Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 03/10/2012, in Lavoro, linkato 992 volte)
Tutta colpa di quei disgraziati di lavoratori che scioperano? Sembrerebbe proprio di sì, leggendo ed ascoltando editoriali, dichiarazioni e ammonimenti che piovono da tutte le parti dopo la giornata di sciopero del trasporto pubblico locale di ieri, con i momenti di caos a Milano.
Beninteso, se ieri ti trovavi sulla linea rossa dalle parti di Lima poco prima delle 18.00, hai passato un’esperienza difficile e forse oltre l’incazzatura ti sei preso anche uno spavento. Chi scrive era più fortunato, poiché a quell’ora si trovava sì nelle vicinanze, ma sulla gialla e sulla verde. Tuttavia, è bene ricordare che il fatto che ha dato il la al processo pubblico contro gli scioperanti, cioè il blocco del convoglio a Lima, non è affatto ascrivibile ai lavoratori. In fondo, è costretto a riconoscerlo lo stesso Corsera, che in prima pagina nazionale grida “Uno sciopero così non è da Paese civile”, ma poi in fondo al suo articolo di cronaca in pagina milanese scrive: “Ma stavolta i sindacati non c’entrano. La fascia ‘protetta’ è stata rispettata e, anzi, tutti i macchinisti hanno garantito il servizio della Rossa ben oltre le 18”.
Ma appunto, quello che conta, quello che fa tendenza sono le prime pagine ed i titoli. E qui il Corsera ha fatto scuola. Già ieri sera qualche direttore di Tg aveva iniziato a puntare severo il dito contro gli autoferrotranvieri in sciopero, oggi poi sono seguite le dichiarazioni politiche. L’indagato Formigoni e il suo assessore ai trasporti, Cattaneo, hanno immediatamente riscoperto il diritto alla mobilità dei pendolari, cioè di coloro che da anni protestano invano con la Regione a causa dei continui disservizi, sostenendo che bisogna trovare “altre modalità” e “rivedere qualche regola”. Il presidente della Commissione di garanzia sugli scioperi, da parte sua, ha annunciato un’inchiesta sulla regolarità degli scioperi, mentre alla fine della fiera anche qualche assessore comunale milanese, come Chiara Bisconti, si è fatto contagiare dalla febbre, invocando un “ripensamento delle modalità di sciopero”.
Pochi, anzi pochissimi, hanno ritenuto necessario ricordare che i lavoratori non si divertono quando scioperano, anche perché rinunciano al salario per quelle ore. E soprattutto quasi nessuno ha puntato il dito sulla ragione di questo sciopero, cioè il fatto che il loro contratto attende il rinnovo da oltre cinque (5) anni. E, non a caso, le adesioni allo sciopero di ieri sono state altissime in tutto il paese.
Già, è molto più facile e comodo prendersela con i lavoratori in sciopero e additarli come responsabili di tutti i mali, piuttosto che adoperarsi perché venga rinnovato il contratto e per fare una seria battaglia, anche istituzionale, per contrastare i continui tagli sulla voce “trasporto pubblico locale”. Certo, è più facile e comodo, ma è anche tremendamente ipocrita, perché alla fine questi atteggiamenti non risolveranno neanche mezzo problema e finiscono soltanto con mettere in discussione un altro pezzo di diritti in nome dell’emergenza.
E in questo senso la vicenda è paradigmatica di un clima, di un momento. Basti guardare cosa succede ad esempio all’ospedale San Raffaele, quello portato al fallimento dal malaffare di Don Verzé e soci e ciononostante destinatario per lunghissimo tempo di fiumi di denaro pubblico, grazie agli amici Berlusconi e Formigoni. E ora il conto lo dovrebbero pagare i lavoratori, con il licenziamento e/o con una riduzione salariale. E siccome i lavoratori giustamente non ci stanno a pagare il conto altrui e minacciano sciopero, allora vengono accusati di essere irresponsabili eccetera, magari anche da uomini della squadra di Formigoni…
Insomma, purtroppo sempre la solita e insopportabile storia: alla fine è sempre colpa dei lavoratori.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Chi la dura la vince, dice la saggezza popolare. E così la Nokia Siemens Networks (NSN) ha dovuto ingranare la retromarcia e riaprire la trattativa a condizioni ben diverse da quelle che il 16 ottobre scorso avevano portato al “mancato accordo”, cioè alla rottura delle trattative. Anzi, parlare di “trattativa” era persino un eufemismo, poiché la proposta aziendale prevedeva soltanto cassa integrazione a zero ore, cioè l’anticamera del licenziamento collettivo.
La posta in gioco nella vertenza NSN è molto alta, poiché la multinazionale vuole liberarsi di 580 lavoratori, di cui la stragrande maggioranza nel principale sito produttivo italiano, quello di Cassina de’ Pecchi. In altre parole, non stiamo parlando “soltanto” di un numero alto di posti di lavoro, ma della possibilità che venga smantellato e deindustrializzato uno dei principali poli delle telecomunicazioni esistenti in Lombardia.
Peraltro, sempre a Cassina c’è il caso Jabil -un ex ramo d’azienda NSN ceduto nel 2007- cioè quella azienda che ha licenziato oltre 300 lavoratori e lavoratrici e i cui stabilimenti sono presidiati dai lavoratori da oltre un anno. Ebbene, le vertenze Jabil e NSN sono in realtà strettamente collegate, poiché la lotta degli operai ex-Jabil per la reindustrializzazione, che ha vissuto anche momenti molto aspri, come il 27 luglio scorso, difficilmente potrà reggere in un quadro di desertificazione occupazionale dell’adiacente NSN. E, aggiungo, anche la lotta alla NSN ha bisogno che il presidio Jabil continui.
Certo, la nuova ipotesi di accordo definita dopo la retromarcia di Nokia Siemens e che ora verrà sottoposta al giudizio dei lavoratori e firmato il 29 ottobre prossimo, non è la soluzione di tutti i mali, ma consente di guadagnare prezioso tempo e, soprattutto, di bloccare le procedure di mobilità (leggi: licenziamento) per centinaia di lavoratori. E questo è molto, nelle condizioni date.
Ma come si è arrivati a questo clamoroso passo indietro dell’azienda? Già, perché leggendo alcuni proclami sindacali, possiamo senz’altro dire che questo è il punto dolente della giornata. La sparata più grossa è sicuramente della Uilm, che sul Sole 24 Ore attribuisce il merito a sé stessa… E fin qui potremmo anche dire che siamo alle solite, ma francamente fa senso che, unica eccezione la Fiom, sia stato completamente rimosso il punto di svolta, cioè quel fatto che ha imposto alla NSN di cambiare idea: cioè, l’assemblea dei lavoratori NSN del 18 ottobre scorso a Cassina, dove di fronte all’imminente arrivo delle lettere di licenziamento, i lavoratori hanno deciso di non chinare la testa e di non firmare la resa, bensì di proseguire la lotta per il ritiro dei licenziamenti.
Appunto, chi la dura la vince, e sarebbe il caso di dirlo forte, dando a Cesare quello che è di Cesare, invece che raccontare frottole. Ma purtroppo sembra che quella antica malattia di avere paura del protagonismo dei lavoratori sia proprio difficile da debellare.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 12/11/2012, in Lavoro, linkato 1047 volte)
Il 14 novembre si sciopera e si manifesta in quasi tutta Europa contro le politiche dell’austerità e della troika. Certo, non è ancora lo sciopero europeo che ci vorrebbe, ma forse conviene vedere il passettino avanti, il bicchiere mezzo pieno. Già, perché è la prima volta da quando è esplosa la crisi che si realizzano degli scioperi generali contestuali in diversi paesi europei, cioè in Portogallo, Spagna, Grecia e Italia. In altri paesi del continente, invece, non si sciopera e ci saranno soltanto delle manifestazioni (sempre più tiepide man mano che si va verso nord).
La giornata del 14 novembre era nata dalla decisione della Ces (Confederazione europea dei sindacati) di promuovere una giornata europea di mobilitazione (vedi European Day of Action and Solidarity), ma poi è andata velocemente oltre, non solo a causa della proclamazione simultanea di scioperi da parte di alcuni sindacati aderenti, ma anche in conseguenza della convergenza di altri settori sociali e forze sindacali su quella giornata.
Ma arriviamo a noi, cioè alle mobilitazioni milanesi del 14, e cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sugli scioperi e sugli appuntamenti, visto che c’è un po’ di confusione in giro.
 
Anzitutto, per quanto riguarda gli scioperi, la situazione è la seguente:
- la Cgil, confermando la sua timidezza nei confronti del governo Monti, ha proclamato uno sciopero generale di sole 4 ore, salvo nella scuola, nel pubblico impiego e nel commercio, dove lo sciopero è invece per l’intera giornata, mentre il trasporto aereo e il trasporto pubblico locale sono esclusi dallo sciopero;
- la Confederazione Cobas, da parte sua, ha proclamato lo sciopero generale di tutte le categorie per l’intera giornata (per dettagli vedi sito Cobas), così come ha fatto l’Usi;
- inoltre, per quanto riguarda il solo comparto scuola, oltre alle proclamazioni di cui sopra, ci sono anche gli scioperi indetti, da Cub-Scuola e Unicobas-Scuola.
- sul piano milanese ci sono, poi, anche adesioni allo sciopero di altre sigle, specie in enti e aziende con vertenze aperte (Usb Regione Lombardia, tutti i sindacati del S. Raffaele, Usb Legnano ecc.).
Insomma, alla fine della fiera, la copertura per scioperare c’è in tutti in settori del pubblico e del privato (ahinoi, con le solite esclusioni di fatto, dovute al ricatto della precarietà o peggio).
 
Per quanto riguarda gli appuntamenti di piazza a Milano, la situazione è la seguente:
- alle ore 8.30, a Palestro, c’è il concentramento del corteo della Cgil, che terminerà poi in Duomo;
- alle ore 9.30, in L.go Cairoli, c’è l’appuntamento per la manifestazione degli studenti, che è stata promossa sia da Lab.Out-Casc-Rete Studenti, che dal Coordinamento dei Collettivi Studenteschi;
- a partire dalle ore 7.30, i lavoratori e la Rsu del San Raffaele in lotta contro i licenziamenti saranno in presidio davanti all’ospedale e verso le 8.30 circa si muoveranno in corteo in direzione p.le Loreto, dove a partire dalle ore 9.30 ci sarà il concentramento promosso dal Coordinamento lavoratori della sanità.
 
Se avete integrazioni, rettifiche o altre notizie sulla giornata del 14 a Milano o dintorni, per favore usate lo spazio commenti.
 
Ci vediamo in piazza.
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 23/11/2012, in Lavoro, linkato 1274 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line Paneacqua.info il 23 novembre 2012
 
L’hanno firmato in nome della ripresa e raccontano persino che così arriverà più salario ed occupazione, ma in realtà è soltanto un’altra tegola in testa ai lavoratori, una Pomigliano grande quanto l’Italia. Parliamo dell’accordo per la produttività, cioè delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, firmato il 21 novembre scorso, sotto la regia del Governo Monti, da Abi, Ania, Confindustria, Alleanza Cooperative, Rete imprese Italia e dai tre sindacati complici di Marchionne, Cisl, Uil e Ugl.
Infatti, sebbene nel testo il termine produttività ricorra con frequenza quasi ossessiva, il vero oggetto dell’accordo è lo smantellamento del contratto nazionale a favore di un contratto aziendale di nuovo tipo, la riduzione del salario ed un’ulteriore limitazione della sfera dei diritti, delle libertà e delle tutele.
In questo senso possiamo affermare senz’altro che questa intesa si colloca in piena continuità con il percorso aperto da Marchionne a Pomigliano nel 2010, con lo spirito e la lettera dell’articolo 8 della legge n. 148/2011 del Governo Berlusconi, che introdusse il principio della derogabilità dei contratti nazionale e delle leggi, e con riforma Fornero del mercato del lavoro. Anzi, non solo è in piena continuità, ma opera un salto di qualità. Comunque, andiamo con ordine.
 
Primo, il contratto nazionale non garantisce più nemmeno la tutela del potere d’acquisto dei salari e degli stipendi. Cioè, come ben sappiamo, ormai i contratti nazionali faticano persino a recuperare quanto eroso dall’aumento del costo della vita, poiché vengono utilizzati indicatori sistematicamente inferiori all’inflazione reale, ma con le Linee programmatiche si va oltre, stabilendo che una parte di questo recupero vada tolto dal contratto nazionale e delegato a quello aziendale, dove sarà legato alla produttività. Per dirla con le parole dell’accordo: “i contratti collettivi nazionali di lavoro possono definire che una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello”.
 
Secondo, con questo accordo vengono di fatto cestinati tutti i discorsi sulla riduzione della pressione fiscale sui salari e sugli stipendi, poiché la sola ipotesi di detassazione chiaramente definita –e condivisa dal Governo- è quella del salario di produttività derivante dai contratti aziendali stipulati ai sensi dell’accordo in questione: “Le Parti, pertanto, chiedono al Governo e al Parlamento di rendere stabili e certe le misure previste dalle disposizioni di legge per applicare, sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, la detassazione del salario di produttività attraverso la determinazione di un’imposta, sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali, al 10%”.
 
Terzo, al contratto aziendale dovrebbero essere delegate (“prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione”) anche alcune parti normative come “gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l'organizzazione del lavoro”.
 
Quarto, i firmatari sollecitano Governo e Parlamento di modificare il quadro legislativo al fine di affidare alla contrattazionematerie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro”. Cioè, l’”equivalenza delle mansioni” (leggi: demansionamento), i “sistemi di orari e della loro distribuzione anche con modelli flessibili” e le “modalità attraverso cui rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori” (tipo il controllo a distanza del lavoratore, ora vietato dallo Statuto dei Lavoratori).
 
Quinto, in tema di rappresentanza dei lavoratori, richiamandosi al pessimo Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, si rinvia ad intese specifiche da stipulare entro la fine dell’anno, ma colpisce fortemente che sin d’ora venga precisato che “le intese dovranno, altresì, prevedere disposizioni efficaci per garantire … l'effettività e l'esigibilità delle intese sottoscritte, il rispetto delle clausole di tregua sindacale, di prevenzione e risoluzione delle controversie collettive, le regole per prevenire i conflitti, non escludendo meccanismi sanzionatori in capo alle organizzazioni inadempienti”. Cioè, tutte quelle belle cose che Marchionne si era inventato da Pomigliano in poi per reprimere il conflitto e sanzionare i lavoratori e i sindacati che scioperano.
 
Potremmo, infine, aggiungere una serie di punti relativi agli “enti bilaterali di matrice contrattuale”, alle “forme di welfare contrattuale” o “alla cultura della collaborazione fra imprese e lavoratori”, ma non faremmo altro che riconfermarci quello che già sappiamo, cioè che il consociativismo non solo produce mostri per molti, ma anche prebende per alcuni.
 
In conclusione, bisogna avere davvero una faccia tosta per sostenere che un accordo del genere porti a un miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro. Ciò sarà possibile al massimo per una piccola minoranza di lavoratori, collocati in aziende medio-grandi, con produzioni che mantengono un mercato sicuro e che non possono essere delocalizzate con facilità. Per tutti gli altri, invece, di fronte alla crisi e al ricatto della disoccupazione, per non parlare di quel 70% di lavoratori, specie nelle aziende piccole o medie, che un contratto di secondo livello non l’ha mai visto, ci sarà soltanto la prospettiva di un ulteriore peggioramento e di maggiore precarietà. E senza nemmeno riuscire ad aumentare in maniera significativa l'occupazione, poiché se la questione è la competizione sul salario più basso, comunque vada, vincerà sempre la Serbia o la Cina.
L’accordo per la produttività, essendo un accordo quadro, deve ora essere applicato, a livello contrattuale e legislativo. Quindi, potrà e dovrà essere contrastato, sia a livello sindacale, che politico. E sarà questo, peraltro, il banco di prova per tutti e tutte, per capire se le critiche e prese di distanza di questi giorni sono cose da campagna elettorale oppure se si fa sul serio.
 
Luciano Muhlbauer
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo integrale delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”

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Il 5 (Lombardia, Marche e Toscana) e il 6 dicembre (le altre regioni) è di nuovo sciopero generale dei metalmeccanici, proclamato dalla Fiom. Uno sciopero sacrosanto, perché siamo alla vigilia di un ulteriore strappo nelle relazioni sindacali o meglio, di un ulteriore passo in direzione della generalizzazione del modello Pomigliano. Infatti, Fim e Uilm sono pronte a firmare con Federmeccanica un nuovo contratto nazionale separato.
L’ipotesi di accordo sulla quale stanno lavorando Fim e Uilm, escludendo peraltro a priori la Fiom e, come sempre, i sindacati di base, è di fatto un’accettazione in toto della piattaforma di Federmeccanica, che si pone in perfetta continuità con i contratti aziendali imposti in Fiat da Marchionne, con le modifiche legislative introdotte dai governi Berlusconi e Monti e con l’accordo sulla produttività firmato il 21 novembre scorso.
E così, il leitmotiv è ancora una volta la riduzione tendenziale del salario, mediante il meccanismo di legarne una quota alla produttività, l’aumento dell’orario del lavoro normale e di quello straordinario, la derogabilità delle norme e, persino, il non pagamento al 100% dei primi tre giorni di malattia. Insomma, la solita tesi secondo la quale l’unica cosa da fare in tempi di crisi è tagliare salario e diritti, nonché quello che rimane della democrazia nei luoghi di lavoro.
Nel frattempo, tutti i dati disponibili, da qualunque fonte provengano, sia a livello nazionale che regionale, confermano una crisi occupazionale senza precedenti, l’aumento dei licenziamenti e della disoccupazione. Ma mai nessuno di coloro che predicano i sacrifici a senso unico, cioè per lavoratori, precari e disoccupati, si è mai degnato di spiegare come si possa rilanciare l’occupazione allontanando l’età pensionabile e aumentando l’orario di lavoro. E nemmeno come si possa pensare di rilanciare l’economia puntando sulla mera ed illusoria competizione salariale con la Serbia o la Cina, senza preoccuparsi della domanda interna. No, tutto ciò non servirà ad avvicinare una fuoriuscita dalla crisi, ma al massimo a migliorare le condizioni di vita di qualche dirigente d’azienda e a rafforzare i privilegi di qualche burocrate sindacale senza scrupoli.
Domani sarà dunque uno sciopero difficile, non fosse altro perché è l’ennesimo di una lunga serie in una categoria fortemente colpita da cassa e mobilità, ma anche uno sciopero necessario, perché la strada indicata da Fim, Uilm, Confindustria, Marchionne e Monti porta diritto in un vicolo cieco. E non si tratta di una questione che riguarda i soli metalmeccanici, poiché quello che oggi succede tra i metalmeccanici, domani succederà dappertutto.
 
Per quanto riguarda gli appuntamenti di piazza a Milano, per mercoledì 5 dicembre, ecco la situazione:
- ore 9.30, P.ta Venezia, manifestazione regionale della Fiom, con arrivo in Duomo. Per gli appuntamenti del 5 e 6 dicembre nelle altre regioni vedi qui;
- ore 9.30, L.go Cairoli, concentramento degli studenti di Laps, che poi incontreranno il corteo della Fiom;
- ore 9.30, in Piazza 5 Giornate, concentramento degli studenti del Casc; anche loro probabilmente incroceranno il corteo Fiom.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Un altro anno di crisi è terminato senza che si manifestasse quella famosa luce in fondo al tunnel, che gli ideologi dell’austerità amano evocare. E così, anche quest’anno sono feste amare per molti e molte e non è certamente facile farci gli auguri per l’anno che viene.
Eppure, anche in questo 2012 c’è stato chi non si è arreso o rassegnato, per convinzione o per necessità. Che fosse per difendere il posto di lavoro, il reddito o i diritti e le libertà dei lavoratori, dalle fabbriche alle cooperative nella grande distribuzione, oppure che fosse per fermare lo smantellamento della scuola pubblica o la devastazione del territorio, in ogni caso quelle lotte, quegli uomini e quelle donne, hanno rappresentato e rappresentano un raggio di luce.
Quindi i miei auguri sono anzitutto per loro, perché in fondo rappresentano una speranza di futuro per tutti e tutte.
Le lotte, però, non si fermano neanche in questi giorni, vanno avanti anche sotto le feste. Anzi, forse rischiano pure un supplemento di solitudine. Quindi, ricordiamoci di chi presidia o manifesta, di chi si batte, di chi non può permettersi di fermarsi neanche per le feste. E se possiamo, portiamo un po’ di solidarietà.
Non è possibile fare l’elenco esaustivo, ahinoi, nemmeno limitandoci all’area metropolitana milanese. Quindi, ricordo soltanto due situazioni, due luoghi di lavoro che sono presidiati anche sotto le feste, e che forse possono rappresentare anche le altre:
 
Anzitutto il presidio degli operai e delle operaie licenziati dalla Jabil di Cassina de’ Pecchi. Per loro è addirittura il secondo natale in presidio -nel corso dell’anno avevano dovuto respingere anche un tentativo di sgombero violento- e questo fatto la dice lunga sulla loro straordinaria determinazione e dignità.  
Non è difficile raggiungere il presidio. Si trova all’ingresso dello stabilimento, a Cassina de’ Pecchi, sulla Strada Padana Superiore, al km 158.
 
Il secondo è il presidio dei lavoratori e delle lavoratrici del San Raffaele di Milano. Si trova  all’ingresso dell’ospedale, in via Olgettina 60, e i lavoratori sono lì giorno e notte sin dal 1° novembre scorso, cioè da quando il nuovo proprietario privato ha esplicitato di volere 244 licenziamenti. In altre parole, il prezzo del prolungato malaffare di Don Verzé e degli amici di Formigoni ora lo dovrebbero pagare i lavoratori…
Forse li vedrete anche in giro per Milano sotto le feste, perché non si limiteranno al presidio. Per il calendario delle iniziative cliccate qui.
 
Con questo spirito auguro a tutti e tutte buone feste e che il 2013 ce la mandi buona!
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Qualsiasi dato si prenda, di qualsiasi fonte sia, il risultato è sempre il medesimo: la situazione occupazionale in Lombardia diventa ogni giorno più drammatica. In questo quadro, tuttavia, suscitano particolare allarme i dati sulla cassa integrazione nel settore metalmeccanico, diffusi in questi giorni dalla Fiom Lombardia, che evidenziano un aumento del 70% delle ore di cassa se si confrontano i mesi di gennaio 2013 e gennaio 2012.
Nel dato metalmeccanico, che comprende anche settori strategici come le telecomunicazioni, si rispecchia il vero e proprio processo di desertificazione produttiva che avanza da anni nella nostra Regione, senza che le istituzioni, nazionali e regionali, intervenissero con la dovuta determinazione.
Anzi, quasi sempre le istituzioni hanno limitato il proprio intervento alla sola erogazione di ammortizzatori sociali, i quali in assenza di progetti di rilancio o di riconversione industriale finiscono per essere soltanto uno scivolo verso la disoccupazione.
Bene fa dunque la Fiom, con l’attivo dei delegati che si tiene venerdì mattina al Teatro Carcano di Milano, a chiedere a quanti si candidano al governo del paese e a quello della Regione cosa intendono fare per difendere la presenza industriale in Lombardia.
In questo senso occorre cambiare radicalmente strada anche in Lombardia, dove da anni non esiste più una politica industriale da parte della Regione. Vuoi per l’affarismo che predomina ormai da anni nei piani alti del Palazzo della Regione, vuoi per l’evidente stanchezza di un modello di governo vecchio di quasi vent’anni, il fatto è che ha prevalso e prevale il più completo immobilismo di fronte alla crisi.
Beninteso, non esistono soluzioni miracolose e una Regione da sola non può cambiare il mondo, ma una Regione può e deve avere una politica industriale e un obiettivo prioritario. E questo oggi significa usare i fondi e le competenze a disposizione per contrastare le chiusure di attività produttive e la perdita di posti di lavoro. Cioè, basta con l’inefficace distribuzione a pioggia dei fondi e con i finanziamenti privilegiati verso quelle organizzazioni considerate  politicamente contigue al Presidente.
Occorre invece usare i fondi disponibili per investire su progetti industriali finalizzati al rilancio o alla riconversione industriale. E occorre usare gli ammortizzatori sociali non come uno scivolo verso la disoccupazione, ma come uno strumento che accompagni i processi di riconversione e che sia finalizzato al mantenimento dell’occupazione. Da questo punto di vista ci pare assolutamente corretta e condivisibile anche la proposta della Fiom di stimolare l’uso dei contratti di solidarietà per far tornare al lavoro quanti e quante sono collocati in cassa integrazione.
 
Luciano Muhlbauer
 
in allegato la tabella delle ore di cassa integrazione nel settore metalmeccanico in Lombardia del mese di gennaio 2013 e gennaio 2012
 

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di lucmu (del 18/03/2013, in Lavoro, linkato 1525 volte)
Sono tempi duri per i diritti e le libertà sindacali in Italia e in Europa, questo lo sapevamo, ma quanto successo a Aldo Milani, sindacalista e coordinatore nazionale del SiCobas, ha dell’incredibile e, soprattutto, dovrebbe suscitare vivo allarme. Già, perché alcuni giorni fa Milani è stato fatto oggetto di un foglio di via obbligatorio da parte del Questore di Piacenza e questo significa che non potrà più mettere piede nel territorio comunale per i prossimi tre anni, pena l’arresto immediato.
Tanto per capirci, il foglio di via è una misura di natura amministrativa e può essere applicato in via preventiva a soggetti considerati “dediti alla commissione di reati”. Ebbene, nella fattispecie tali “reati” altro non sono che i fatti tipici di una qualsiasi vertenza sindacale che comprenda anche blocchi o picchetti e si riferiscono in particolare alle recenti lotte dei facchini del polo logistico dell’Ikea di Piacenza. E dappertutto, che io sappia, fatti del genere possono portare sì a denunce o manganellate, ma non certo a un divieto preventivo di fare attività sindacale.
Ma appunto, non siamo dappertutto, bensì in un settore economico di rilevanza strategica, cioè quello della logistica al servizio della grande distribuzione e  della circolazione delle merci in generale, dove vige un regime di inteso sfruttamento e di assenza di diritti e tutele, poiché la quasi totalità dei lavoratori, in maggioranza migranti, non viene assunta dalle aziende, bensì inquadrata nelle cooperative che lavorano in appalto e subappalto. Ovviamente, in queste condizioni il sindacato è praticamente inesistente oppure poco più di una finzione, spesso più utile alle aziende che ai lavoratori.
Tuttavia, da qualche anno qualcosa sta cambiando, grazie anche all’impegno di alcuni sindacalisti di base, tra cui Aldo Milani, che hanno iniziato a promuovere e sostenere processi di autorganizzazione nel settore. All’inizio sembrava quasi un mission impossible, ma da un po’ di tempo gli sforzi stanno dando i loro frutti e si sedimentano coscienza e organizzazione. In poche parole, dal basso sta nascendo un processo di sindacalizzazione.
Una buona notizia e un fatto di democrazia, direi. Ma evidentemente non tutti la vedono così, anzi, in tempi di liberismo e austerity, di Sacconi, Fornero e Marchionne, un processo di sindacalizzazione laddove il sindacato non esisteva è praticamente un atto sovversivo, ovviamente da trattare come tale.
Ai lavoratori delle cooperative della logistica non viene riconosciuta nemmeno la dignità sindacale delle loro lotte. No, quando si mobilitano perché licenziati in tronco vengono brutalmente repressi, come era accaduto a Basiano l’anno scorso. Quando costruiscono una vertenza al polo logistico dell’Ikea, allora dopo le botte arriva il foglio di via al sindacalista. Insomma, il diritto costituzionale dei lavoratori e delle lavoratrici di potersi organizzare liberamente per loro non vale. Anzi, loro non fanno nemmeno sindacato, ma per definizione commettono soltanto reati.
Tra quello che succede nell’industria “tradizionale” e quello che avviene nella logistica, in fondo, l’unica differenza è che nel primo caso si tenta di eliminare i diritti e le libertà che ancora ci sono, mentre nel secondo caso si vuole impedire che diritti e libertà ci possano essere. Ma l’obiettivo finale è evidentemente il medesimo e generale.
In questi giorni l’attenzione pubblica è rivolta altrove, a Roma, alle cronache parlamentari e vaticane. Eppure, sull’Italia che c’è e sull’Italia che verrà ci dicono molte più cose vicende come quel foglio di via. Ecco perché bisogna prendere posizione e parola, ora, subito. E sarebbe bene, forse persino lungimirante, se lo facesse anche la Cgil, perché alcuni silenzi sono davvero ingiustificabili.
È giusto e necessario esprimere la solidarietà con Aldo Milani e non lasciare perdere la vicenda del foglio di via, anche perché potrebbe diventare un pericoloso precedente. Ma soprattutto bisogna sostenere la battaglia degli operai della logistica e un’occasione per farlo è già alle porte, perché il 22 marzo si svolgerà il primo sciopero nazionale dei lavoratori della logistica, indetto dal SiCobas e da ADL Cobas.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Doveva succedere prima o poi, era nell’aria e nell’andazzo delle cose, ma ora che è accaduto davvero fa effetto lo stesso. Anzi, la notizia, cioè il fattaccio, avrebbe meritato la prima pagina, per quello che rappresenta adesso e, soprattutto, per quello che implica per il futuro, ma “La Repubblica”, l’unico quotidiano che oggi ne parla, l’ha relegata a pagina 36. E così, soltanto pochi avranno saputo che in un’azienda in provincia di Venezia, la fonderia Pometon di Maerne, è stato siglato un contratto separato di nuovo tipo, che prevede il versamento di una sorta di pizzo alla Fim-Cisl, pena la riduzione del salario alla mera paga base prevista dal contratto nazionale.
Beninteso, non stiamo parlando di economia sommersa o di caporalato nella raccolta di pomodori, bensì di industria, di metalmeccanici e di un contratto aziendale firmato alla luce del sole il 14 marzo scorso.
Ma vediamo come sono andate le cose. Un anno fa la proprietà della Pometon ha deciso di fare piazza pulita di tutta la contrattazione aziendale e ha dunque disdetto unilateralmente tutti i contratti integrativi esistenti e vigenti. Dopodiché ha chiesto ai sindacati presenti in azienda, fondamentalmente Fiom e Fim, di discutere un nuovo contratto integrativo, senza tener conto del passato e sulla base della piattaforma padronale. La Fiom ha detto di no, la Fim ha detto di sì e il risultato è stato l’ennesimo accordo separato, firmato dalla sola Fim-Cisl, che prevede ovviamente meno salario e più orario, con l’aggiunta del solito e odioso trattamento differenziato, in peggio, per i nuovi assunti.
Fin qui nulla di nuovo, direte voi, da Pomigliano in poi queste cose succedono abitualmente. Giusto, ahinoi, ma questa volta hanno osato fare più, poiché non si sono accontentati di firmare un contratto separato a nome di tutti o di togliere i diritti sindacali a chi non era d’accordo. No, questa volta hanno inserito una clausola che dice che il contratto vale soltanto per i lavoratori che hanno in tasca la tessera della Cisl o che, in alternativa, aderiscono individualmente al contratto separato, mediante il versamento di un “contributo sindacale straordinario” di circa 200 euro. Per il disturbo e la fatica della contrattazione da parte della Cisl…
E gli altri, gli iscritti Fiom, quelli che non volessero prendere la tessera della Cisl o pagare 200 euro? Ebbene, faranno una brutta fine, rimanendo senza contratto integrativo, visto che quelli precedenti sono stati azzerati in blocco, e avranno la sola paga base prevista dal contratto nazionale. In altre parole, subiranno un taglio secco della retribuzione nell’ordine delle centinaia di euro al mese!
Per ora la Cisl si accontenta di aver rotto un tabù e di aver stabilito un precedente e quindi non incasserà direttamente il pizzo, ma verserà i soldi in una fondo a disposizione della Rsu. Inoltre, il ricorso al tribunale da parte della Fiom ha buone possibilità di essere accolto. Eppure, non è proprio il caso di sottovalutare la vicenda, perché si tratta di una prima volta, destinato a sdoganare un metodo ritenuto finora –giustamente- inaccettabile e a fare scuola. Vi ricordate di Pomigliano? Allora dicevano che era un’eccezione, nel frattempo è diventata la regola…
Per questi motivi occorre prendere sul serio, molto sul serio, il fattaccio alla Pometon. Perché ci dice che dopo il contratto separato, dopo la negazione dei diritti e delle libertà sindacali per chi dissente e dopo il divieto di assunzione per chi ha la tessera sindacale “sbagliata”, ci sono ancora tante altre cose, come l’obbligo di pagare il pizzo alla Cisl se non vuoi aver il salario decurtato. Insomma, al peggio non c’è mai fine se stiamo a guardare!
Forse dovremmo essere un po’ più preoccupati dello stato della democrazia nel nostro paese, che non è una questione di streaming, bensì di diritti e libertà da difendere e affermare nella quotidianità, a partire dai luoghi di lavoro e di vita.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
 
Massima solidarietà con i lavoratori che stamattina hanno occupato la sede della direzione regionale lombarda dell’Inps, in via Gonzaga a Milano. E un pressante e urgente invito alla direzione dell’Inps di intervenire, al fine di tutelare il diritto al lavoro di questi operai, licenziati da una ditta appaltatrice dell’Inps perché avevano denunciato irregolarità e si erano organizzati sindacalmente.
Incredibile, ma vero. La piaga di quel sistema di appalti, subappalti e cooperative, sempre più diffuso sia nel settore privato che in quello pubblico, che riproduce un regime da fine ‘800 e che aggira allegramente e quotidianamente la sostanza della legislazione sul lavoro, si è fatto largo persino nell’Inps. Cioè, in quel ente pubblico finanziato dai contributi dei lavoratori ed esso stesso impegnato in un dura battaglia contro l’evasione contributiva.
Nella fattispecie stiamo parlando dei servizi di facchinaggio dell’Inps, esternalizzati e affidati mediante appalti al massimo ribasso. E come sempre accade in questi casi, domina il gioco dei subappalti e delle scatole cinesi, dove alla fine la trasparenza si trasforma in una chimera e i lavoratori vengono trattati peggio degli scatoloni che dovrebbero movimentare.
I lavoratori che oggi hanno occupato la direzione lombarda dell’Inps hanno pagato con la perdita del proprio posto di lavoro il semplice fatto di aver denunciato delle irregolarità e di essersi iscritto a un sindacato. Cioè, di aver esercitato i loro diritti e di non aver accettato il silenzio.
Quel sistema degli appalti e subappalti è una vera e proprio calamità per il mondo del lavoro italiano e il fatto che certe cose possano accadere addirittura all’Inps la dice lunga sul grado di degenerazione raggiunto. Occorre porvi fine e, soprattutto, occorre porre fine allo scaricabarile, per cui chi affida l’appalto non deve rispondere del comportamento dell’appaltatore e l’appaltatore non risponde del comportamento del subappaltatore.
Oggi l’Inps ha il dovere di intervenire direttamente, anzitutto per garantire il lavoro agli operai licenziati, ma anche per fare pulizia nei suoi appalti. Anche perché, se non lo fa l’Inps, chi altri dovrebbe farlo?
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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Il testo del comunicato dei lavoratori dell’appalto Inps che stamattina hanno occupato:
 
#OccupyINPS
LICENZIATI DALL’APPALTO DI FACCHINAGGIO INPS OCCUPANO SEDE INPS LOMBARDIA
L’INFINITA E “SPORCA” CATENA DEI SUBAPPALTI IN “CASA” DI CHI AVREBBE IL COMPITO DI VIGILARE CONTRO LE IRREGOLARITA’
 
Questa mattina attorno alle 9:30 una decina di lavoratori licenziati dall’appalto logistica e facchinaggio INPS ha occupato la direzione regionale dell’INPS (a Milano in via Maurizio Gonzaga 6) per denunciare l’insostenibile situazione in cui si trovano, risultato di una lunga storia di sfruttamento e irregolarità perpetuate proprio sotto gli occhi dell’ente preposto al controllo.
Da tempo infatti INPS Lombardia ha esternalizzato i servizi di pulizia e facchinaggio attraverso un appalto pubblico al massimo ribasso.
Così è partita la catena dei subappalti, caratterizzata da gravi irregolarità, che ha visto susseguirsi: Siram e Consorzio Stabile Miles, poi Generale Servizi Srl e Irbis Società Cooperativa, infine Romeo Gestioni e, nuovamente, Generale Servizi Srl (che, insieme a Irbis, la stessa INPS cinque mesi fa aveva escluso dall’esecuzione dell’appalto proprio per le irregolarità nella sua gestione denunciate dai lavoratori).
Ora Generale Servizi si rifiuta di riaffidare le mansioni a quei lavoratori che avevano denunciato le irregolarità e ne ha contattato alcuni intimando loro di firmare nuove lettere di assunzione con condizioni ulteriormente peggiorative rispetto alle precedenti, pena l’esclusione perpetua dal rapporto di lavoro.
In questo “gioco” al massacro, INPS Lombardia si è progressivamente sottratta al confronto con i lavoratori e le rappresentanze sindacali, lavandosene le mani e ignorando bellamente le gravissime irregolarità, a tutti i livelli.
I lavoratori hanno occupato gli uffici della direzione regionale INPS Lombardia, da cui dipende direttamente l’appalto di logistica e facchinaggio, perché vogliono sia riconosciuto il loro diritto al lavoro e perché siano interrotti questi atroci meccanismi di sfruttamento, mercificazione e ricatto perpetrati sotto gli occhi di un soggetto come l’INPS, ente finanziato direttamente dai contributi dei lavoratori, che proprio su tali temi dovrebbe essere oltremodo vigile e attento.
 
I lavoratori dell’appalto logistica e facchinaggio INPS Lombardia
 
Milano, 23 maggio 2013
 
 
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