Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 28 ottobre 2006
Il tema immigrazione, si sa, in politica è argomento ostico, specie dalle parti del centrosinistra. Infatti, terreno di incursione politica e culturale delle destre e inquinato dalla peggior demagogia, difficilmente gratifica sul piano del consenso elettorale quanti parlano di diritti.
Proprio per questo il programma dell’Unione aveva suscitato qualche aspettativa. Certo, si trattava di un compromesso, ma in fondo non era poca cosa che si parlasse di abrogazione della Bossi-Fini, di superamento dei Cpt, di riconoscimento del permesso di soggiorno al lavoratore irregolare che denunciasse la sua condizione o di meccanismi permanenti di regolarizzazione per i sans-papiers. In altre parole, sembrava possibile mettere in discussione quel caposaldo delle politiche migratorie degli ultimi dieci anni che considera il migrante esclusivamente come un problema di ordine pubblico e come manodopera a basso costo e senza diritti.
Tuttavia, e anche questo si sa, un conto è scrivere le cose sul programma elettorale, ben altro è poi attuarle. Così, passati sei mesi dalle elezioni, quella parte di programma, alla pari di altre a dire il vero, sembra già in fase di riscrittura moderata e si riaffaccia prepotentemente il continuismo. Basti ricordare che la bozza Amato si pone in linea di continuità non soltanto con la Turco-Napolitano, ma altresì con parte della Bossi-Fini, oppure che gli interventi contro lo sfruttamento del lavoro irregolare sono stati posticipati e che il Ministro Ferrero è rimasto da solo a sostenere quanto scritto nel programma.
Ma l’esempio forse più limpido è la sostituzione, da parte del Ministro, della parola d’ordine del “superamento” dei Cpt con quella della loro “necessità”. Infatti, i Centri di permanenza temporanea sono simbolo e paradigma dell’approccio securitario e del doppio binario giuridico che ne consegue. E quindi, chi se ne frega se le carceri amministrative sono anticostituzionali e se in fondo non servono a nulla, salvo a fare da costoso alibi per una politica repressiva che fabbrica clandestinità e ghettizzazione.
Succede tutto questo, eppure da parte dei movimenti e delle associazioni c’è troppo silenzio. Beninteso, delle iniziative ci sono state, ma deboli e frastagliate. E segnate quasi sempre da divisioni e polemiche politiche, in una replica in peggio di quanto sta accadendo tra le forze pacifiste e quanto rischiava di accadere in vista della manifestazione del 4 novembre.
È risaputo che le piazze non si riempiono con un mero atto di volontà, ma ritirarsi ognuno nei propri spazi di identità politica e abbandonare il terreno della ricerca di iniziative convergenti a chi e a che cosa serve? Davvero l’unica domanda che importa è “stai con il governo o contro il governo?” come se fossimo semplici spettatori? Di questo passo si rischia la marginalità, mentre mai come oggi c’è un terribile bisogno di rompere il silenzio e di rimettere in moto la mobilitazione sociale e politica. Forse, molto più semplicemente, ci vuole uno scatto di sano e radicale realismo, che metta in secondo piano non certo le differenze, ma quelle dispute che frenano la presa di iniziativa.
Oggi a Milano, capoluogo della regione in cui si concentra un quarto dell’immigrazione nazionale, un arco plurale di forze manifesterà davanti al Cpt di via Corelli, dove 112 migranti sono segregati dietro alti muri di cementi e sorvegliati da 130 agenti di polizia. L’iniziativa ne chiede la chiusura. Che possa essere di buon auspicio e un viatico per la riuscita del 4 novembre, cioè per rompere finalmente il silenzio.
Oggi in Consiglio regionale la Commissione Territorio ha approvato la modifica della legge n.1/2002 sul trasporto pubblico locale. In realtà un atto dovuto, poiché una sentenza della Corte Costituzionale del 2005 aveva dichiarato illegittime le norme che escludevano i cittadini stranieri regolarmente residenti in Lombardia, e in condizioni di comprovato disagio psico-fisico o economico, dalle esenzioni e agevolazioni tariffarie.
Non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che la Corte costituzionale è costretta a intervenire per cancellare insensate clausole discriminatorie. Già il Tar della Lombardia tre mesi fa ha dichiarato illegittime, trasmettendo gli atti alla Corte costituzionale, le norme che impongono il vincolo di cinque anni di residenza in Lombardia per poter accedere alle graduatorie per le case popolari, vincolo che discrimina peraltro anche molti cittadini italiani; e quasi scontato è anche un intervento contro quel passaggio, introdotto a giugno nella legge regionale sul territorio, che ostacola surrettiziamente l’esercizio della libertà religiosa.
Tutte azioni correttive prevedibili, quindi, e ciononostante la maggioranza di Formigoni insiste ad accontentare, in ogni occasione, la demagogia razzista della Lega e di parte di An. Lo stesso veto ideologico che fino a oggi ha impedito al Consiglio regionale lombardo di poter legiferare in materia di immigrazione, come invece hanno già fatto molte regioni italiane.
Una vera e propria follia politica proprio laddove si concentra un quarto dell’immigrazione in Italia, cioè oltre 800mila persone. Davvero si pensa di poter affrontare i profondi cambiamenti in atto nella società lombarda con uno spezzatino di semplici norme discriminatorie ed escludenti e rinunciando a una politica che favorisca l’inclusione e la convivenza? Difficile crederlo, ma finora i fatti ci dicono che Formigoni preferisce cavalcare la xenofobia leghista, piuttosto che aprire un confronto politico a tutto campo.
E a pagare il conto di questa situazione surreale, tanto per cambiare, sono chiamati i cittadini, siano essi stranieri o italiani. Se dalle parti del centrodestra è rimasto qualche briciolo di buon senso, Rifondazione Comunista è disponibile sin da subito ad aprire il confronto, a patto che si archivi finalmente la strada della demagogia e dell’intolleranza.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 12 ottobre 2006 (pag. Milano)
L’O.R.So. (Officina della Resistenza Sociale), il centro sociale a cui apparteneva Dax, non c’è più. Stamattina tra le 9.00 e le 10..00 le forze dell’ordine hanno sgomberato lo stabile di via Gola 16 a Milano, occupato sin dal 2001. Nessuno si è fatto male durante le operazioni, grazie soprattutto al senso di responsabilità degli occupanti, la cui resistenza è sempre rimasta pacifica.
Tutto si è svolto senza incidenti, certo, ma c’è poco da rallegrarsi poiché da oggi Milano ha uno spazio sociale in meno. E, purtroppo, non si tratta di un caso isolato. In questi anni diversi centri sociali sono stati sgomberati e altre iniziative del genere sono già annunciate per il prossimo futuro, come se ci fosse un disegno preciso di desertificazione sociale.
Ora i soliti noti grideranno alla vittoria, ripetendoci la litania del ripristino della legalità. Per loro i centri sociali, così come qualsiasi spazio di aggregazione indipendente, sono soltanto un fastidio, qualcosa da criminalizzare e da eliminare.
No, oggi decisamente c’è poco da gioire in una città dove i quartieri popolari, le cosiddette periferie, stanno pagando il prezzo di lunghi anni di inazione e abbandono da parte delle istituzioni, in primis il Comune di Milano. E poi, non appena un problema viene a galla, allora si fa un comunicato stampa e si annunciano più telecamere, poliziotti e vigili urbani, magari armati di manganello. A nessun amministratore nostrano sembra passare per la mente che la sicurezza e la vivibilità dei quartieri è fatta anzitutto di presenza dei servizi, di riqualificazione e di luoghi di aggregazione.
In una città così, i centri sociali sono una presenza preziosa e necessaria. Sono isole di vita e di relazioni, un piccolo antidoto alla solitudine urbana e alla disgregazione. Ecco perché il nostro auspicio è che i ragazzi e le ragazze dell’Orso presto ricostruiscano un nuovo spazio, dando seguito alle loro attività. Ed ecco perché riteniamo necessario che la sinistra milanese si svegli dal suo sonno, per fermare questa folle strategia della desertificazione e per rimettere al centro dell’agenda politica la condizione delle nostre tante periferie.
È successo a Bollate, città alle porte di Milano, il 15 settembre scorso. Un banale diverbio per una multa tra un vigile urbano e un giovane bollatese è degenerato in un episodio inquietante. Infatti, alla fine ben cinque vigili caricarono il giovane sul loro furgone, destino comando della polizia locale. Ma lì il giovane non ci è mai arrivato, finendo invece al pronto soccorso, dove venivano accertate la lussazione di due dita, diverse contusioni sul corpo e persino una morsicatura su una guancia. Il giovane, ovviamente, ha presentato denuncia ai carabinieri e il 27 settembre scorso la vicenda è approdata anche nel Consiglio comunale di Bollate. Conclusione? I carabinieri stanno indagando e i consiglieri comunali stanno ancora aspettando una risposta.
Un’ordinaria storia di follie da periferia urbana, si potrebbe dire, se non fosse per il fatto che ultimamente a Bollate si sono verificati diversi episodi di violenza che hanno coinvolto vigili urbani e che in tutta la Lombardia si registra un aumento di casi simili. Beninteso, casi anche molto diversi tra di loro, dove troviamo agenti sia nella parte delle vittime, sia in quella degli aggressori, ma che ci portano comunque e sempre al medesimo problema, cioè al ruolo e ai compiti di quella che oggi si chiama polizia locale.
Ebbene sì, perché da qualche anno assistiamo all’esaltazione delle “funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza” della vigilanza urbana, che poi vuol dire semplicemente assomigliare sempre di più ai corpi di polizia già esistenti, senza però avere la stessa formazione. Facendo così, non soltanto si tende a marginalizzare le funzioni proprie della polizia locale, come il controllo di sicurezza sui cantieri o la polizia annonaria, ma si finisce altresì per indebolire la “prossimità” del vigile rispetto al cittadino e per modificare in ultima analisi la percezione del suo ruolo.
Quanto avvenuto a Bollate non è assolutamente rappresentativo dell’insieme degli agenti della polizia locale, anzi, ma costituisce invece l’ennesimo campanello d’allarme. C’è qualcosa che non funziona e se non si interviene subito e in maniera decisa il morbo è destinato a crescere.
Ecco perché Rifondazione Comunista ha presentato un’interpellanza all’Assessore regionale alla polizia locale, per sollecitarlo a promuovere una propria inchiesta sul caso di Bollate e a prendere i conseguenti provvedimenti, augurandoci che questa volta il tutto non finisca nelle solite parole di circostanza e nell’assenza di fatti concreti.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
qui puoi scaricare il testo dell'interpellanza
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberamente di ottobre 2006
Il 19 luglio scorso si è concluso il processo di primo grado contro i 29 ragazzi e ragazze imputati per i fatti milanesi dell’11 marzo. 25 di loro attendevano la sentenza rinchiusi da oltre quattro mesi nelle carceri di San Vittore e Bollate. Per quasi tutti l’ipotesi di reato era pesantissima: devastazione e saccheggio, per la quale l’articolo 419 del codice penale, risalente al periodo fascista, prevede una pena detentiva tra 8 e 15 anni. Alla fine, a parte i due imputati minori, che hanno patteggiato, nove sono stati assolti e altri 18 condannati a quattro anni e messi agli arresti domiciliari.
In altre parole, una sentenza di compromesso, tutta politica, tra i principi dello stato di diritto e il sommario teorema accusatorio del Pm che ha permesso di porre fine all’incredibile e prolungata carcerazione preventiva, ma che stabilisce un pericoloso precedente. Ebbene sì, perché i ragazzi e le ragazze erano accusati non tanto di fatti specifici, bensì di “concorso morale” in devastazione e saccheggio. Cioè, erano presenti quel giorno alla manifestazione di Porta Venezia e pertanto considerati tout court colpevoli di tutto ciò che vi era accaduto. E se nove di loro sono stati assolti, ciò era dovuto al fatto che l’accusa non riusciva nemmeno a dimostrare la loro partecipazione alla manifestazione. Eppure, anche la maggior parte degli assolti aveva passato lunghi mesi in carcere, unicamente sulla base di accuse sommarie e della campagna d’odio scatenata dal centrodestra milanese.
Insomma, cerchiamo di capirci. Per il solo fatto di essere stato presente in un determinato luogo e in un determinato momento, a prescindere da quello che hai effettivamente fatto, puoi essere sbattuto in galera per quattro mesi senza processo –anche se non hai precedenti penali- e rischiare condanne a lunghi anni di pena. Se dovessimo accettare l’ingresso nella prassi investigativa e giudiziaria del nostro paese di tale uso estensivo e discrezionale della nozione di concorso, allora metteremmo a serio rischio non soltanto le fondamenta del nostro ordinamento giuridico, di cui fa parte il principio che afferma che la responsabilità penale è personale, ma la stessa libertà di manifestare.
Il precedente è tanto più pericoloso, quanto più si è diffuso ultimamente l’uso dell’accusa di concorso in diversi procedimenti contro manifestanti. Basti qui ricordare che in alcuni processi per i fatti di Genova 2001 si teorizza una inaudita “compartecipazione psichica” in devastazione e saccheggio oppure che il “concorso” ha fatto la sua comparsa persino nell’inchiesta sulla nota vicenda del treno di manifestanti anti-Tav, dove si era accomodato incredibilmente anche l’estremista di destra Borghezio. E così due esponenti di un centro sociale milanese, che non avevano nemmeno messo piede sulla carrozza dove erano avvenuti i fatti, si trovano ora indagati per “concorso”.
Ci sono dunque molti validi motivi per non considerare chiusa la vicenda, ai quali ne va aggiunto un altro, cioè che 18 ragazzi e ragazze si trovano tuttora agli arresti domiciliari, in regime di massima restrizione e dunque impossibilitati a riprendere la loro vita, i loro studi e il loro lavoro.
La sinistra milanese ci aveva messo parecchio, troppo, a denunciare l’enormità e la gravità dell’anomalia che si stava consumando. E sarebbe ora un errore ancora più grande far tornare il silenzio. L’uso discrezionale del “concorso” e il ricorso ad accuse palesemente improprie e sproporzionate colpisce fino ad oggi in maniera mirata e limitata alcune aree politiche antagoniste. Una circostanza già abbastanza grave in sé, ma nulla impedisce che in un futuro più o meno vicino possano essere estesi a qualsiasi espressione del conflitto sociale, dal corteo allo sciopero, dalle occupazioni ai blocchi stradali. E allora, forse è giunto il momento di prendere l’iniziativa anche a livello istituzionale e di invitare tutte le forze politiche ad assumersi la responsabilità di porre un freno alla deriva.
Tutti quanti eravamo e siamo consapevoli che in tema di immigrazione esistono posizioni e approcci diversi anche all’interno dell’Unione. Eppure, le parole e gli annunci del Ministro degli Interni Amato lasciano francamente sbigottiti, sia per la leggerezza con cui egli butta nel cestino quanto scritto nel programma della coalizione, sia per i toni sprezzanti con i quali intende liquidare la questione del “superamento” dei Cpt.
Non giova proprio a nessuno sostenere il falso palese, cioè che i Cpt servirebbero per individuare i delinquenti e i malati, e banalizzare così una questione che peraltro investe la nostra civiltà giuridica e democratica. Piuttosto, il Ministro ponga finalmente e urgentemente fine all’insopportabile omertà istituzionale che circonda l’universo della detenzione amministrativa e renda pubblici tutti i dati relativi ai Cpt. Cioè, si dica ai cittadini quanto costano i Cpt, comprese le convenzioni con soggetti privati, quante e quali persone transitano in quelle strutture detentive e che fine fanno e quanti sono gli “incidenti” che vi capitano con preoccupante regolarità.
Se tutta va bene, se quei Cpt servono così tanto e se sono persino compatibili con la nostra Costituzione, allora perché vengono nascosti all’opinione pubblica come un segreto di stato? Sia per la stampa che per i rappresentanti istituzionali, è più facile sapere cosa accade in un carcere di massima sicurezza, che non in un Cpt qualsiasi. Figuriamoci poi per un cittadino normalissimo.
A Milano, da ormai tre mesi, numerose associazioni chiedono alla Prefettura - e per suo tramite al Ministero - di rendere pubblici tutti i dati relativi al Cpt di Via Corelli. Risultato? Silenzio assoluto e assordante.
Insomma, se non c’è nulla da nascondere, allora si dia una risposta alle tante richieste di trasparenza, a Milano e dappertutto. E poi ricominciamo da capo la discussione sulla “necessità” delle carceri amministrative su base etnica, ma almeno senza quelle parole a dir poco inopportune”.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Il gruppo consiliare regionale di Rifondazione Comunista esprime tutta la sua solidarietà a Amir Karar, cittadino pakistano di 23 anni, rinchiuso nel Cpt di Via Corelli di Milano sin dal 4 settembre scorso.
Amir era stato fermato ad Arezzo, dove risiedeva da due anni, e poiché era privo di permesso di soggiorno era stato fatto oggetto di provvedimento di espulsione e di conseguenza tradotto nel Cpt milanese. La storia di Amir è quella di una persona approdata in Italia dopo una fuga dal suo paese, causata dalle persecuzioni che subiva. Infatti, Amir appartiene alla minoranza sciita del suo paese, sottoposta da anni a gravi violenze da parte di gruppi sunniti militanti con ampie complicità negli apparati di sicurezza pakistane. Il fatto che fosse il segretario generale dell’associazione sciita “Shia Markiz” fece sì che subisse minacce di ogni tipo, fino ad una aggressione fisica che lo ridusse in fin di vita.
Appena fermato dalla Digos di Arezzo raccontò la sua storia, ma la sua condizione non è stata presa in considerazione, sebbene la normativa in vigore affermi esplicitamente che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione”. Nemmeno al suo arrivo al Cpt di Via Corelli gli hanno dato retta, poiché gli operatori della Croce Rossa, che ha in gestione il centro, omisero per tre giorni di inoltrare la sua richiesta di asilo politico.
Amir ha avuto la fortuna di avere tanti amici ad Arezzo che si sono impegnati a far conoscere il suo caso. Per questo alla fine ha potuto fare almeno richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato. Altri, magari senza molti amici, finiscono spesso nell’infernale meccanismo della Bossi-Fini, per così sparire in qualche Cpt e poi chissà dove, senza che nessuno venga mai a sapere nulla.
Domani giovedì la competente commissione territoriale di Milano deciderà le sorti di Amir. Visti i precedenti pensiamo però che occorra la massima vigilanza per evitare che Amir possa essere espulso e dunque subire una specie di condanna a morte. Ecco perché facciamo appello alle associazioni, alle forze politiche e alle istituzioni ad adoperarsi affinché ad Amir venga riconosciuto il diritto di stare regolarmente in Italia, magari anche partecipando al presidio che i suoi amici organizzano presso la Prefettura a partire dalle ore 9.00.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 19/09/2006, in Lavoro, linkato 1007 volte)
Il Consiglio Regionale odierno ha evidenziato una preoccupante distanza tra il palazzo e la società. Disinteresse diffuso, banchi semivuoti durante il dibattito e vistosa assenza di gran parte degli assessori. Eppure, non si discuteva di quisquilie, ma niente di meno che della nuova legge regionale sul mercato del lavoro. Vi era molta più attenzione e passione politica qualche mese fa in occasione della legge per la tutela degli animali d’affetto. Le lavoratrici e i lavoratori lombardi, insomma, hanno ricevuto meno considerazione politica dei pesciolini rossi.
Forse sarebbe il caso che il Consiglio regionale facesse come il parlamento inglese di un secolo e mezzo fa. Cioè, che promuovesse una commissione di indagine per accertarsi delle condizioni reali dei lavoratori in Lombardia. Almeno non ci sarebbero più alibi per non vedere che oggi si affaccia una nuova questione sociale, fatta di salari e stipendi che valgono sempre di meno, di una precarietà e insicurezza sociale sempre più diffuse e di uno sfruttamento del lavoro nero e irregolare, spesso a danno di lavoratori immigrati, in crescita.
E come meravigliarsi dunque che oggi sia stata approvata una legge regionale che non prevede alcuna misura concreta e incisiva di contrasto della precarietà e dello sfruttamento del lavoro irregolare, ma che in cambio avvia il business delle braccia? Una misura che va addirittura oltre a quanto impone la legge 30, poiché non si limita a regolare l’esercizio dell’attività di intermediazione di manodopera da parte di privati, ma prevede cospicui finanziamenti regionali a questi ultimi.
Così, le Province, che fino a oggi esercitavano in esclusiva le funzioni del collocamento, non solo perderanno la maggior parte delle competenze, ma avranno sempre meno finanziamenti, mentre le aziende private potranno da domani in poi integrare liberamente i loro servizi di fornitura di lavoratori in affitto con l’attività di collocamento. E tutto questo con generosi contributi regionali, cioè con le tasse dei cittadini.
Davvero difficile immaginare che una siffatta politica possa rispondere alle esigenze e ai problemi che oggi vivono i lavoratori lombardi. Alla fine, gli unici a trarne profitto saranno alcune aziende di somministrazione e intermediazione di manodopera, mentre le istituzioni perderanno i residui strumenti di indirizzo del mercato del lavoro.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 19/09/2006, in Lavoro, linkato 1006 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 19 settembre 2006 (pag. Milano)
Con la pubblicazione venerdì scorso del documento di indirizzo per “condizioni particolari di autonomia” per la Lombardia, l’offensiva federalista di Formigoni è entrata nel vivo, come dimostra anche il pieno sostegno leghista incassato ieri dal presidente lombardo. Eppure, al dibattito politico subito animatosi non sembra minimamente interessare il quesito più importante: più poteri alla Regione Lombardia per fare che cosa?
In fondo, la risposta è sotto gli occhi di tutti e basterebbe volgere lo sguardo a quello che accadrà domani in Consiglio Regionale. Si discuterà la nuova legge regionale sul mercato del lavoro, fortemente voluta dalla giunta Formigoni, che prevede l’applicazione a dir poco integralista della legge 30.
Il cuore del provvedimento è rappresentato dalla liberalizzazione pura e semplice dell’intermediazione di manodopera. Infatti, il vecchio collocamento pubblico era stato abolito definitivamente dalla legge 30 e le relative competenze erano rimaste alle Province, salva la possibilità -ma non l’obbligo- per le Regioni di legiferare diversamente. Ora il centrodestra lombardo vuole accantonare il residuo ruolo pubblico, introducendo un “sistema regionale dei servizi per il lavoro” composto da operatori pubblici e privati.
In altre parole, vi sarà sostanziale parità tra soggetti privati e pubblici e ambedue dovranno accreditarsi presso la Regione per poter operare e così ricevere un finanziamento regionale. Alle Province rimarranno in esclusiva soltanto alcune funzioni amministrative, come il collocamento mirato delle persone disabili, la gestione delle liste di mobilità o l’avviamento alla selezione per le pubbliche amministrazioni. Tutto il resto, cioè il grosso del business delle braccia, sarà terreno di libera concorrenza tra privati e pubblico.
Facile prevedere che un siffatto sistema porterà nel giro di poco tempo all’emarginazione degli enti locali dalle politiche occupazionali e all’espansione di quelle aziende private che d’ora in poi potranno liberamente integrare la somministrazione di manodopera con l’attività di collocamento.
Ed è probabilmente superfluo aggiungere che il progetto di legge non prevede azioni concrete di contrasto alla precarietà, né interventi effettivi contro la piaga dello sfruttamento del lavoro nero ed irregolare, con tanti saluti alla situazione reale che vivono oggi i lavoratori e le lavoratrici, italiani e stranieri, nella nostra regione. Questa legge, qualora approvata, non solo non porrà un argine alla nuova questione sociale che attanaglia la Lombardia, ma finirà inevitabilmente per aggravarla.
Così, dopo la sanità e la formazione professionale, la furia privatizzatrice –assistita, beninteso, da una pioggia di finanziamenti pubblici- investe anche i servizi all’impiego e, possiamo scommetterci, una bella fetta dell’affare andrà alla Compagnia delle Opere. E, dulcis in fundo, non è un mistero per nessuno che Formigoni custodisce nei suoi cassetti, pronto all’uso, un testo di legge sull’istruzione, ispirato alla riforma Moratti.
E allora, tornando alla nostra domanda iniziale, appare chiaro che i poteri particolari rivendicati da Formigoni non servono tanto a dare più protagonismo ai cittadini lombardi, ma piuttosto a rilanciare il progetto politico e sociale del centrodestra e a sottrarre la Lombardia dalla discontinuità con le politiche del precedente governo. Infatti, mentre a livello nazionale è aperta la discussione sul superamento della legge 30, in Lombardia la si vuole applicare in versione estremistica.
Ci pare evidente che vi è una incompatibilità, anzi un antagonismo, tra il programma dell’Unione e i progetti di Formigoni. E quindi, a maggior ragione, risultano incomprensibili le continue aperture provenienti da esponenti dell’Ulivo lombardo, che fanno il paio con le strizzatine d’occhio tra rappresentanti milanesi del centrosinistra e la neosindaca Moratti. Forse è arrivato davvero il momento di uscire dalle discussioni astratte e politiciste sul federalismo e di rispondere alla domanda vera, cioè per fare che cosa? E il Consiglio Regionale di domani, inutile nascondercelo, sarà un importante banco di prova.
di lucmu (del 15/09/2006, in Lavoro, linkato 1182 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 15 settembre 2006
Dopo sette mesi di aspro confronto in Commissione, il progetto di legge lombardo sul mercato del lavoro, voluto fortemente da Formigoni in applicazione della legge 30, approda in aula consiliare il 19 settembre prossimo. Certo, rispetto alla versione originaria alcune tra le misure più estremistiche sono state attenuate, senza tuttavia scalfire l’impianto di fondo.
Il cuore del provvedimento è rappresentato dalla liberalizzazione pura e semplice dell’intermediazione di manodopera. Infatti, il vecchio collocamento pubblico era stato abolito definitivamente dalla legge 30 e le relative competenze erano rimaste alle Province, salva la possibilità -ma non l’obbligo- per le Regioni di legiferare diversamente. Ora il centrodestra lombardo vuole accantonare il residuo ruolo pubblico, introducendo un “sistema regionale dei servizi per il lavoro” composto da operatori pubblici e privati.
In altre parole, vi sarà sostanziale parità tra soggetti privati e pubblici e ambedue dovranno accreditarsi presso la Regione per poter operare e così ricevere un finanziamento regionale. Alle Province rimarranno in esclusiva soltanto alcune funzioni amministrative, come il collocamento mirato delle persone disabili, la gestione delle liste di mobilità o l’avviamento alla selezione per le pubbliche amministrazioni. Tutto il resto, cioè il grosso del business delle braccia, sarà terreno di libera concorrenza tra privati e pubblico.
Insomma, si tratta sostanzialmente del medesimo sistema di accreditamento già vigente in Lombardia nella sanità e nella formazione professionale e che in questi anni ha portato al drenaggio di ingenti risorse pubbliche verso operatori privati, nonché a innumerevoli inchieste di guardia di finanza e magistratura.
Facile prevedere che un siffatto sistema porterà nel giro di poco tempo all’emarginazione degli enti locali dalle politiche occupazionali e all’espansione di quelle aziende che d’ora in poi potranno liberamente integrare i loro servizi, dalla selezione di personale alla fornitura di manodopera, con l’attività di collocamento. Ovvero, le istituzioni saranno sempre meno in grado di incidere sulle dinamiche del mercato del lavoro, mentre le aziende di somministrazione e intermediazione, portatori di interessi particolari, disporranno di un crescente e indebito potere sulla vita di lavoratori e lavoratrici.
Quello che colpisce di più nella determinazione del centrodestra lombardo è la completa indisponibilità a confrontarsi con la situazione reale che vivono oggi i lavoratori, italiani o stranieri, in Lombardia. I salari e gli stipendi hanno subito un calo preoccupante di potere d’acquisto, la precarietà e l’insicurezza sociale si sono trasformati in un autentico fenomeno di massa e persino lo sfruttamento del lavoro irregolare, compreso il caporalato, sta vivendo una sua triste primavera nella ricca e moderna Lombardia. Non a caso, infatti, la legge formigoniana abbina la liberalizzazione dell’intermediazione di manodopera a generiche petizioni di principio, non prevedendo misure concrete e incisive di contrasto della precarietà e dello sfruttamento del lavoro irregolare. Questa legge, qualora approvata, non solo non porrà un argine alla nuova questione sociale che attanaglia la Lombardia, ma finirà per aggravarla.
E allora risulta ancora più stupefacente che Ds e Margherita regionali si siano limitati in commissione ad una timida astensione, prigioniere evidentemente della miope ricerca di soluzioni bipartisan a tutti i costi. Eppure, delle alternative ci sarebbero. Di fronte all’inadeguatezza dei servizi per il lavoro attualmente esistenti si potrebbe investire sulla riqualificazione e sulla costruzione di una rete pubblica, coinvolgendo anche i Comuni. Di fronte alla precarietà dilagante, si potrebbe introdurre un sistema di incentivi e disincentivi per favorire la stabilizzazione dei posti di lavoro, cominciando dalle stesse amministrazioni pubbliche. E, infine, di fronte allo sfruttamento del lavoro irregolare si potrebbe promuovere e coordinare una campagna di vigilanza e controlli, magari a partire da quei cantieri sotto gli occhi di tutti. Tutto ciò è possibile qui e ora ed è esattamente quanto Rifondazione Comunista propone da lunghi mesi.
Ovviamente, porteremo la nostra battaglia fino in fondo nell’aula consiliare, ma ci vorrebbe davvero uno scatto di mobilitazione da parte delle forze sociali per impedire che il caporalato venga elevato al rango di politiche per il lavoro, magari con qualche collaborazione proveniente dalle fila della stessa Unione. Lo stesso scatto necessario a livello nazionale per rilanciare la battaglia per l’abrogazione della legge 30, a partire dalla manifestazione nazionale del 4 novembre.
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