
Ovviamente, questo accordo deve essere roba seria e, quindi, entrerà a far parte del contratto di lavoro individuale di ogni lavoratore. In altre parole, se a un operaio dovesse saltare in mente di partecipare a uno sciopero degli straordinari, per esempio, questo rappresenterebbe una violazione del contratto di lavoro, punibile con le sanzioni disciplinari, fino al licenziamento.
Gli estremisti-ideologici-irresponsabili-conservatori della Fiom hanno presentato delle proposte alternative, in grado di garantire l’obiettivo produttivo della Fiat di 280mila vetture all’anno, ma senza violare le regole del contratto nazionale, le leggi e il diritto di sciopero, peraltro costituzionalmente tutelato e pertanto indisponibile.
Ma Marchionne ha detto niet e ha ribadito: mangiare la minestra o saltare la finestra, accettare il diktat o finire disoccupati, portare la Polonia a Pomigliano oppure portare il lavoro in Polonia.
I sindacalisti responsabili di Fim, Uilm e Fismic hanno responsabilmente detto di sì, ma questo a Marchionne non basta. Ci vuole anche il plauso degli operai e quindi va fatto il referendum, cioè quella cosa che venne negata ai lavoratori ai tempi del contratto separato dei metalmeccanici. Comunque, la Fiat ci tiene alla democrazia e quindi i suoi rappresentanti hanno già iniziato a contattare i singoli dipendenti, per informarsi se hanno intenzione di andare democraticamente al voto, per esprimere liberamente il loro alla generosità della Fiat.
Insomma, Marchionne non chiede un accordo sindacale che garantisca gli obiettivi produttivi, ma chiede molto di più. Chiede agli operai di nobilitare un volgare ricatto, di chinare la testa, di arrendersi. Non lo fa per cattiveria o ottusità, beninteso, perché Marchionne non è né un pazzo, né un estremista, ma lo fa perché la vicenda di Pomigliano è una vicenda che va oltre Pomigliano.
Dall’altra parte, che la produzione della Panda venga avviata effettivamente nel 2012 e nella dimensione annunciata è ancora tutto da vedere. A differenza degli impegni chiesti ai lavoratori, infatti, quelli assunti dalla Fiat sono corredati da diversi se e ma.
No, il punto è un altro. Pomigliano deve fare scuola, deve sfondare gli argini. Dopo Pomigliano arriveranno gli altri stabilimenti Fiat e non Fiat. E deroga dopo deroga toccherà all’istituto del contratto nazionale e alla legislazione, Statuto dei Lavoratori compreso.
Vi ricordate della Thatcher e della sua guerra contro i minatori? Ebbene, è la stessa cosa. Non si aggredisce più l’anello debole della catena, ma si tenta lo sfondamento centrale. Insomma, si cerca di spezzare le reni ai metalmeccanici e alle loro organizzazioni ancora indipendenti, per avere campo libero dappertutto.
Si combatte a Pomigliano, ma la posta in gioca è nazionale e generale. Ecco perché in partita entra anche l’articolo 41 della Costituzione. Non perché impedisca la semplificazione burocratica o la velocizzazione delle pratiche per aprire una nuova impresa –ma quando mai!-, ma perché è necessario riscrivere il codice genetico della nazione, stabilendo anche simbolicamente che la libertà d’impresa, cioè la libertà dell’imprenditore, è un valore assoluto, mentre la libertà del lavoratore e della lavoratrice è soltanto una sua variabile dipendente.
E, last but not least, ecco perché oggi è giusto e necessario stare apertamente dalla parte di quelli come la Fiom. Perché i silenzi, le ambiguità e i balbettii equivalgono alla complicità.
 
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La condanna in appello a un anno e quattro mesi di reclusione di Gianni De Gennaro, capo della polizia ai tempi del G8 di Genova, e a un anno e due mesi di Spartaco Mortola, nel 2001 capo della Digos genovese, è un buona notizia, perché infrange finalmente il tabù dell’intoccabilità del potente ex-capo della polizia.
Se il Governo vuole mantenere un minimo dignità e rispetto per lo stato di diritto, allora deve sospendere immediatamente De Gennaro e Mortola dai loro rispettivi e delicati incarichi, cioè capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) e vicequestore di Torino.
Certo, De Gennaro è stato condannato per i suoi tentativi di insabbiamento della verità sul massacro alla scuola Diaz, nello specifico per l’istigazione alla falsa testimonianza nei confronti dell’allora questore di Genova, Francesco Colucci, e non per il suo ruolo di massimo responsabile della repressione, delle violenze e degli abusi consumatisi nei giorni del G8 del 2001.
Quel suo ruolo, infatti, non sarà mai oggetto di processi finché De Gennaro continuerà a godere delle forti e trasversali protezioni politiche ed istituzionali, che avevano portato all’affossamento della commissione d’inchiesta parlamentare durante il Governo Prodi e che oggi fanno sì che tutti i colpevoli degli abusi del 2001 siano difesi a spada tratta dal Governo Berlusconi.
Tuttavia, è stato infranto un tabù e comunque vada a finire in Cassazione, oggi la verità ha avuto una possibilità. Sta a noi mantenere viva la memoria e non smettere di batterci per rompere il muro di silenzio istituzionale che continua a proteggere i colpevoli della sospensione della democrazia in quel luglio genovese.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo originale ed integrale dell’accordo separato sullo stabilimento di Pomigliano d’Arco (NA), sottoscritto dalla Fiat con Fim, Uilm, Fiscmic nella giornata di martedì 15 giugno (peso: 2,5 Mb)
 

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Fa davvero impressione l’ottusità di uomini come il vicesindaco De Corato, che proprio non ce la fanno a trovare modi diversi dagli sgomberi, dalle minacce e dai divieti per rapportarsi a quelle parti della città che non sono come loro vorrebbero.
La parole del vicesindaco De Corato o del Presidente del Consiglio di Zona 6, Girtanner, anche lui di provenienza An, espresse in merito allo sgombero di Lab Zero, in Ripa di Porta Ticinese 83, sono semplicemente penose nella loro pochezza.
Secondo Girtanner, un vero signore, gli occupanti, in gran parte studenti, “erano paragonabili ai loro cani”, mentre De Corato si diletta nel suo sport preferito, cioè facendo la lista dei luoghi a lui politicamente sgraditi e dunque da eliminare militarmente in vista della campagna elettorale.
Quanto allo svolgimento dello sgombero di Lab Zero di questa mattina, c’è da evidenziare soltanto la teatralità politica dell’azione delle forze dell’ordine, intervenute con palese sproporzione di uomini e mezzi e con l’aggiunta di qualche inutile distruzione di cose all’interno dello stabile.
Insomma, siccome la premessa era che lì dentro c’erano dei soggetti pericolosi, allora bisognava pure giustificarla, mobilitando mezzo esercito. E visto che poi tutto si è svolto senza incidenti, essendo evidentemente i soggetti pericolosi un po’ meno pericolosi di quanto gridato ai quatto venti, allora a De Corato non è rimasto altro che la miseria di riesumare per l’ennesima volta la storia familiare di Valerio Ferrandi, che non c’entra nulla, ma che in cambio fa audience.
Detto diversamente, un’altra giornata da dimenticare nella grigia Milano del centrodestra, che oggi ha perso un altro spazio sociale.
Da parte nostra, continuiamo a batterci perché a Milano possano esistere e crescere gli spazi sociali, perché riteniamo che essi siano un sano antidoto contro la desertificazione culturale e sociale che tanto piace al Sindaco e al suo vice.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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Oggi pomeriggio il Comitato Centrale -il massimo organo decisionale- della Fiom ha detto di no al ricatto della Fiat sullo stabilimento di Pomigliano, rifiutandosi dunque di cedere all’ignobile campagna di linciaggio in atto.
La Fiom, quindi, non firma il documento della Fiat e dice no ad un eventuale referendum, poiché il diritti costituzionali dei lavoratori e delle lavoratrici non possono essere aggirati o eliminati con una consultazione aziendale con la pistola puntata (e poi, quelli che oggi parlano di referendum sono gli stessi che l’avevano negato agli operai in occasione del contratto nazionale separato dei metalmeccanici) .
È significativo che la posizione della Fiom di oggi sia stata presa all’unanimità. Cioè, ha votato a favore dei documenti conclusivi –che puoi scaricare cliccando sull’icona in fondo all’articolo- anche la minoranza dei metalmeccanici, che fa riferimento alla maggioranza della Cgil di Epifani. Rimangono così delusi i furbetti che hanno puntato a giocare in casa Fiom.
Inoltre, la Fiom ha proclamato 8 ore di sciopero dei metalmeccanici per il 25 giugno.
Tutto questo non significa ovviamente che la Fiom considera chiusa la vicenda. Anzi, il documento votato, così come avevano già fatto le posizioni espresse nei giorni precedenti, si dice disponibile a trattare sugli obiettivi produttivi della Fiat. Ma, appunto, si dichiara indisponibile all’operazione di deroga al contratto nazionale e ai diritti dei lavoratori, fissati dalla legge e dalla Costituzione, che nulla c’entra con la produzione della Panda, ma che c’entra invece molto con la voglia matta della Fiat (e di Confindustria e del Governo) di riscrivere le relazioni industriali in pieno stile anni ’50, non solo nel gruppo Fiat, ma sul piano nazionale.
Come avevamo già scritto su questo blog, noi stiamo dalla parte della Fiom e lo ribadiamo ancora una volta oggi.
 
Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare i due documenti (su Pomigliano e sullo sciopero di 8 ore il 25 giugno) votati oggi all’unanimità dal Comitato Centrale della Fiom:
 

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Iniziano le azioni di sciopero contro la manovra economica del governo, con lo sciopero generale del Pubblico Impiego per l’intera giornata di lunedì 14 giugno, proclamato dal sindacato di base Usb. In diverse città si terranno manifestazioni. A Milano l’appuntamento è alle ore 9.30 in Largo Cairoli.
Nel comparto scuola, lo sciopero proclamato dai Cobas è articolato, invece, regione per regione. Sette regioni hanno già scioperato settimana scorsa, con un’adesione al blocco degli scrutini superiore alle aspettative, mentre le altre regioni sciopereranno il 14 e il 15 giugno.
La Cgil ha convocato uno sciopero generale per venerdì 25 giugno (4 ore nel settore privato, intera giornata in quello pubblico). Nello stesso giorno aveva già proclamato lo sciopero anche la Cub.
Cisl, Uil, Ugl e autonomi, da parte loro, continuano nella loro linea filo-governativa e allo stato non hanno promosso alcuna azione di mobilitazione.
Insomma, una parte delle organizzazioni sindacali pratica ormai esplicitamente il suo ruolo collaterale al governo e al padronato, mentre dall’altra parte continuano a prodursi troppe divisioni sulle azioni di lotta. Alcune voci si stanno levando dal basso, al fine di cercare più unità. Tra queste vi segnalo l’iniziativa dei lavoratori di alcune aziende in crisi del milanese, il cui appello puoi leggere (e far girare e sottoscrivere) sul sito degli operai in lotta della Maflow.
Detto questo, comunque, domani si sciopera. Ed è uno sciopero sacrosanto contro una manovra economica, corredata da una miriade di altre misure annesse, dagli interventi sull’età pensionabile fino alle annunciate modifiche costituzionali in materia di impresa, passando per la prosecuzione dei tagli della “riforma Gelmini” nella scuola, che scaricano l’intero peso della crisi sui soli lavoratori, colpendo in particolare, ma non soltanto, i lavoratori pubblici e le Regioni e gli enti locali (e dunque i cittadini, che si vedono tagliati i servizi da questi erogati).
Ma per tornare allo sciopero del pubblico impiego del 14 giugno, ecco alcune misure della manovra che riguardano i lavoratori pubblici:
  • blocco dei rinnovi contrattuali 2010-2012;
  • blocco delle retribuzioni (sia quella base, che quella integrativa) per 4 anni, fino al 2013, cioè una riduzione dello stipendio reale;
  • riduzione del 50% delle spese per la formazione del personale;
  • riduzione del 50% delle spese per le missioni;
  • proroga di altri 2 anni del blocco delle assunzioni (e dunque una quasi impossibilità di regolarizzare i numerosi precari che lavorano nel pubblico);
  • riduzione delle “finestre” d’uscita per la pensione, con il conseguente slittamento di un anno;
  • innalzamento dell’età per la pensione di vecchiaia per le dipendenti pubbliche da 60 a 65 anni;
  • a questo si aggiungono gli effetti della riforma del Tfr, che con l’equiparazione del regime delle liquidazioni nel pubblico impiego a quello vigente nel settore privato, si traduce, a partire dal 1° gennaio 2011, in una riduzione di quanto finora percepito dai lavoratori pubblici;
  • previsione di ridurre di 400mila unità i posti di lavoro nel pubblico impiego, mediante la non sostituzione del turn-over, che provocherà, secondo le stime, una riduzione del personale di 156mila lavoratori nella Sanità e di 60mila negli Enti Locali.
 
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In questi giorni e in queste ore Confindustria e Governo sono protagonisti di un’ignobile campagna di linciaggio mediatico contro la Fiom, additata come irresponsabile ed ideologica perché non ha accettato di sottoscrivere il testo della Fiat sullo stabilimento di Pomigliano.
Marcegaglia e Sacconi replicano pari pari il merito e i toni del ricatto della Fiat, che dice o accettate le nostre condizioni oppure chiudiamo anche Pomigliano, per portare anche quella produzione e quel lavoro in Polonia.
È inaccettabile il ricatto ed è inaccettabile il mare di bugie che lo accompagna, perché non è vero che la Fiom e gli operai non sono disponibili a trattare per aumentare la capacità produttiva e la produttività dello stabilimento napoletano. È vero, invece, che la Fiat intende imporre un contratto aziendale, il quale, derogando ai principi del contratto nazionale e del diritto di sciopero, si propone come leva per far saltare il contratto nazionale stesso.
La gravità della posizione politica del governo sta in questo, nello schierarsi supinamente con gli interessi dei capi della Fiat e di Confindustria e nell’assumere le organizzazioni sindacali che fanno il loro mestiere come nemici politici da schiacciare. Una fedele riproduzione, insomma, della logica della manovra economica, dove gli unici a pagare il conto dovrebbero essere i lavoratori.
Irresponsabili ed ideologici sono quanti in questo momento lavorano per isolare la Fiom e gli operai della Fiat di Pomigliano, sia attraverso le loro parole, che con il loro silenzio.
Come lavoratore dipendente (iscritto al sindacato Usb) e cittadino, prima ancora che come attivista politico, prendo dunque parola e mi schiero da parte degli operai e della Fiom, perché la ripresa produttiva a Pomigliano avvenga in condizioni decenti e giuste per i lavoratori.
 
per saperne di più leggi il comunicato stampa della Fiom di ieri, che spiega le posizioni del sindacato.
 
E per conoscere direttamente quali siano le “proposte” dell’azienda –tra virgolette, perché la Fiat non intende finora discutere nemmeno una virgola- cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo integrale ed originale portato al tavolo di trattativa da parte della Fiat:
 

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Quanto avvenuto stamattina è di una gravità inaudita, poiché, mediante l’uso della forza pubblica, è stato ristabilito il regime di illegalità, costruito e persino rivendicato dalla proprietà di Mangiarotti Nuclear Spa.
Sono passati tre mesi dalla sentenza del Tribunale di Milano che imponeva a Mangiarotti Nuclear di riportare nello stabilimento di viale Sarca le produzioni da lì spostate in maniera illegittima e in piena violazione degli accordi sottoscritti dallo stesso management. E non solo non è stata rispettata la decisione del giudice, ma due giorni fa la direzione ha persino fatto asportare di notte dalla fabbrica gli ultimi due pezzi di quella commessa rimasti a Milano, in piena e palese violazione dell’ordine del giudice.
Eppure, tutte queste illegalità e provocazioni non hanno suscitato alcune reazione da parte delle istituzioni, né di quelle politiche, né di quelle preposte all’applicazione della legge.
Tutt’altro discorso vale, invece, per gli operai. Dopo appena due giorni di pacifica occupazione degli uffici della direzione della Mangiarotti, in segno di protesta contro le illegalità della proprietà, e dopo qualche ora soltanto dalla fine infruttuosa degli incontri con proprietà e sindacati in Prefettura, terminati verso le 21.00 di ieri sera, la Questura ha mandato la Celere e sgomberato gli operai che occupavano come se fossero dei delinquenti.
Se stamattina, poco dopo le ore 6.00, nessuno si è fatto male, questo è merito esclusivamente del senso di responsabilità dei lavoratori della Mangiarotti, presenti al presidio davanti alla sede occupata in una cinquantina.
Due pesi e due misure. Una tolleranza totale nei confronti delle illegalità del padrone, un accondiscendere continuo rispetto all’arroganza di uno dei proprietari, Tarcisio Testa, che nei suoi comportamenti ricorda sempre di più il tristemente famoso Genta dell’Innse, ma una totale inflessibilità nei confronti degli operai e una completa disattenzione rispetto alla legge e alle ordinanze della magistratura. È come se l’articolo 41 della Costituzione, che così poco piace al Presidente del Consiglio, fosse già stato abolito!
Infine, una domanda. Considerato che la Mangiarotti non produce noccioline, ma componenti per centrali nucleari, siamo proprio sicuri che questa proprietà, che vuole chiudere dove c’è competenza e professionalità e che mostra spregio rispetto alle regole, sia in grado di garantire le condizioni di sicurezza e l’affidabilità necessarie a produzioni così delicate?
Insomma, qualcuno tra Prefettura, Provincia, Comune, Regione o Governo vuole intervenire o no, per garantire la difesa dell’occupazione e il rispetto della legge, nonché del buon senso e di un minimo di decenza?
 
Guarda su You Tube
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 10/06/2010, in Lavoro, linkato 1323 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale AprileOnline.info il 10 giugno 2010
 
In fondo a viale Sarca, alla periferia nord-est di Milano, proprio sul confine con Sesto San Giovanni, la fu "Stalingrado d'Italia", si trova la Mangiarotti Nuclear. I suoi operai, un centinaio, sono in lotta dall'anno scorso per impedire la chiusura dello stabilimento e la perdita del posto di lavoro.
Ieri hanno dovuto affrontare l'ennesima provocazione del management che, come i ladri di pollo, aveva approfittato della notte per portare fuori dalla fabbrica due manufatti, nonostante questo contravvenisse alla sentenza del Tribunale di Milano. Gli operai hanno reagito e sono andati ad occupare gli uffici della direzione nella vicina via Pirelli, dove hanno passato la notte.
Ma quello che è successo in questi giorni non è che l'epilogo provvisorio di una storia che si trascina da tempo e dove l'elemento dominante non è tanto l'arroganza padronale, ma piuttosto il menefreghismo delle istituzioni territoriali -Comune di Milano, Provincia e Regione- che la rende possibile.
Lo stabilimento, che produce componenti per centrali nucleari, aveva attraversato tutte le fasi della deindustrializzazione del territorio milanese. Una volta era della Breda, poi si trasformò in Ansaldo Energia e, poi ancora, nel 2001, fu ceduto al gruppo bresciano Camozzi, l'attuale proprietario dell'Innse. Quest'ultimo, due anni fa, vendette la fabbrica, ma non il terreno, alla Mangiarotti Nuclear Spa, con sede nel Friuli.
A questo punto, però, i guai per gli operai di viale Sarca iniziarono a farsi seri, poiché apparve subito chiaro che la nuova proprietà non era interessata a mantenere in vita lo stabilimento milanese. Beninteso, non perché mancasse il lavoro, visto il tipo di produzione e la presenza di una commessa internazionale nuova di zecca della Westinghouse, per la produzione di componenti per una centrale in Cina, ma perché intendeva spostare la produzione in un nuovo impianto friulano.
E così, dopo aver firmato il 30 aprile 2009 un accordo sindacale, in cui si impegnava "al mantenimento dello stabilimento produttivo di Milano", confermando "la fabbricazione di componenti nucleari, attualmente acquisiti", la proprietà fece invece l'esatto contrario.
Cioè, nell'autunno spostò tutto il lavoro della commessa in Friuli e chiese l'estensione della cassa integrazione alla totalità dei lavoratori addetti alla produzione. In altre parole, chiese il via libera per la dismissione dell'attività produttiva.
Nonostante fossero manifesti la violazione degli accordi sindacali, l'illegittimità della richiesta di Cigs e il carattere pretestuoso dello spostamento della produzione, Regione Lombardia diede "parere non ostativo" alla richiesta aziendale, come comunicò formalmente il 12 gennaio scorso in Consiglio, in risposta alla nostra interrogazione, l'assessore regionale al lavoro.
L'azienda aveva motivato lo spostamento della produzione con gli eccessivi costi di trasporto da Milano, ma è un ragionamento che non sta in piedi. Infatti, a pochi chilometri da viale Sarca si trova lo stabilimento dell'Innse, che ha ripreso alla grande la produzione. E che cosa produce? Componenti per centrali nucleari e i costi di trasporto non sembrano proprio essere un problema.
No, la vera ragione sta da un'altra parte. In Friuli c'è uno stabilimento nuovo e la proprietà punta sul fatto che gli operai, privi di una tradizione sindacale paragonabile a quella degli operai di viale Sarca, siano più docili e più a buon mercato. E poi, c'è la vicenda dei terreni, che si trovano in una zona ormai post-industriale e dove oggi abbondano gli affari immobiliari. C'è chi dice che c'entra, c'è chi giura il contrario, ma sta di fatto che Camozzi, il proprietario dei terreni, non ha mai pronunciato una parola chiara in merito.
Comunque sia, anche se il governo regionale lombardo aveva chiuso occhi ed orecchie di fronte agli inganni della Mangiarotti, il giudice del lavoro di Milano, su ricorso della Fiom, ha rimesso le cose a posto, almeno da un punto di vista giuridico. Nel marzo scorso ha revocato la collocazione in cassaintegrazione degli operai, perché illegittima, e ha ordinato all'azienda di riportare la commessa nello stabilimento milanese.
Ma poi, appunto, grazie al sonno delle istituzioni, la proprietà è passata alle vie dei fatti. E, invece di riportare la commessa in azienda, la proprietà ha asportato anche gli ultimi due pezzi di quella commessa rimasti a Milano.
 
P.S. Mentre scriviamo, gli uffici direzionali sono tuttora occupati e Tarcisio Testa, uno dei proprietari della Mangiarotti, ha ribadito al Prefetto di Milano che di rispettare le decisioni del Tribunale di Milano non se ne parla neanche e che la produzione va spostata in Friuli. Punto e a capo.
 
Pubblicato alle ore 17:25 del 10 giugno 2010 su www.aprileonline.info
 
N.B. ora sono le ore 23.30, l’occupazione degli uffici della direzione continua. La delegazione dei lavoratori e della Fiom era uscita dalla Prefettura verso le 21.00. Niente da fare, la proprietà non cambia posizione, si mostra molto arrogante e il fatto che stia violando le sentenze del tribunale non sembra scandalizzare le istituzioni… Conclusione: l’occupazione va avanti. Forse domani all’alba arriva la polizia per sgomberare o forse domani il Prefetto farà un altro tentativo. Vedremo. Comunque sia, i lavoratori vanno avanti con la lotta, che sarà ancora lunga, e hanno bisogno di solidarietà, domani e nei giorni a venire.
 
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Gli operai della Mangiarotti Nuclear, in seguito alla provocazione padronale, hanno prima presidiato la sede della direzione aziendale a Milano, in via Piero e Alberto Pirelli n. 6, e poi anche occupato gli uffici.
La proprietà, che si trova in Friuli, ha chiesto immediatamente l’intervento delle forze dell’ordine per liberare con la forza gli uffici, ma il Questore non gli ha dato per ora retta, anche perché il Prefetto di Milano, dopo aver anche sentito nel tardo pomeriggio i dirigenti milanesi della Fiom, ha deciso di convocare per domani mattina, alle 11.00, presso la Prefettura, le parti, compreso il proprietario che dovrà muoversi da Udine.
Allo stato, dunque, gli uffici della direzione in via P.e A. Pirelli sono occupati da un gruppo di operai e davanti alla sede del palazzo è in corso un presidio. E questa situazione non cambierà fino a quando non si saprà l’esito dell’incontro di domani mattina in Prefettura. Dopo, gli operai decideranno.
 
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