Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto dell’8 ott. 2005
Vi è qualcosa di profondamente inquietante nella vicenda della scuola araba di Via Quaranta a Milano, riapertasi nel peggiore dei modi nella giornata di ieri. In fondo la soluzione era ed è a portata di mano, con tutti i crismi della legalità, come tutti, ma proprio tutti, ben sanno. Eppure, tutte le volte arriva in extremis qualche stop da qualche parte. Questa volta è arrivato direttamente da Roma, dal Ministero presieduto da Letizia Moratti, futura candidata a sindaco di Milano per il centrodestra.
Della scuola di Via Quaranta si era detto di tutto e il premio della sparata più grossa va senz’altro riconosciuto a Magdi Allam, che parlò di una madrassa per futuri kamikaze.
Poi arrivò il provvedimento del comune di Milano che chiuse la scuola, ma per semplice “inidoneità”. Il resto è cronaca di queste settimane, dalle campagne d’odio leghiste e post-fasciste fino allo stantio ritornello della tolleranza zero degli esponenti milanesi di Forza Italia. L’unica autorità cittadina a distinguersi e a lavorare per una soluzione è stato il Prefetto Ferrante, armato semplicemente di buon senso. Ce l’aveva quasi fatta, ma poi è arrivata la Moratti.
Inquietante è che nessuno nel centrodestra sembra preoccuparsi minimamente di che fine faranno le centinaia di alunni della scuola di Via Quaranta. Inquietante è che in una città come Milano, già multietnica e multiculturale oggi, con i suoi oltre 180mila migranti residenti, il centrodestra non si preoccupi di sviluppare politiche di inclusione, ma anzi pratichi una sorta di scontro di civiltà in salsa meneghina. Inquietante è che in questa città esistono scuole private e parificate di ogni tipo, cattoliche, ebraiche, americane, francesi, tedesche e così via, ma si afferma tranquillamente che una scuola araba non può e non deve esistere. Hanno davvero torto i genitori dei ragazzi della scuola di via Quaranta se si sentono discriminati in quanto egiziani e in quanto di fede islamica?
C’è un grande bisogno che la società civile milanese si faccia viva e che si faccia viva la sinistra di questa città. Vi era stata una reazione di fronte alle parole e agli atti inqualificabili della Lega, ma poi non si è sentito più nulla. In fondo, lo ripetiamo, la soluzione c’è già, ma vanno rimosse le strumentalizzazioni politiche. La Moratti e il centrodestra hanno il diritto di fare la loro campagna elettorale come tutti, ma non è accettabile che la facciano sulla pelle di centinaia di bambini e ragazzi.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 16 ott. 2005 (pag. Milano)
Via Corelli, via Capo Rizzuto, via Quaranta. Tre vie di Milano, tre episodi diversi di un’unica storia, quella dello scontro di civiltà in salsa meneghina. In via Corelli si trova il centro di detenzione per migranti non in regola con il permesso di soggiorno, detto Cpt, in via Capo Rizzuto si trovava la baraccopoli abitata da rom e rasa al suolo senza troppe formalità dalle ruspe del sindaco Albertini e in via Quaranta ha sede la scuola araba chiusa dal comune dopo le parole scagliate dal signor Magdi Allam, che accusava i suoi oltre 400 studenti di essere niente di meno che dei futuri kamikaze.
Tre episodi, le cui relative campagne xenofobe e razziste da parte del centrodestra milanese hanno cercato di costruire l’immagine del nemico: il clandestino delinquente, il rom ladro e stupratore, l’islamico invasore e terrorista. E se questo è l’unico modo in cui si parla di migranti, allora il gioco è presto fatto, il nemico è l’immigrato tout court.
Difficile sapere quanto ci credano davvero questi novelli difensori della “nostra civiltà”, presi come sono a puntare tutto sulla questione sicurezza nell’intento di recuperare un po’ del consenso elettorale perduto. Ma è fuori di dubbio che i guasti prodotti da queste continue campagne e iniziative rischiano di diventare durature e radicate in una parte del corpo sociale.
E inizia qui il vero problema. Milano non diventerà una città multietnica, semplicemente è già multietnica, multiculturale e multireligiosa. Sono oltre 180mila i migranti residenti in città e soprattutto sta arrivando la seconda generazione, cioè i figli dei migranti nati in Italia, come confermano gli ultimi dati del MIUR che ci dicono che l’11,6% degli alunni delle scuole milanesi è di origine straniera.
L’Italia si è trasformata soltanto di recente in paese di immigrazione, ovvero ha appena smesso di essere paese di emigrazione, anche se nessuno sembra aver voglia di ricordarsene. Se, da una parte, questo può costituire un problema aggiuntivo, dall’altra rappresenta una grande opportunità. Cioè, si potrebbe imparare da altre esperienze di altri paesi europei, da Londra e Parigi ad esempio. Insomma, imparare a non ripetere, magari in peggio, la formazione di ghetti urbani e sociali e la produzione di ripiegamenti identitari che tagliano ogni comunicazione. Basterebbe in fondo leggersi quel bel libro, Allah superstar, scritto a ritmo di rap dallo scrittore algerino-francese Yassir Benmiloud, per riflettere un po’.
Insomma, Milano e altre aree metropolitane italiane stanno correndo velocemente verso un bivio. O si prosegue con una politica che esclude, clandestinizza e criminalizza, mentre contemporaneamente mette a disposizione delle imprese dei lavoratori ricattabili e sottopagati, infilandosi così direttamente in un vicolo cieco per tutti e tutte, migranti o nativi che siano. Oppure si cambia strada, radicalmente.
Pare quasi un discorso di buon senso, eppure, guardando al dibattito politico, si presenta come il più difficile di tutti. E non ci riferiamo alle destre, che hanno scientemente scelto di scimmiottare Bush e di sostituire il canto della “fine delle ideologie” con il rilancio ideologico in stile teo-con. No, ci riferiamo alle sinistre, alle opposizioni, dove troppe volte i silenzi, i balbettii e le reticenze si sprecano non appena si tocca il tasto dell’immigrazione o della sicurezza.
È come se non si volesse vedere quello che succede, cadendo in una tragica sottovalutazione. Quando personaggi che godono, ahimè, di significativo ascolto nell’opinione pubblica, come la Fallaci, il sempre più scatenato Magdi Allam oppure il presidente del Senato della Repubblica, teorizzano e invocano lo scontro di civiltà, riscrivendo per l’occasione lunghi secoli di storia europea, allora siamo di fronte ai sintomi evidenti di qualcosa che dovrebbe preoccupare e dunque spingere a reagire. Invece no, persino nel giorno della pubblicazione dell’inchiesta di Gatti sul lager di Lampedusa, a ribadire che i Cpt non si toccano non ci pensa soltanto Pisanu, ma anche Livia Turco.
No, non ci siamo. Il tema dell’immigrazione non è marginale, è centrale per ogni progetto politico di alternativa che voglia guardare ad una società più giusta, democratica e libera. Occorre il coraggio di cambiare strada e di respingere le logiche securitarie ed escludenti, di cestinare quella fabbrica della clandestinità e del lavoro ipersfruttato che è la Bossi-Fini, senza sciagurati ritorni al suo antenato, la Turco-Napolitano, di chiudere una volta per tutte quei luoghi della apartheid giuridica che sono i Cpt, senza l’ipocrisia della loro delocalizzazione fuori dai confini dell’UE, e di riconoscere il diritto di voto agli immigrati. Tre misure semplici che non risolvono certo tutti i problemi, ma che sono un punto di partenza necessario per avviare una politica alternativa che investa su una nuova cittadinanza basata sull’inclusione, la partecipazione e i diritti.
Milano non è poi tanto diversa da altre città o dall’Italia intera. Il problema è il medesimo. Per questo non dobbiamo permettere che cada sotto silenzio e che rimanga fuori dalla discussione delle forze che compongono l’Unione. Un impegno ineludibile per la sinistra, senz’altro, ma anche -e forse soprattutto- per i movimenti e le associazioni, che proprio ora dovrebbero alzare la voce. Perché a nessuno vengano concessi degli alibi.
In Lombardia c’è un esercito di invisibili, almeno a giudicare dal programma di governo, detto PRS, presentato oggi in Consiglio Regionale dalla rediviva Giunta Formigoni. Sono gli uomini e le donne migranti, più di 600mila in tutta la regione e in città come Milano, Brescia o Bergamo ben oltre il 10% della popolazione metropolitana.
Ogni dato disponibile, oltre che il buon senso, ci conferma che si tratta di una presenza dal carattere stabile e non transitorio. Dall’inserimento nel mondo del lavoro, dove di solito svolgono i lavori più umili e peggio retribuiti, all’apertura di imprese, circa 15mila nel solo capoluogo, fino al dato forse più eloquente, cioè la crescente presenza di studenti stranieri nelle scuole lombarde, che solo a Milano città rappresentano l’11,6% del totale.
Insomma, la Lombardia e le sue città stanno cambiando, anzi sono già cambiate. La multietnicità non è una possibilità futura, ma una realtà presente. Eppure, nelle oltre cento pagine del programma di governo del centrodestra lombardo non c’è nemmeno l’ombra di tutto ciò, neanche un riga, una parola o un accenno. In altre parole, non c’è una politica, un’idea e una strategia.
Un vuoto politico che fa il paio con il protagonismo di taluni esponenti del centrodestra lombardo, in primis della Lega e di An, quando si tratta invece di lanciare invettive xenofobe e razziste contro gli immigrati dalle pagine dei giornali o dalle tribune televisive. Oppure, quando nel corso degli anni si trattava di inserire norme discriminatorie in alcune leggi regionali, come nel caso dell’accesso ai bandi per l’assegnazione di case popolari.
Un ordine del giorno presentato oggi da Rifondazione Comunista e firmato anche da consiglieri regionali dei Verdi, dei DS, del PdCI e dallo stesso Sarfatti, denuncia questo stato di cose, chiedendo che vengano definite e messe in campo una politica attiva e positiva di inclusione e delle corrispondenti risorse finanziarie. In particolare si chiedeva di rifinanziare la legge regionale 77/89, per sbloccare le risorse a favore degli enti locali per interventi abitativi a favore della popolazioni rom, di avviare l’iter per il riconoscimento del diritto di voto ai cittadini immigrati e di sollecitare il Ministero degli Interni a procedere alla chiusura dell’infamia del Cpt di Via Corelli di Milano.
Ma il centrodestra lombardo continua a fare orecchie da mercante, a quanto pare poco interessato alla società lombarda realmente esistente e ai problemi che vivono tutti i giorni i suoi cittadini, vecchi e nuovi, mentre non sembrano mancare le energie nella lotta per la spartizione delle nomine nella sanità, che tanto stanno a cuore sia a Formigoni che a Cé. Uno spettacolo triste e sempre più insopportabile, che ci riconferma nella convinzione che un’alternativa a questo governo regionale non può aspettare altri cinque anni.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, Daniele Farina e Piero Maestri, pubblicato su il Manifesto del 17 nov. 2005 (pag. Milano)
Questa notte circa 200 immigrati hanno occupato a Milano uno stabile di proprietà privata, abbandonato da anni, che si trova in Via Lecco 9. Si tratta di immigrati provenienti dai paesi del Corno d’Africa - eritrei, etiopi, sudanesi, somali - praticamente tutti in possesso di un permesso di soggiorno, in quanto rifugiati politici. Il consigliere regionale, Luciano Muhlbauer, il consigliere provinciale, Piero Maestri, e il consigliere comunale, Daniele Farina, di Rifondazione Comunista, erano presenti questa mattina nello stabile occupato.
Esprimiamo anzitutto la nostra solidarietà a questi uomini e a queste donne che hanno dovuto occupare uno stabile in centro per comunicare alla città la condizione disumana e di degrado a cui sono costretti. Da lungo tempo sopravvivevano come potevano nell’ex-caserma di via Forlanini, forzati alla convivenza con topi e altri simpatici animaletti, senza riscaldamento e senza assistenza sanitaria. Ora che l’inverno bussa alle porte hanno deciso semplicemente di reagire e di chiedere che qualcuno intervenga.
Finora soltanto qualche associazione e qualche centro sociale si sono occupati di loro. Dal Comune, invece, poco o nulla. Eppure sono in Italia regolarmente, provengono da zone di guerra, il loro status di profughi è riconosciuto dallo Stato italiano. Ma, e sta qui l’inghippo, secondo l’attuale normativa non possono lavorare, mentre lo Stato non provvede alle esigenze abitative. Cose che non accadono nemmeno nella vicina e rigorosa Svizzera. Conclusione? Si trovano in uno stato di abbandono che porta diritto al degrado. E in questo senso, i 200 di Via Lecco sono semplicemente la punta di un iceberg.
Il fatto che in Italia manchi tuttora una legge sul diritto d’asilo degna di questo nome non può certo giustificare il disinteresse. O peggio ancora, la riduzione di un problema sociale a questione di ordine pubblico. Anche oggi, purtroppo, esponenti del centrodestra milanese e lombardo non perdono l’occasione per aggredire verbalmente i rifugiati, dimostrando così anzitutto la loro colpevole ignoranza rispetto a ciò che avviene nella città reale.
Ora c’è un’emergenza. Va evitata prima di tutto ogni soluzione di forza, come uno sgombero violento. E, soprattutto, si apra immediatamente un percorso che coinvolga tutte le istituzioni presenti sul territorio e che trovi una soluzione abitativa, umanamente decente, per questi uomini e queste donne. Le condizioni ci sono tutte, manca soltanto la volontà politica: ci auguriamo che nessuno si permetta di trasformare questa emergenza in occasione per una pessima campagna elettorale.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 18 nov. 2005 (pag. Milano)
Sembra proprio che qualcuno abbia deciso che l’occupazione di Via Lecco da parte di 200 rifugiati africani debba essere drammatizzata per forza. Continuano i toni apocalittici da parte di esponenti del centrodestra, mentre il Comune di Milano ha oggi persino negato il passaggio di un mezzo dell’Amsa per ritirare l’immondizia che gli occupanti avevano raccolto.
Gli occupanti hanno chiarito sin dal primo momento che il loro scopo non è rimanere in quello stabile, bensì lanciare un grido d’allarme sulla loro situazione e chiedere una soluzione al loro problema. Insomma, che qualcuno dica loro dove passare le notti in maniera decente e umana.
E che le cose stanno così lo sanno tutti, ma proprio tutti.
Non a caso la Questura di Milano ha scelto finora di muoversi con moderazione e senso di responsabilità, evidentemente consapevole che non siamo di fronte a un problema che possono risolvere le forze di polizia, ma che richiede l’intervento della politica. Tuttavia, è evidente che il centrodestra milanese sta invece esercitando forti pressioni politiche affinché il tutto finisca con uno sgombero entro le prossime 24 ore. E poi? Semplice, la questione non si risolverebbe, ma si sposterebbe di qualche chilometro.
Il problema in Via Lecco non si chiama legalità, bensì emergenza umanitaria. Se anche gli amministratori di Milano accettassero questa palese verità, le soluzioni, magari anche quelle transitorie, si troverebbero in poco tempo. Insistere invece sulla strada della campagna elettorale con ogni mezzo, porta semplicemente alla moltiplicazione dei conflitti e dei problemi.
Oggi l’assessore Maiolo ha finalmente incontrato una delegazione dei rifugiati politici di Via Lecco. Lo ha fatto controvoglia, costretta dalla civile determinazione dei migranti e dall’insostenibilità della posizione iniziale assunta dal Comune. Non si è nemmeno presa la briga di avvisare dell’appuntamento i diretti interessati, che ne sono venuti a conoscenza ieri sera attraverso terzi. Ma ci sono andati lo stesso, nella speranza di trovare risposte nuove.
All’interprete di fiducia dei migranti, un volontario del Naga, è stato impedito di partecipare. Il clima era pessimo e l’annunciata proposta del Comune è di fatto una non proposta. Ovvero, prima i rifugiati dovrebbero abbandonare lo stabile di Via Lecco per poi, ognuno individualmente, presentarsi negli uffici comunali competenti, dove verranno valutati i singoli casi. Insomma, all’assessore Maiolo, più che a risolvere il problema, sembra interessata a un po’ di pubblicità per poter tornare al più presto all’invocazione dello sgombero.
Difficile pensare che così possano nascere delle soluzioni vere. E sicuramente non hanno aiutato le prese di posizione dei Ds milanesi, prima silenti e assenti e ora rumorosamente schierati con una legalità cieca e a prescindere. In questo clima, le stesse parole misurate del questore Scarpis, che da giorni ripete che il problema non è l’ordine pubblico, finiscono con l’essere una predica nel deserto.
Cosa deve succedere perché il Comune inizi a considerare la tutela dei diritti umani più importante della difesa dei diritti di proprietà di un’immobiliare che da oltre un decennio mantiene vuoto e degradato lo stabile di via Lecco?
Ora non vanno lasciati soli questi rifugiati. Occorre che la politica e tutto l’associazionismo si attivino per fermare il precipitare della situazione, ovvero il ritorno dell’ipotesi dell’azione di forza, che nulla risolverebbe e che semplicemente rigetterebbe gli uomini e le donne di Via Lecco nell’invisibilità e nell’abbandono.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Per i rifugiati di via Lecco il bilancio della giornata odierna è fortemente contraddittorio. Da una parte vi sono stati segnali positivi, che indicavano la direzione giusta su cui lavorare, fuori dalle logiche emergenziali. Questo sicuramente è il caso dell’incontro tenutosi nel primo pomeriggio in Prefettura. Dall’altra, tuttavia, vi sono i segnali per nulla incoraggianti che provengono ancora oggi dal Comune di Milano. Insomma, siamo in piena situazione di stallo.
Ancora una volta il Comune si è trincerato dietro alle solite proposte che nulla risolvono. Anzi, i rifugiati prendano il telefono e chiamino l’ufficio di via Anfossi o quello della Stazione Centrale. E’ davvero incredibile! Ed è difficile non vedere nell’immobilismo dell’amministrazione comunale la presenza di qualche veto politico pregiudiziale proveniente da una parte del centrodestra milanese.
Sono questo stallo e questa inerzia che oggi rappresentano il principale ostacolo per una soluzione positiva della vicenda di via Lecco e che impediscono di affrontare l’insieme del dramma umano e sociale delle migliaia di rifugiati presenti a Milano.
Ora occorre che prendano l’iniziativa direttamente le associazioni, che aprano loro un tavolo di confronto con gli occupanti di via Lecco e che si definiscano insieme le strade da percorrere. Soltanto in questa maniera sarà possibile uscire dall’impasse.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Giorno Milano del 2 dic. 2005
I 250 rifugiati africani di via Lecco, dopo essere stati al centro di tante polemiche dal sapore pre-elettorale, rischiano ora di ripiombare nel dimenticatoio. E questo sarebbe davvero l’epilogo più tragico e inaccettabile dell’intera vicenda.
Ricordiamo ancora una volta chi sono i 250 cittadini stranieri di via Lecco. Sono tutti regolari in Italia, sono scappati dalle guerre che infestano i paesi del corno d’Africa. Alcuni provengono da quel Darfur sudanese, che tanto aveva commosso l’opinione pubblica italiana un po’ di tempo fa. Arrivati in Italia hanno fatto la fine di molti altri come loro, cioè accolti perché profughi, ma poi abbandonati a loro stessi. Nel caso in questione erano finiti a sopravvivere in una ex-caserma in zona Forlanini, tra immondizia, freddo e topi. Sono in realtà la punta di un iceberg, perché i rifugiati a Milano sono circa tremila. Non a caso, quella ex-caserma ha già iniziato a ripopolarsi con altri uomini e donne, disperati quanto loro.
Insomma, non siamo di fronte a un’emergenza passeggera che si possa affrontare con qualche mese di ospitalità notturna in dormitori sovraffollati e nemmeno sufficienti per tutti. Si tratta invece di una faccenda annosa, mai affrontato nella sua dimensione e nella sua drammaticità reali. E non basta tirare in ballo le gravi responsabilità della politica nazionale, cioè l’assenza di una legge organica sul diritto d’asilo e la conseguente confusione legislativa. Vi è una indubbia responsabilità locale, anzitutto nell’aver chiuso gli occhi per troppo tempo.
Ora serve un piano straordinario di intervento. E per fare questo bisogna sedersi attorno a un tavolo, con tutte le istituzioni e le associazioni, ed essere disponibili al confronto senza veti preventivi. Cioè, esattamente quello che finora è mancato, poiché il Comune si è arroccato in una sorta di autismo politico. Insomma, smettiamola di ripetere, come un disco rotto, il ritornello della legalità. Non c’entra proprio nulla. Affrontare finalmente il problema per quello che è sarebbe un ottimo servizio non soltanto alla solidarietà, ma anche alla città, poiché l’abbandono e il degrado sono maledettamente contagiosi.
Non dimentichiamoli dunque. La situazione in via Lecco si fa difficile. Non c’è acqua, né riscaldamento e la situazione sanitaria è preoccupante. Diverse associazioni si stanno muovendo, ma manca all’appello la politica. Occorre sbloccare urgentemente il confronto con il Comune e costruire una soluzione vera e duratura, ma nel frattempo si garantisca a questi profughi almeno l’assistenza primaria. Non si tratta di una gentile concessione, ma di un preciso dovere di civiltà.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 3 dic. 2005
Quanto è lontana Bari da Milano. Lì un sindaco si batte contro l’apertura del Cpt, invitando persino alla disobbedienza istituzionale. A Milano invece, città di fatto multietnica, dove il 14% della popolazione residente è immigrata e oltre un alunno su dieci nelle scuole cittadine è figlio di migranti, la giunta di centrodestra pratica una sorta di scontro di civiltà in salsa meneghina. E che dire dell’opposizione, cioè dello stesso schieramento politico del sindaco di Bari? Se escludiamo Rifondazione e qualche volta i Verdi e Comunisti italiani, sembrano prevalere perlopiù gli imbarazzi e i balbettii, per non parlare della vera e proprio sindrome bolognese che cova in casa DS.
Il risultato è che a Milano si è disegnata una sorta di geografia dei diritti negati, fatta di un lungo elenco di vie cittadine a simboleggiare il disastro della politica della “tolleranza zero”. Via Corelli, dove si trova il Cpt che a primavera ha visto la sacrosanta rivolta dei migranti reclusi. Via Capo Rizzuto, dove si trovava la baraccopoli abitata da rom e rasa al suolo senza troppi complimenti dalle ruspe del sindaco Albertini. Via Quaranta, sede di una scuola araba chiusa a settembre dal comune, in seguito alle parole scagliate dal signor Magdi Allam, che accusava i suoi oltre 300 studenti di essere niente di meno che dei futuri kamikaze.
E ora si è aggiunta all’elenco via Lecco, dove si trova lo stabile occupato da 250 rifugiati politici. Uomini e donne scappati dalle guerre che infestano i paesi del corno d’Africa e una volta arrivati in Italia hanno fatto la fine di molti altri come loro, cioè accolti perché profughi, ma poi abbandonati a loro stessi. Nel caso in questione erano finiti a sopravvivere in una ex-caserma sulla strada per l’aeroporto, tra immondizia, freddo e topi. Sono in realtà la punta di un iceberg, perché i rifugiati a Milano sono circa tremila. Non a caso, quella ex-caserma ha già iniziato a ripopolarsi con altri uomini e donne, disperati quanto loro.
La loro occupazione è un sorta di grido d’allarme, che ha sbattuto in faccia alla città la cruda realtà. E allora, apriti cielo! Politici di centrodestra e assessori a gridare allo scandalo e invocare lo sgombero. Ad esprimere subito solidarietà con i profughi e chiedere una soluzione, oltre ad Action che li accompagna nell’occupazione, soltanto Rifondazione, Verdi, Naga, Emergency e Arci, ai quali si sono aggiunti dopo una settimana Cgil e Casa della Carità. Per il resto è stato sufficiente che Dario Fo si recasse in via Lecco per scatenare l’ira dei dirigenti milanesi dei DS, fino a quel momento silenti, e far ripartire lo stucchevole ritornello della legalità.
E i profughi? Ebbene, continuano a stare in via Lecco, perché il comune si rifiuta di affrontare la situazione, ma nel frattempo il tempo passa e non c’è acqua, né riscaldamento e la situazione sanitaria si fa critica. I 250 di via Lecco non sono tuttavia una caso isolato in Italia. Anzi, come loro ci sono migliaia, vittime di una legge sul diritto d’asilo che non c’è.
In fondo Milano non è poi così diversa dal resto del paese. È semplicemente uno degli specchi possibili in cui leggere un presente pieno di nubi e un futuro tutto da costruire. Le aree metropolitane italiane stanno correndo velocemente verso un bivio. O si prosegue con una politica che esclude, clandestinizza e criminalizza, mentre contemporaneamente mette a disposizione delle imprese dei lavoratori ricattabili e sottopagati, per infilarsi così direttamente in un vicolo cieco per tutti e tutte, migranti o nativi che siano. Oppure si cambia strada, radicalmente.
A questo serve la manifestazione nazionale di oggi, a spingere dal basso, dai movimenti e dalla società civile verso un cambiamento radicale, le cui coordinate sono riassunte nella piattaforma del corteo. Serve a Milano e a Bologna, ma serve anche a Bari per rimanere meno sola. Serve a tutti noi, perché non vi può essere un progetto di società alternativo, laddove esiste un diritto speciale e non c’è uguaglianza di diritti di cittadinanza e sociali.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 4 genn. 2006 (pag. Milano)
Il Comune di Milano aveva motivato lo sgombero di natale degli oltre 200 rifugiati di via Lecco con il fatto di aver trovato delle soluzioni alternative. Secondo l’assessore Maiolo, queste sono da considerarsi addirittura “definitive” per i prossimi sei mesi. Insomma, tutto risolto e quanti continuano a criticare il comportamento degli amministratori milanesi, compreso il presidente della Provincia, Penati, sarebbero semplicemente dei sobillatori.
Oggi, su invito delle associazioni che sono sempre state vicine al dramma umano dei profughi, ho visitato tali “soluzioni definitive”, situate in via Pucci, via di Breme, via Ortles e via Anfossi. Da sottolineare che, su indicazione diretta dell’assessore Maiolo, come lei stessa mi ha confermato, mi è stato impedito fisicamente di accedere a tre luoghi su quattro, nonostante si trattasse di spazi di proprietà pubblica e gli stessi rifugiati ospiti mi invitassero ad entrare. Insomma, un consigliere regionale può visitare un carcere o un Cpt, ma non le strutture di accoglienza del Comune di Milano. La ragione di tale ostinata e apparentemente incomprensibile segregazione, denunciata già da giornalisti di diverse testate, si sarebbe presto scoperta.
In via Pucci, unico luogo che ho potuto visitare a fondo, una sessantina circa di rifugiati, uomini e donne, sono sistemati in una serie di container, in ognuno dei quali dormono tre o quattro persone. Ma la cosa più impressionante –anche dal punto di vista della sicurezza- è che questi container sono stati montati nello scantinato delle docce pubbliche!
In via de Breme, i 22 container che ospitano una settantina di rifugiati sono stati invece montati in un desolato spazio all’aperto, delimitato da un muretto e da un portone chiuso a chiave. Secondo quanto raccontato da alcuni ospiti, nel container adibito a mensa c’è anche un televisore, ma a loro viene permesso di vederlo soltanto durante di pasti.
Un po’ meglio va ai 67 rifugiati di via Ortles, poiché si tratta di un dormitorio comunale e dunque di uno spazio pensato e organizzato per ospitare essere umani.
Ma ora arriviamo a via Anfossi, dove la situazione riesce ad essere persino peggiore di quella di via Pucci. Si tratta di uno spazio comunale utilizzato nei mesi invernali per l’emergenza freddo, ma la cinquantina di rifugiati che vi si trovano sono stati stipati su una fila di brande nel corridoio davanti ai bagni e alle docce!
Definire questa situazione una “soluzione definitiva” non è soltanto cinismo, ma sfida il più elementare buon senso. Come si pensa che degli esseri umani possano vivere in queste condizioni per almeno sei mesi? E, soprattutto, che fine a ha fatto il milione di euro stanziato dal governo per l’accoglienza dei profughi? E’ servito per montare container negli scantinati e per sistemare brande nei corridoi?
Il Comune di Milano si sta comportando come un affittacamere abusivo e ogni giorno che passa alzo un po’ di più il livello della polemica politica. E questo lascia francamente sconcertati e pone degli interrogativi seri fino a dove vuole spingere questo scontro sulla pelle di uomini e donne che altro non hanno fatto che scappare dalla guerra.
Invece, soluzioni umane e possibili ci sarebbero. La Provincia, che non ha mai ricevuto fondi dal governo, ha avanzato delle proposte concrete e il Prefetto si è detto disponibile a convocare un tavolo interistituzionale, ma mancano all’appello gli amministratori milanesi, evidentemente accecati da una campagna elettorale senza quartiere.
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