Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 31/10/2012, in Regione, linkato 1026 volte)
17 anni di potere sono troppi per chiunque. Si finisce inevitabilmente per confondere le cose, il mio e il tuo, il privato e il pubblico, e per sentirsi un po’ il Re Sole della situazione. È capitato anche a Roberto Formigoni e, quel che è peggio, continua a capitargli. Già, perché voi mica crederete che la fine del suo ventennio e le inchieste per corruzione e persino per ‘ndrangheta che hanno decimato il suo entourage -e che vedono lui stesso indagato- abbiano cambiato qualcosa? Ma figuriamoci, anzi, come prima e più di prima.
E così, in questi giorni i lavoratori e le lavoratrici di Regione Lombardia, quasi tremila in tutto, sono stati convocati in quattro gruppi in una delle sale conferenze più capienti del nuovo Palazzo Lombardia, ufficialmente per “fornire una tempestiva e chiara comunicazione sull'evoluzione del quadro istituzionale ed amministrativo regionale”. In realtà, al di là di banalità ed ovvietà, tipo la Regione non chiude e si continua a lavorare, il senso era ascoltare un Roberto Formigoni su di giri, comiziante e autoincensatorio.
Non è la prima volta che Formigoni tratta gli impiegati e funzionari regionali come se fossero dipendenti personali suoi, con l’aggiunta di quel peloso e paternalistico “noi” che comprende non solo il plurale maiestatis, ma anche chi gli sta di fronte. Vi ricordate delle scene fantozziane, quando a luglio il Segretario Generale della Regione, Sanese, convocava gruppi di dipendenti a un caffè per Formigoni? Ebbene, ora siamo oltre, perché dal caffè del megadirettoregalattico siamo passati al catechismo, elargito direttamente dal celestiale presidente.
Certo, cerchiamo di riderci sopra, perché mai come nelle situazioni serie bisogna evitare di perdere il senso del humour, ma in realtà siamo di fronte a una fedele e triste fotografia di un potere che si sta sgretolando sotto il peso del suo marciume, ma che non ha perso un briciolo della sua protervia di fronte alla debolezza di avversari ed alleati.
Se un marziano appena sbarcato sulla terra fosse capitato in una di queste “conferenze”, non avrebbe capito perché in Lombardia si vada ad elezioni anticipate e dove stia il problema. Insomma, a giudicare dalle parole di Sanese e di Formigoni, in Regione Lombardia non è successo nulla di eclatante e si va ad elezioni ravvicinate perché “i consiglieri regionali si sono dimessi” e “la maggioranza è venuta meno”. Neanche mezza parola è stata dedicata a quisquilie come l’immoralità pubblica, la corruzione dilagante o le infiltrazioni della ‘ndrangheta fin dentro la Giunta regionale. Gli Zambetti, i Ponzoni eccetera, gli amici, gli assessori e gli ex assessori di Formigoni, tutti quanti spariti, anzi mai esistiti. E così, miracolosamente, rimane solo il “buon governo”, le “eccellenze” e “le mie buone idee”.
Orbene, nessuno è tanto ingenuo da pensare che Formigoni, improvvisamente folgorato sulla via di Damasco, si possa esibire in una pubblica autocritica. Ma da un politico, come lui, che si ritiene uno statista e l’incarnazione del buon governo, è il minimo pretendere che abbia qualcosa da dire sullo stato desolante della moralità, per usare un eufemismo, nella Regione da lui governata da 17 anni! E a maggior ragione questo vale quando si prende parola formalmente dentro l’istituzione e davanti al personale regionale.
Formigoni ha scelto l’arroganza del potere, la mistificazione e l’omissione. E, strizzando l’occhio alla campagna elettorale, ha voluto dare la linea al personale regionale. Ma gli autunni dei patriarchi sono implacabili e alla fine gli applausi che ha raccolto erano pochi e tiepidi, anzi, più ti allontanavi dalle prime fila, cioè dal tavolo della presidenza, più si facevano rari. Peraltro, anche i caffè pro Formigoni organizzati da Sanese qualche mese fa si erano risolti in un insuccesso di pubblico.
Insomma, possiamo chiudere con una nota di ottimismo. In tutti questi anni di strapotere formigoniano e ciellino, di occupazione di posti e gerarchie, gli impiegati, i tecnici e i funzionari regionali sono riusciti a preservare in grandissima parte non solo le significative professionalità presenti nell’ente, ma anche l’indipendenza di giudizio. Sarà anche per questo che, nonostante il malaffare e a volte anche le incompetenze ai piani alti, la macchina amministrativa è andata avanti lo stesso. In altre parole, se cercate delle eccellenze, non cercatele nelle chiacchiere di ciellini e leghisti, ma tra i lavoratori e le lavoratrici.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Anni e anni di malaffare da parte di Don Verzé, un fiume di denaro pubblico finito nel nulla e oltre un decennio di complicità ed assenza di controlli da parte della Regione governata da Formigoni e ora il conto vorrebbero farlo pagare ai lavoratori. Ieri, lo stesso giorno in cui Marchionne ha annunciato la rappresaglia di Pomigliano, la direzione dell’ospedale San Raffaele ha comunicato il licenziamento collettivo di 244 lavoratori e lavoratrici e la disdetta di tutti i contratti aziendali.
I lavoratori del San Raffaele denunciano da tempo che la nuova proprietà vuole licenziare (ne abbiamo già parlato sul blog), mentre in Regione Lombardia si faceva finta di non saperlo, e quindi hanno reagito immediatamente, promuovendo un presidio permanente. Si trova davanti all’ingresso dell’ospedale, in via Olgettina 60, a Milano. Lunedì ci sarà poi l’assemblea generale dei lavoratori, dove verranno decise anche altre mobilitazioni.
La RSU del San Raffaele ha lanciato un appello –che trovate riprodotto qui sotto-, chiedendo sostegno e solidarietà
Penso che non ci sia nulla da aggiungere, se non l’invito a raccogliere quell’appello, perché si tratta di posti di lavoro, di un minimo di giustizia e decenza e, infine, anche dei destini della sanità in Lombardia.
Per favore, fate circolare l’appello e, se potete, passate al presidio.
 
Luciano Muhlbauer
 
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APPELLO A LAVORATRICI E LAVORATORI, DELEGATI E DELEGATE DELLA SANITÀ E DI OGNI ALTRA REALTÀ LAVORATIVA, AGLI STUDENTI E ALLA CITTADINANZA
 
L’amministrazione del San Raffaele ha comunicato, nel pomeriggio del 31 ottobre, l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo per 244 lavoratori e lavoratrici del comparto. Ha disdetto, inoltre, tutti gli accordi aziendali economici e normativi, a partire dal 1973 e previsto il passaggio dal contratto nazionale della sanità pubblica a quello della sanità privata AIOP.
244 licenziamenti e per i restanti il peggioramento delle condizioni lavorative, il taglio dei salari, l’aumento dei carichi di lavoro e l’annullamento dei diritti conquistati in questi anni da migliaia di lavoratori.
A tutto ciò è necessario rispondere con una lotta dura e ad oltranza.
Dal 1° novembre siamo in presidio permanente sulla spianata, in via Olgettina 60, all’ingresso dell’Ospedale, per informare, raccoglierci e organizzarci.
L’attacco alla sanità è sotto gli occhi di tutti; le vertenze attualmente in atto in numerosi ospedali ne sono la prova.
Dopo la grande partecipazione allo sciopero del 24 ottobre è necessario proseguire nell’unione delle nostre lotte, per difendere i posti di lavoro, il salario i diritti, la qualità e l’assistenza per tutti e tutte.
Partecipate tutti per sostenere fattivamente la nostra lotta.
Venite, fateci sentire forti anche con la vostra presenza.
Apprezziamo chi ha già contribuito, anche portando cibo e bevande calde.
 
Rappresentanza Sindacale Unitaria
Ospedale San Raffaele
Milano via olgettina 60, via stamira d’ancona 20
 
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di lucmu (del 05/11/2012, in Scuola e formazione, linkato 1110 volte)
Nella Lombardia di Formigoni gli scandali non si contano nemmeno più e c’è persino il rischio dell’assuefazione, dimenticando così che buona parte di essi non sono altro che scandali annunciati. E di questa categoria fa parte senz’altro uno scandalo che in questi giorni rimbalza sulla stampa cremasca: quello della scuola di Cl di Crema.
Secondo quanto riportato dai media locali il cantiere per la costruzione di un nuovo polo scolastico privato, ad opera della Fondazione Charis, aderente alla Compagnia delle Opere, è fermo da oltre un anno. Il quotidiano La Provincia, che inizia a parlare di “cattedrale nel deserto”, individua come causa del blocco dei lavori l’improvviso, massiccio e inspiegabile aumento dei costi dell’opera. Già, perché all’inizio doveva costare 14 milioni di euro, ma adesso siamo arrivati a una previsione di 39 milioni…
Saranno gli organi competenti –auspichiamo- ad accertare cosa sta succedendo con i costi di questa opera, anche perché quel cantiere si è già mangiato un milione di euro del bilancio regionale. Anzi, senza la Regione, attraverso i buoni uffici dell’allora assessore all’Istruzione, il ciellino cremasco Rossoni, quel progetto non sarebbe mai partito.
E fu una partenza alquanto particolare, poiché il finanziamento regionale era stato approvato in tempi da record mondiale, dirottando, attraverso il meccanismo della “programmazione negoziata”, fondi altrimenti destinati alla messa in sicurezza delle scuole pubbliche. Infatti, non si trattava di una ristrutturazione, bensì di una nuova costruzione di un polo scolastico privato, di area ciellina, dove la Regione garantiva un finanziamento pubblico di 4,5 milioni di euro su un costo totale previsto di 14 milioni.
A suo tempo, in Consiglio regionale ce ne occupammo ripetutamente. Presentammo una prima interrogazione il 12 settembre 2008, alla quale l’allora Assessore Rossoni rispose in maniera talmente approssimativa e generica, che dovemmo formulare una seconda interrogazione, che però significativamente non avrebbe mai avuto riposta.
Ora i nodi vengono al pettine e persino la Regione ha dovuto bloccare l’erogazione degli altri 3,5 mln di euro. Ma per favore, ora nessuno faccia il finto tonto, perché in quella opera tutto era sbagliato e sospetto sin dall’inizio. E lo si sapeva pure, perché a suo tempo fu denunciato pubblicamente, sia da noi in Consiglio regionale, che da diversi consiglieri comunali dell’opposizione di Crema.
In altre parole, le responsabilità vanno cercate non soltanto in quello che è avvenuto negli ultimi due anni, ma anche –e forse soprattutto- in quello che avvenne nel 2008.
 
Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 12/11/2012, in Lavoro, linkato 1070 volte)
Il 14 novembre si sciopera e si manifesta in quasi tutta Europa contro le politiche dell’austerità e della troika. Certo, non è ancora lo sciopero europeo che ci vorrebbe, ma forse conviene vedere il passettino avanti, il bicchiere mezzo pieno. Già, perché è la prima volta da quando è esplosa la crisi che si realizzano degli scioperi generali contestuali in diversi paesi europei, cioè in Portogallo, Spagna, Grecia e Italia. In altri paesi del continente, invece, non si sciopera e ci saranno soltanto delle manifestazioni (sempre più tiepide man mano che si va verso nord).
La giornata del 14 novembre era nata dalla decisione della Ces (Confederazione europea dei sindacati) di promuovere una giornata europea di mobilitazione (vedi European Day of Action and Solidarity), ma poi è andata velocemente oltre, non solo a causa della proclamazione simultanea di scioperi da parte di alcuni sindacati aderenti, ma anche in conseguenza della convergenza di altri settori sociali e forze sindacali su quella giornata.
Ma arriviamo a noi, cioè alle mobilitazioni milanesi del 14, e cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sugli scioperi e sugli appuntamenti, visto che c’è un po’ di confusione in giro.
 
Anzitutto, per quanto riguarda gli scioperi, la situazione è la seguente:
- la Cgil, confermando la sua timidezza nei confronti del governo Monti, ha proclamato uno sciopero generale di sole 4 ore, salvo nella scuola, nel pubblico impiego e nel commercio, dove lo sciopero è invece per l’intera giornata, mentre il trasporto aereo e il trasporto pubblico locale sono esclusi dallo sciopero;
- la Confederazione Cobas, da parte sua, ha proclamato lo sciopero generale di tutte le categorie per l’intera giornata (per dettagli vedi sito Cobas), così come ha fatto l’Usi;
- inoltre, per quanto riguarda il solo comparto scuola, oltre alle proclamazioni di cui sopra, ci sono anche gli scioperi indetti, da Cub-Scuola e Unicobas-Scuola.
- sul piano milanese ci sono, poi, anche adesioni allo sciopero di altre sigle, specie in enti e aziende con vertenze aperte (Usb Regione Lombardia, tutti i sindacati del S. Raffaele, Usb Legnano ecc.).
Insomma, alla fine della fiera, la copertura per scioperare c’è in tutti in settori del pubblico e del privato (ahinoi, con le solite esclusioni di fatto, dovute al ricatto della precarietà o peggio).
 
Per quanto riguarda gli appuntamenti di piazza a Milano, la situazione è la seguente:
- alle ore 8.30, a Palestro, c’è il concentramento del corteo della Cgil, che terminerà poi in Duomo;
- alle ore 9.30, in L.go Cairoli, c’è l’appuntamento per la manifestazione degli studenti, che è stata promossa sia da Lab.Out-Casc-Rete Studenti, che dal Coordinamento dei Collettivi Studenteschi;
- a partire dalle ore 7.30, i lavoratori e la Rsu del San Raffaele in lotta contro i licenziamenti saranno in presidio davanti all’ospedale e verso le 8.30 circa si muoveranno in corteo in direzione p.le Loreto, dove a partire dalle ore 9.30 ci sarà il concentramento promosso dal Coordinamento lavoratori della sanità.
 
Se avete integrazioni, rettifiche o altre notizie sulla giornata del 14 a Milano o dintorni, per favore usate lo spazio commenti.
 
Ci vediamo in piazza.
Luciano Muhlbauer
 
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In Lombardia l’unica certezza è che Formigoni è finito, ma quanto al formigonismo, vabbè, è tutta un’altra storia. 17 anni sono infatti un tempo lunghissimo, che non solo annebbia la mente degli uomini, ma soprattutto sedimenta un sistema di potere pervasivo e un intreccio di interessi e complicità allargato, dove pubblico e privato, lecito ed illecito si confondono strutturalmente.
Forse a qualcuno questa premessa potrà sembrare superflua o persino banale, ma sono ancora troppi quelli chepensano, magari in virtù di un comprensibilissimo sospiro di sollievo trattenuto per troppi anni, che sia sufficiente togliere Formigoni per togliere anche il dolore. Ahinoi, però, le cose sono più complicate, da ogni punto di vista.
Primo, il fatto che il regno di Formigoni sia stato travolto dagli scandali, dal malaffare e persino dall’infiltrazione mafiosa, non significa affatto che le destre lombarde siano sconfitte. Anzi, gli interessi da salvaguardare sono molti e in Lombardia, che non va confusa con Milano, l’egemonia culturale delle destre non si è ancora spezzata. Ed è per questo che i capi di Pdl e Lega tenteranno di tutto per evitare di correre divisi.
Secondo, tutta la vicenda poco edificante delle primarie regionali, che prima c’erano, poi non c’erano più e, infine, sono tornate in versione civica, in fondo altro non è che la fotografia dello stato delle cose, cioè di un’opposizione, politica e sociale, che si è fatta cogliere impreparata di fronte all’appuntamento più annunciato dell’anno. Già, 17 anni sono un tempo lunghissimo anche per chi sta all’opposizione.
Terzo, se è vero com’è vero che Lega, Pdl e dintorni costituiscono la continuità con il formigonismo, non è assolutamente sufficiente battere le destre nelle urne perché si produca automaticamente una discontinuità. In altre parole, il punto non è semplicemente mandare a casa quanti hanno malgovernato la Regione, bensì rompere con il sistema che quel malgoverno l’ha generato, ripristinando dunque l’indipendenza dell’istituzione rispetto ai gruppi politico-affaristici e la preminenza dell’interesse pubblico su quello privato.
Quarto, le elezioni si vincono soltanto se ci sono i voti, cioè le persone in carne ed ossa che decidono di scegliere una proposta di cambiamento, piuttosto che optare per l’astensione o il vaffà generalizzato, considerato che il M5S non sembra porsi il problema di un governo regionale alternativo a quello delle destre. Lo so, questa la sapevate già, ma melius abundare visto che ultimamente girano delle storie fantastiche su come erano andate le cose nella primavera milanese e che alcuni pensano che per vincere in Lombardia sia sufficiente occuparsi del mitico centro, già dimentichi di anni di lamenti tipo “ma perché gli operai Fiom votano la Lega?”.
Insomma, oggi in Lombardia non è soltanto necessario, ma anche possibile voltare pagina ed impedire un revival delle destre, a patto però di fare sul serio, di costruire una coalizione plurale, che includa le aspirazioni e anche le incazzature di quanti e quante in questi anni hanno resistito, lottato e praticato alternative. E che metta al primo posto quello che per Formigoni e la Lega arrivava sempre dopo, cioè il lavoro, inteso come occupazione e come persone dotate di dignità e diritti, i beni comuni, la scuola pubblica, il diritto alla salute, lo stop al consumo di suolo, la mobilità alternativa all’automobile eccetera.
Tutto questo non c’è ancora, ovviamente, ma ci sono appunto le primarie lombarde, che si terranno il 15 dicembre e che servono non soltanto e tanto per scegliere un uomo o una donna, ma soprattutto per costruire in forma pubblica, trasparente e possibilmente partecipata il programma. E c’è anche un candidato presidente, Andrea Di Stefano, che rappresenta più che bene i contenuti che abbiamo ricordato.
Io ho deciso di sostenere Andrea Di Stefano e penso che la sua candidatura alle primarie sia un’opportunità per tutta la sinistra lombarda, non solo politica, ma anche sociale e di movimento.
 
Luciano Muhlbauer
 
(questo articolo è stato pubblicato anche sui siti MilanoX e Lavorincorsasinistra e sul quotidiano il Manifesto del 23 novembre)
 
Per un’altra Lombardia, sostieni la candidatura di Andrea Di Stefano alle primarie lombarde: www.perunaltralombardia.it
 
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di lucmu (del 23/11/2012, in Lavoro, linkato 1295 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line Paneacqua.info il 23 novembre 2012
 
L’hanno firmato in nome della ripresa e raccontano persino che così arriverà più salario ed occupazione, ma in realtà è soltanto un’altra tegola in testa ai lavoratori, una Pomigliano grande quanto l’Italia. Parliamo dell’accordo per la produttività, cioè delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, firmato il 21 novembre scorso, sotto la regia del Governo Monti, da Abi, Ania, Confindustria, Alleanza Cooperative, Rete imprese Italia e dai tre sindacati complici di Marchionne, Cisl, Uil e Ugl.
Infatti, sebbene nel testo il termine produttività ricorra con frequenza quasi ossessiva, il vero oggetto dell’accordo è lo smantellamento del contratto nazionale a favore di un contratto aziendale di nuovo tipo, la riduzione del salario ed un’ulteriore limitazione della sfera dei diritti, delle libertà e delle tutele.
In questo senso possiamo affermare senz’altro che questa intesa si colloca in piena continuità con il percorso aperto da Marchionne a Pomigliano nel 2010, con lo spirito e la lettera dell’articolo 8 della legge n. 148/2011 del Governo Berlusconi, che introdusse il principio della derogabilità dei contratti nazionale e delle leggi, e con riforma Fornero del mercato del lavoro. Anzi, non solo è in piena continuità, ma opera un salto di qualità. Comunque, andiamo con ordine.
 
Primo, il contratto nazionale non garantisce più nemmeno la tutela del potere d’acquisto dei salari e degli stipendi. Cioè, come ben sappiamo, ormai i contratti nazionali faticano persino a recuperare quanto eroso dall’aumento del costo della vita, poiché vengono utilizzati indicatori sistematicamente inferiori all’inflazione reale, ma con le Linee programmatiche si va oltre, stabilendo che una parte di questo recupero vada tolto dal contratto nazionale e delegato a quello aziendale, dove sarà legato alla produttività. Per dirla con le parole dell’accordo: “i contratti collettivi nazionali di lavoro possono definire che una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello”.
 
Secondo, con questo accordo vengono di fatto cestinati tutti i discorsi sulla riduzione della pressione fiscale sui salari e sugli stipendi, poiché la sola ipotesi di detassazione chiaramente definita –e condivisa dal Governo- è quella del salario di produttività derivante dai contratti aziendali stipulati ai sensi dell’accordo in questione: “Le Parti, pertanto, chiedono al Governo e al Parlamento di rendere stabili e certe le misure previste dalle disposizioni di legge per applicare, sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, la detassazione del salario di produttività attraverso la determinazione di un’imposta, sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali, al 10%”.
 
Terzo, al contratto aziendale dovrebbero essere delegate (“prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione”) anche alcune parti normative come “gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l'organizzazione del lavoro”.
 
Quarto, i firmatari sollecitano Governo e Parlamento di modificare il quadro legislativo al fine di affidare alla contrattazionematerie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro”. Cioè, l’”equivalenza delle mansioni” (leggi: demansionamento), i “sistemi di orari e della loro distribuzione anche con modelli flessibili” e le “modalità attraverso cui rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori” (tipo il controllo a distanza del lavoratore, ora vietato dallo Statuto dei Lavoratori).
 
Quinto, in tema di rappresentanza dei lavoratori, richiamandosi al pessimo Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, si rinvia ad intese specifiche da stipulare entro la fine dell’anno, ma colpisce fortemente che sin d’ora venga precisato che “le intese dovranno, altresì, prevedere disposizioni efficaci per garantire … l'effettività e l'esigibilità delle intese sottoscritte, il rispetto delle clausole di tregua sindacale, di prevenzione e risoluzione delle controversie collettive, le regole per prevenire i conflitti, non escludendo meccanismi sanzionatori in capo alle organizzazioni inadempienti”. Cioè, tutte quelle belle cose che Marchionne si era inventato da Pomigliano in poi per reprimere il conflitto e sanzionare i lavoratori e i sindacati che scioperano.
 
Potremmo, infine, aggiungere una serie di punti relativi agli “enti bilaterali di matrice contrattuale”, alle “forme di welfare contrattuale” o “alla cultura della collaborazione fra imprese e lavoratori”, ma non faremmo altro che riconfermarci quello che già sappiamo, cioè che il consociativismo non solo produce mostri per molti, ma anche prebende per alcuni.
 
In conclusione, bisogna avere davvero una faccia tosta per sostenere che un accordo del genere porti a un miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro. Ciò sarà possibile al massimo per una piccola minoranza di lavoratori, collocati in aziende medio-grandi, con produzioni che mantengono un mercato sicuro e che non possono essere delocalizzate con facilità. Per tutti gli altri, invece, di fronte alla crisi e al ricatto della disoccupazione, per non parlare di quel 70% di lavoratori, specie nelle aziende piccole o medie, che un contratto di secondo livello non l’ha mai visto, ci sarà soltanto la prospettiva di un ulteriore peggioramento e di maggiore precarietà. E senza nemmeno riuscire ad aumentare in maniera significativa l'occupazione, poiché se la questione è la competizione sul salario più basso, comunque vada, vincerà sempre la Serbia o la Cina.
L’accordo per la produttività, essendo un accordo quadro, deve ora essere applicato, a livello contrattuale e legislativo. Quindi, potrà e dovrà essere contrastato, sia a livello sindacale, che politico. E sarà questo, peraltro, il banco di prova per tutti e tutte, per capire se le critiche e prese di distanza di questi giorni sono cose da campagna elettorale oppure se si fa sul serio.
 
Luciano Muhlbauer
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo integrale delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”

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Stamattina all’alba due lavoratrici del San Raffaele di Milano sono salite sul tetto dell’ospedale in protesta contro i 244 licenziamenti e la disdetta di tutti gli accordi sindacali, annunciati dal nuovo proprietario privato, Rotelli. Inoltre, le lavoratrici denunciano il vero e proprio oscuramento mediatico che è calato sulla scandalosa vicenda del San Raffaele, dove ora i lavoratori dovrebbero pagare il prezzo del malaffare e delle ruberie di Don Verzé e degli amici di Formigoni.
Infatti, i lavoratori e le rappresentanze sindacali del San Raffaele sono in mobilitazione e presidio permanente da quasi un mese, cioè da quando la proprietà aveva annunciato i licenziamenti, ma ormai la loro giustissima lotta sembra quasi sparita dall’informazione.
Esprimo la mia totale solidarietà alla lotta dei lavoratori del San Raffaele e vi chiedo di fare altrettanto, anche soltanto facendo girare la notizia dell’occupazione del tetto oppure andando direttamente al presidio, che si trova all’ingresso dell’ospedale in via Olgettina 60.
 
Luciano Muhlbauer
 
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di seguito il testo di una mia dichiarazione alla stampa:
 
FORMIGONI MORALMENTE RESPONSABILE DELLA SITUAZIONE
 
“Solidarietà totale con le due lavoratrici del San Raffaele sul tetto.
Chi governa Regione Lombardia da 17 anni porta la responsabilità non solo morale della scandalosa situazione che oggi vivono i lavoratori del San Raffaele ed è pertanto inaccettabile che la Giunta regionale continui a lavarsene le mani.
Quanto accade oggi al San Raffaele c’entra molto poco con i pesanti tagli operati dal governo Monti, poiché è conseguenza diretta del prolungato malaffare di Don Verzé e dei suoi amici, che è stato finanziato per lunghi anni con denaro pubblico elargito dalla Giunta Formigoni.
Chiediamo quindi, anzi pretendiamo, che il Presidente Formigoni si assuma le sue responsabilità e che Regione Lombardia intervenga con urgenza e trasparenza, al fine di far revocare i 244 licenziamenti e la disdetta di tutti gli accordi sindacali, annunciati da Rotelli.”
 
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Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare una foto del tetto occupato, scattata stamattina presto da Claudio Furlan
 

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Nel tardo pomeriggio di ieri, in seguito a un diverbio sotto la metropolitana della stazione Centrale di Milano, alcuni giovani neofascisti hanno accoltellato Stefano, un attivista antifascista milanese. Stefano è ricoverato da ieri sera all’ospedale San Paolo e ora sta bene, anche perché la fortuna gli è stata vicina e nessun organo vitale è stato lesionato. Gli mandiamo un grande abbraccio.
Quanto avvenuto è gravissimo in sé e per quello che significa e, in questo senso, sarebbe miope e irresponsabile se ancora un volta si dovesse scegliere la strada della derubricazione a rissa, a futili motivi o a faccenda di balordi. Era già successo ai tempi dell’omicidio di Dax, ucciso da alcuni fascisti nel 2003, e si era poi ripetuto con Abba, ammazzato da due baristi al grido “negri di merda” nel 2008. E dire che “la politica non c’entra” può forse suonare terribilmente tranquillizzante, ma in fondo non è altro che chiudere gli occhi di fronte alla realtà e, soprattutto, assolvere chi per convenienza politica volge lo sguardo da un’altra parte o, peggio, è apertamente complice con i gruppi neofascisti o neonazisti.
A Milano abbiamo vissuto una lunga e squallida storia di complicità istituzionale ai massimi livelli, interrottasi soltanto nel 2011 con la vittoria elettorale di Giuliano Pisapia e con l’estromissione dall’amministrazione comunale delle destre. Ma il solo cambio di guardia a Palazzo Marino non può essere sufficiente, anche perché su Milano intervengono molti livelli istituzionali, tra i quali anche Regione Lombardia, che attraverso l’Aler Milano, per esempio, ha garantito ottime entrature persino a gruppi neonazisti come gli Hammerskin, che infatti hanno ottenuto l’assegnazione a una loro associazione di copertura, “Lealtà Azione”, di uno spazio nelle case popolari di viale Brianza 20, a Milano.
Certo, l’Italia non è la Grecia, dove sotto l’occhio benevole delle forze dell’ordine impazza la violenza dei neonazisti di Alba Dorata. E Milano non è neanche Roma, dove i gruppi di estrema destra sono storicamente più radicati e dove possono contare sulla collaborazione del Sindaco Alemanno. Ma Milano non si trova su un altro pianeta, bensì in questa concretissima Europa, scossa  dalla crisi e dalle politiche di austerità, dove i movimenti neofascisti e neonazisti si stanno aprendo nuovi e preoccupanti spazi. Abbassare la guardia, sottovalutare quello che sta accadendo o considerare il ritorno delle lame neofasciste, nove anni dopo l’omicidio di Dax, un semplice episodio senza significato, sarebbe un errore politico madornale per chiunque si ponga dalla parte della democrazia.
Mentre scriviamo non si sa ancora con certezza a che gruppo appartengano gli aggressori di Stefano, ma sappiamo che erano giovani e neofascisti e che di fronte a un principio di colluttazione non hanno esitato a tirare fuori il coltello e ad usarlo, senza curarsi più di tanto che potevano colpire anche organi vitali, mancati infatti per poco. In altre parole, c’è un serio problema di clima e Milano non può e non deve assolutamente tollerare un ritorno della violenza neofascista e neonazista.
L’invito è pertanto di non fare finta di niente, ma di prendere parola e posizione. E questo vale per tutti, per le istituzioni, per le forze organizzate della società civile e per i singoli cittadini e cittadine. Con un aggiunta particolare ed urgente, però, rivolta a Regione Lombardia e Aler Milano: va chiuso immediatamente il covo neonazista di viale Brianza!
 
Luciano Muhlbauer
 
P.S. oggi, lunedì 3 dicembre, alle ore 18.00, ci sarà un presidio antifascista in P.le Loreto, indetto dal movimento milanese.
 
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Il 5 (Lombardia, Marche e Toscana) e il 6 dicembre (le altre regioni) è di nuovo sciopero generale dei metalmeccanici, proclamato dalla Fiom. Uno sciopero sacrosanto, perché siamo alla vigilia di un ulteriore strappo nelle relazioni sindacali o meglio, di un ulteriore passo in direzione della generalizzazione del modello Pomigliano. Infatti, Fim e Uilm sono pronte a firmare con Federmeccanica un nuovo contratto nazionale separato.
L’ipotesi di accordo sulla quale stanno lavorando Fim e Uilm, escludendo peraltro a priori la Fiom e, come sempre, i sindacati di base, è di fatto un’accettazione in toto della piattaforma di Federmeccanica, che si pone in perfetta continuità con i contratti aziendali imposti in Fiat da Marchionne, con le modifiche legislative introdotte dai governi Berlusconi e Monti e con l’accordo sulla produttività firmato il 21 novembre scorso.
E così, il leitmotiv è ancora una volta la riduzione tendenziale del salario, mediante il meccanismo di legarne una quota alla produttività, l’aumento dell’orario del lavoro normale e di quello straordinario, la derogabilità delle norme e, persino, il non pagamento al 100% dei primi tre giorni di malattia. Insomma, la solita tesi secondo la quale l’unica cosa da fare in tempi di crisi è tagliare salario e diritti, nonché quello che rimane della democrazia nei luoghi di lavoro.
Nel frattempo, tutti i dati disponibili, da qualunque fonte provengano, sia a livello nazionale che regionale, confermano una crisi occupazionale senza precedenti, l’aumento dei licenziamenti e della disoccupazione. Ma mai nessuno di coloro che predicano i sacrifici a senso unico, cioè per lavoratori, precari e disoccupati, si è mai degnato di spiegare come si possa rilanciare l’occupazione allontanando l’età pensionabile e aumentando l’orario di lavoro. E nemmeno come si possa pensare di rilanciare l’economia puntando sulla mera ed illusoria competizione salariale con la Serbia o la Cina, senza preoccuparsi della domanda interna. No, tutto ciò non servirà ad avvicinare una fuoriuscita dalla crisi, ma al massimo a migliorare le condizioni di vita di qualche dirigente d’azienda e a rafforzare i privilegi di qualche burocrate sindacale senza scrupoli.
Domani sarà dunque uno sciopero difficile, non fosse altro perché è l’ennesimo di una lunga serie in una categoria fortemente colpita da cassa e mobilità, ma anche uno sciopero necessario, perché la strada indicata da Fim, Uilm, Confindustria, Marchionne e Monti porta diritto in un vicolo cieco. E non si tratta di una questione che riguarda i soli metalmeccanici, poiché quello che oggi succede tra i metalmeccanici, domani succederà dappertutto.
 
Per quanto riguarda gli appuntamenti di piazza a Milano, per mercoledì 5 dicembre, ecco la situazione:
- ore 9.30, P.ta Venezia, manifestazione regionale della Fiom, con arrivo in Duomo. Per gli appuntamenti del 5 e 6 dicembre nelle altre regioni vedi qui;
- ore 9.30, L.go Cairoli, concentramento degli studenti di Laps, che poi incontreranno il corteo della Fiom;
- ore 9.30, in Piazza 5 Giornate, concentramento degli studenti del Casc; anche loro probabilmente incroceranno il corteo Fiom.
 
Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 08/12/2012, in Antifascismo, linkato 1090 volte)
Un appello per chiudere le sedi dei gruppi nazifascisti a Milano, a partire da quelle concesse dalle istituzioni pubbliche, come l’Aler, è stato lanciato da diverse realtà del movimento milanese in seguito all’accoltellamento di un attivista antifascista e alla vigilia dell’anniversario della strage di Piazza Fontana. È un appello assolutamente condivisibile, poiché chiede la fine di ogni complicità istituzionale con i gruppi militanti della destra neofascista e razzista, ed è un appello necessario, perché la sottovalutazione dei tempi che corrono è ancora troppo diffusa. Pertanto ho aderito all’appello e vi invito a fare altrettanto. Il testo dell’appello lo trovate qui di seguito e per firmarlo è sufficiente mandare una mail a 2013@daxvive.info
 
Luciano Muhlbauer
 
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CHIUDERE LE SEDI NAZI-FASCISTE È UNA QUESTIONI DI LIBERTÀ.
BASTA CONNIVENZE, BASTA COMPLICITÀ. NO NAZI IN MY TOWN
 
Dovrebbe occuparsi di trovare casa ai meno abbienti; dovrebbe gestire il patrimonio immobiliare pubblico per alleviare il peso della crisi.
 
Parliamo dell’Aler, un tempo Iacp; e parliamo di abitazioni comprate con i soldi di tutti, con le tasse dei lavoratori. Per gestire l’Aler hanno nominato ben 17 dirigenti, e nessuno di loro guadagna meno di 100.000 euro all’anno (dunque ognuno ci costa almeno 150.000 euro all’anno). Con il bel risultato di mandare edifici in malora, oppure di lasciarli sfitti,  svenderli, o regalarli alla mafia in uso gratuito; ma guardandosi bene dall’aiutare i ceti popolari travolti dalla crisi.
 
Di recente hanno passato il segno. Hanno dato in locazione (agevolata, molto agevolata) uno spazio ad una (pretesa) associazione culturale di estrema destra, Lealtà e Azione, qui a Milano in Viale Brianza 20, nella zona di città in cui prese le mosse la resistenza antinazista e antifascista, in cui i repubblichini consumarono crimini ed eccidi. Nel loro sito i legionari (si chiamano così!) di Lealtà e Azione citano il rumeno Codreanu, il fondatore della Guardia di ferro, alleati e collaborazionisti del nazismo, rastrellatori di ebrei e zingari. Si tratta di una filiale italiana di un gruppo neonazista che opera in vari paesi; con una spada per simbolo che rievoca esperienze e passato palesemente fascisti.
 
Chi ha dato, con trattativa privata, i locali a questa gente, che nascosta dietro una ridicola associazione culturale si dedica ad una spregevole apologia del razzismo, delle dittature, delle legioni e del superuomo hitleriano? Forse uno dei dirigenti di Aler, il nostalgico Osnato (110.000 euro annui)? La giunta, i consiglieri comunali, provinciali e regionali tutti, i candidati alle primarie, chiunque sia direttamente o indirettamente responsabile (o aspiri a diventarlo) delle istituzioni cittadine e dunque delle politiche di Aler che non è una azienda di proprietà privata, ma pubblica, deve subito e senza esitazione pretendere dai vertici di Aler la revoca della concessione agevolata per lo spazio di Viale Brianza (ed egualmente per lo spazio di Via Bassano del Grappa). Debbono impegnarsi, subito e senza tentennamenti, a trovare i responsabili di questa grottesca agevolazione data alla destra estrema razzista, a chiederne conto, a rimuoverli dalle cariche occupate, a porre fine ad uno scandaloso aiuto fornito a Lealtà e Azione. Dopo l’aggressione di domenica scorsa in stazione Centrale per mano di due neonazisti, non è necessario attendere altre coltellate e nuove vittime; liberiamo adesso Milano, una città antifascista e indignada che non tollera aspiranti legionari che si richiamano ai loro predecessori e con loro ai forni crematori. Liberiamola da tutte le sedi nazifasciste, a Quarto Oggiaro, in piazza Aspromonte, in Via Bassano del Grappa e in Viale Brianza (le ultime due di Aler), indichiamo chiaramente i responsabili di connivenze e complicità.
 
Il 13 dicembre dell’anno scorso un neofascista di un’altra sedicente associazione di nostalgici del ventennio, ha ucciso nel centro di Firenze a colpi di pistola Modou e Mor e ferito altri tre ragazzi.
 
Queste aggressioni non sono più tollerabili, non è più tollerabile il razzismo becero e ignorante dei fascisti di oggi, per niente diversi da quei fascisti al servizio dei Servizi Segreti che hanno messo una bomba in Piazza Fontana il 12 dicembre nel 1969. Milano, città medaglia d’oro per la Resistenza, non dimentica: mantenere viva la memoria vuol dire ricordare le vittime di piazza Fontana, ricordare Dax, ricordare Modou e Mor ma soprattutto chiudere tutti gli spazi neofascisti.
 
 Il 12 e il 15 dicembre la Milano antifascista e antirazzista scenderà in piazza per pretendere in tempi di crisi, diritti per tutti contro il pericolo di nuovi autoritarismi e derive a destra.
 
Per firmare l’appello scrivere a 2013@daxvive.info
 
L’elenco aggiornato dei firmatari, collettivi ed individuali, è disponibile alla pagina http://daxvive.info/appello-per-chiudere-le-sedi-nazi-fasciste/
 
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