Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Nel nostro Paese assistiamo continuamente a campagne d’allarme che creano “emergenze” e additano capri espiatori. La violenza e l’uccisione di una donna a Roma, da parte di un uomo, ha dato il via ad una criminalizzazione di massa. Essendo l’uomo rumeno, colpevole uno, colpevoli tutti. Odio e sospetto alimentano generalizzazioni: tutti i rom vengono così trasformati in ladri e assassini, tutti i rumeni vengono trasformati in rom e quindi… espelliamo dall’Italia tutti i rumeni!! Politici vecchi e nuovi, di centro-destra e di centro-sinistra fanno la gara a chi urla più forte, denunciando l’emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati del Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati gravi sono, oggi, ai livelli più bassi degli ultimi 20 anni. Un omicidio su quattro viene commesso in casa: nel 70% dei casi la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale durante la propria vita e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno.
Ma cosa si grida in tv e in Parlamento? Si crea il mostro (oggi i rumeni, ieri i musulmani, prima ancora gli albanesi) invece di impegnarsi ad eliminare le vere cause del panico e dell’insicurezza sociali: l’aumento di povertà e precarietà. Da una parte si fanno leggi speciali per favorire le espulsioni, si dà la colpa a popoli interi per i crimini di singole persone, in nome di una politica che promette sicurezza ma che chiede in cambio la rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; dall’altra, si lasciano in vigore leggi, come la Bossi-Fini, che usano tutto questo per fornire manodopera immigrata e ricattabile a italianissimi imprenditori.
Non abbiamo bisogno di leggi speciali: la nostra Costituzione è la base su cui si costruì il patto di convivenza civile che ha cercato di far crescere in Italia una democrazia ricca di partecipazione popolare, pluralismo, cultura del bene comune. Quel patto deve essere rafforzato e rinnovato di fronte alle modificazioni della società, all’emergere di nuovi soggetti sociali, bisogni e diritti. Proprio nello spirito con cui è stata scritta la Costituzione possiamo trovare anche oggi le risposte ai problemi che nascono.
Bisogna rileggere questa nostra Carta nella nuova situazione sociale attuale e cioè quella di una società multietnica che prova a trasformarsi in multiculturale, con la sicurezza più che la speranza di ritrovare ancora una volta nei valori della Resistenza, e nella tutela dei diritti la forza per fare chiarezza, anche contro quelle derive razziste che un cattivo governo di questo processo sociale naturalmente possono favorire.
Tutto questo ci riguarda: non staremo in silenzio. Sentiamo il dovere di denunciare e lottare contro ogni forma di discriminazione, manifesta o nascosta, perché crediamo che ognuno abbia il diritto alla libera circolazione e a scegliere il luogo in cui vivere, per migliorare il presente e contribuire alla costruzione del futuro di tutti.
Noi non condividiamo la sicurezza declinata, com’è oggi, in una irragionevole repressione, ma l’intendiamo come impegno ad assicurare le condizioni per una serena convivenza con tutti, senza distinzione di genere e provenienza; come risoluzione delle ingiustizie che contraddistinguono l’attuale mondo del lavoro, campo di battaglia sul quale cresce la contrapposizione tra italiani ed immigrati.
Crediamo che l’immigrazione non sia semplicemente un problema di sicurezza, ma un’esigenza legata alla ricerca di una vita migliore per sé e la propria famiglia. Un percorso che Cinisello come molte altre città del Nord Italia ha affrontato in passato, crescendo proprio grazie all’accoglienza di nuovi cittadini.
Ci impegniamo a promuovere il dialogo tra le diverse culture mediante la creazione di incontri e ambiti di interscambio, dove i valori, le idee e le credenze delle persone si possano incontrare per costruire un dialogo tra la grande varietà e ricchezza di modi di vivere e trovare così i punti in comune che, al di sopra di ogni differenza, noi crediamo si trovino nel cuore dei diversi popoli e individui.
Chiediamo a singoli, associazioni, movimenti, parrocchie di Cinisello Balsamo di condividere con noi questo percorso studiando insieme le modalità.
Primi Firmatari:
Arci Anomaliae; Associazione Soleluna; Associazione United Cultures Milano; Giovani Comunisti Provincia di Milano; Rifondazione Comunista - Cinisello Balsamo; Sinistra Democratica - Cinisello Balsamo; Verdi - Cinisello Balsamo; Partito dei Comunisti Italiani - Cinisello Balsamo; A.D.E. Artisti Dell’Errore - ARCI “La Quercia”; Arci Milano; Coordinamento Pace; Ass. Sesto Continente; Caritas - Cinisello Balsamo; Fabio Raisi; Davide Meroni; Cooperativa sociale Puntoeacapo; Luciano Muhlbauer - Consigliere Regionale Prc-Se.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 15 febbr. 2008
Quello che maggiormente colpisce nell’attuale confronto e dibattito nella sinistra, compreso nel nostro partito, è l’evidente impreparazione di fronte alla situazione. Certo, i tempi esatti e le modalità concrete non sono mai prevedibili, ma le tendenze di fondo che si esplicitano nell’odierna accelerazione erano e sono conosciute.
Eppure, di fronte all’annuncio veltroniano che il PD avrebbe corso da solo e che nella prossima legislatura intende concordare con Berlusconi le riforme elettorali e istituzionali, il disorientamento in ampie parti dei gruppi dirigenti delle sinistre era palese. Le dichiarazioni in stile “per favore non lasciarci”, salvo poi reagire da fidanzato respinto e offeso, erano paradigmatiche.
Tuttavia, qui il punto non è sparare sul quartier generale e neppure disquisire se in astratto era preferibile avere un centrosinistra unito per contrastare l’ascesa delle destre, bensì essere consapevoli del fatto che oggi prendono corpo politico e culturale quelle tendenze epocali che affondano le loro radici nelle sconfitte del movimento operaio dei decenni passati e nelle trasformazioni strutturali e sociali dell’epoca neoliberista. Insomma, i nodi vengono al pettine e con essi l’irrisolta questione della crisi della sinistra.
L’ex sinistra moderata, in realtà, una risposta al problema la sta dando, dichiarando storicamente superata l’ipotesi stessa di un progetto alternativo di società e impegnandosi in una prospettiva di ridisegno in chiave “americana” del sistema politico e istituzionale. Un progetto di medio periodo, che spiega perché nella presente campagna elettorale l’obiettivo primario del PD non sia la competizione con le destre per il governo, bensì l’eliminazione o la marginalizzazione –che sono poi quasi la stessa cosa- della sinistra. In fondo, anche le svolte filo-securitarie del 2007 e la lucida ostinazione nel disapplicare i punti qualificanti del programma di governo dell’Unione, con il conseguente logoramento delle sinistre, raccontavano già la medesima storia.
Ebbene, il progetto del PD non è campato per aria e non è privo di efficacia politica e fascino elettorale. Sottovalutarlo o pensare che sia sufficiente denunciarne ad altra voce la natura regressiva, sarebbe un errore madornale. No, dobbiamo urgentemente fare i conti con noi stessi, con i nostri ritardi e le nostre involuzioni, perché mentre il PD una strategia e un progetto ce li ha, noi non abbiamo più né l’una né l’altro.
E forse dovremmo partire proprio da una piccola operazione verità, cioè iniziare finalmente a chiamare le cose con il loro nome. In questo senso, non servono reticenze rispetto all’esperienza di governo e alla nostra linea politica di allora. Servono invece chiarezza e capacità autocritica. E questa non è certo una richiesta di qualcuno che ai tempi del congresso di Venezia era in disaccordo con l’impianto strategico maggioritario, ma piuttosto un’impellente necessità rispetto ai nostri tanti militanti ed elettori delusi e demotivati. Oggi, il problema principale di Rifondazione e di tutta la sinistra è quello di riuscire a riconquistare la credibilità perduta. E parlare chiaro e rimettere in sintonia le parole con i fatti è un punto di partenza obbligato.
La stessa chiarezza ci vuole anche per il futuro. Cioè, la scelta dell’autonomia della sinistra non può essere una mossa tattica o una furbizia elettoralistica, magari nell’illusione che, passata la bufera, tutto tornerà come prima. Sarebbe un po’ come vincolare l’esistenza della sinistra alla benevolenza del PD. In altre parole, sarebbe semplicemente un altro modo per suicidarsi.
Ecco perché il nuovo soggetto della sinistra non dovrà essere né un semplice assemblaggio dell’esistente, né una mera creatura dei vertici politico-istituzionali. Seppure nel quadro imposto dalle incombenti elezioni, occorre lavorare sin d’ora nella giusta direzione, nella consapevolezza che si tratta di un processo che deve proiettarsi verso l’avvenire.
Una nuova soggettività della sinistra, degna di questo nome, potrà avere linfa vitale, cioè consenso e partecipazione popolare, soltanto nella misura in cui segna delle discontinuità. Essa dovrà essere, nelle parole e nella pratica, un fatto nuovo, aperto ai movimenti sociali e alle giovani generazioni, e, soprattutto, spostare il baricentro politico dalle istituzioni alla società, immergendosi nelle condizioni di vita reali dei lavoratori e dei ceti popolari e sperimentandosi al calore dei conflitti sociali.
Questa ci pare sia la vera posta in gioco per cui vale la pena investire ancora energie, dibattere e anche scontrarsi nelle riunioni politiche. Ed è per questo che non riesco ad appassionarmi fino in fondo al nostro dibattito sul simbolo, che, beninteso, è di enorme importanza e dignità, ma che rischia, così com’è, di non centrare il bersaglio. Ovvero, oggi il problema non è tanto il simbolo, quanto invece la sostanza politica e sociale che esso pretende rappresentare.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 5 aprile 2008 (pag. Milano)
Un’altra settimana sta per concludersi, ma per Milano non è stata una settimana qualsiasi. Il contrasto apparente tra i trionfalismi per l’Expo, supposta cura per tutti i mali della metropoli, e il realismo misero dello sgombero della baraccopoli della Bovisasca, con le centinaia di uomini, donne e bambini costretti a vagare per le strade, è qualcosa di più di una semplice notizia di cronaca. È piuttosto una metafora dell’oggi, della città esistente e di quella futura.
Nemmeno l’ipocrisia sembra più fare scandalo, quasi fosse divenuta una virtù della modernità. E così, il sindaco elargiva parole mielose di gratitudine a un’Africa lontana, mentre la sua amministrazione procedeva all’espulsione di centinaia di profughi di guerra africani dai dormitori comunali. Nulla di straordinario, per carità, succede tutti gli anni. E poi, l’inverno è finito e quindi si può tornare tranquillamente a dormire nelle aree dismesse.
La vetrina luccicante da esibire e la povertà da nascondere sotto il tappeto. Le due facce che disegnano un’unica medaglia, quella di una società dove le differenze sociali si acutizzano e di una città sempre più ostaggio degli interessi di pochi. Il sindaco e il suo vice fanno il loro mestiere, il primo si occupa della buona riuscita degli affari, il secondo di vendere percezione di sicurezza e di castigare gli esclusi e gli oppositori.
Poi c’è il cardinale, che ha messo in imbarazzo il sindaco, ricordandogli che esistono anche e soprattutto i diritti umani. Due giorni dopo ha spiegato a Confcooperative che i contratti di lavoro “al massimo ribasso” e precari non vanno bene. A dire il vero, non è la prima volta che si espone, anzi è una delle poche voci autorevoli della città che parla della sempre più esplosiva questione sociale, cioè del lavoro, della casa, delle periferie, dell’esclusione e delle solitudini urbane, senza cedere alla demagogia securitaria.
Il cardinale fa molto di più del suo mestiere, dicendo quello che molti altri dovrebbero dire. Anzi, riempie un vuoto di coscienza critica e di iniziativa politica. In questi giorni, quasi quasi, veniva voglia di urlare “viva il Cardinale, abbasso il Sindaco!”. Ma, con tutto il rispetto e l’apprezzamento per lui, non possiamo mica finire con una riedizione moderna dei guelfi e dei ghibellini e così dobbiamo occuparci di noi, di quelli di sinistra.
La sinistra si è sentita poco. Sull’Expo quasi per nulla, sommersa com’era dall’assordante plauso bipartisan. Certo, ci sono state alcune prese di parola, ma che in fondo hanno semplicemente confermato quello che sapevamo già, cioè che il dibattito è ancora da fare. Anche sullo sgombero della Bovisasca c’è stato troppo silenzio pubblico e non è tutta colpa di un’informazione cittadina che ormai concede poco fuori dal duopolio PdL-Pd.
L’assenza di iniziativa e chiarezza della sinistra in questa settimana è paradigmatica dello stato di cose presente, poiché si è prodotta esattamente su due questioni che attengono intimamente all’idea e al progetto di città e di società. Le trasformazioni urbanistiche dell’area metropolitana sono di fatto guidate da pochi, ma potenti interessi privati che disegnano una metropoli a misura di affari, dove chi abita il territorio e vi lavora è ridotto a spettatore rispetto alle decisioni che contano, a produttore a buon mercato di ricchezze altrui e a consumatore frenetico. E chi non si adegua o chi non ce la fa diventa un fastidio e un problema di ordine pubblico.
Ecco perché è determinante che la ricostruzione di una soggettività della sinistra parta da un’altra idea di città, dove vengono prima le persone e dopo il business, prima il trasporto pubblico e dopo le colate di asfalto, prima le periferie popolari e dopo le new towns per i benestanti, prima l’inclusione e la giustizia sociale e dopo le polizie.
Senza un’altra idea di città saremo condannati alla subalternità. Senza la ripresa della mobilitazione e del conflitto non rimane che l’impotenza. E senza il protagonismo e la partecipazione dei soggetti sociali e della cosiddetta “sinistra diffusa”, fatta di comitati, associazioni, realtà sindacali e centri sociali, non si va da nessuna parte.
Anche i più incalliti pessimisti, tra i quali mi annoveravo, non prevedevano un risultato tanto disastroso. E non l’ha fatto nemmeno il compagno che mi aveva detto “questa volta non voto”, disgustato e disilluso dopo i due anni di governo Prodi, o quello che aveva ceduto alla tentazione del “voto utile”, credendo davvero alla favola veltroniana della pareggio possibile. Ambedue non avevano trovato le motivazioni sufficienti per esprimere un voto a favore della “Sinistra l’Arcobaleno” e ambedue hanno cercato una via per esprimere nelle urne il proprio disagio e lanciare un segnale politico. E ambedue sono rappresentativi dell’atteggiamento prevalente degli elettori di sinistra, cioè l’astensione e il voto al Pd, con l’aggiunta che al Nord alcuni hanno votato pure per la Lega.
Che di una vera e propria disfatta si tratti, si può peraltro evincere da tre fatti. In primo luogo, prendendo i dati della Camera, neanche sommando tutti i voti di tutte le liste riconducibili alla “sinistra radicale” di due anni fa, cioè oltre SinArc (3,1%) anche Pcl (0,6%), Sinistra Critica (0,5%) e Per il Bene Comune (0,3%), ci si avvicina anche soltanto alla metà dei voti di allora. Ovvero, nel 2006 Prc, PdCi e Verdi ottennero complessivamente 3.898.460 voti e il 10,2%, mentre oggi SinArc, Pcl, S.C. e Bene Comune realizzano insieme 1.619.905 voti e il 4,5%.
In secondo luogo, dalle elezioni emerge un netto spostamento a destra del panorama politico italiano. La coalizione berlusconiana non solo dispone di una chiara maggioranza sia alla Camera che al Senato, ma al suo interno non c’è più la componente centrista dell’Udc, mentre la Lega ha rafforzato notevolmente le sue posizioni, grazie al suo exploit al Nord. E, da sottolineare, la campagna elettorale della Lega, specie nelle aree metropolitane, era giocata fortemente sui temi della sicurezza e della paura dell’immigrazione.
Infine, il Pd ha realizzato, forse oltre le sue aspettative, il suo obiettivo primario, cioè l’eliminazione della sinistra, come primo passo verso l’imposizione di un sistema bipartitico all’americana. In campagna elettorale, Veltroni è riuscito in un capolavoro politico, staccando la sua immagine da quella di Prodi, addossando alla sinistra la responsabilità del fallimento dell’esperienza governativa e, soprattutto, convincendo gli elettori di sinistra che il Pd potesse effettivamente battere Berlusconi. Una tesi spericolata e truffaldina, senza alcun fondamento reale, come hanno poi ampiamente confermato i risultati elettorali. Infatti, il Pd non ha tolto nemmeno l’ombra di un consenso alle destre e non ha fagocitato l’Udc, dirottando in cambio voti dalla sinistra e rimanendo sostanzialmente fermo a quello che avevano due anni fa Ds e Margherita.
Questa ci pare essere in sintesi la fotografia del terremoto che ha investito la sinistra nel nostro paese e da qui occorre partire per porsi la prima domanda: come mai è potuto accadere?
Non penso, in tutta franchezza, che la risposta sia che il popolo italiano abbia voluto decretare la fine e l’inutilità dell’esistenza di una sinistra nel nostro paese, ma piuttosto che la soggettività –o le soggettività- che si è concretamente presentato alle elezioni non era adatta e credibile. E non si tratta di una mera questione di simboli. Insomma, se c’era la falce e il martello sarebbe andata diversamente? Sì, forse un mezzo o un intero punto percentuale in più sarebbe arrivato, ma giusto per mitigare un po’ il disastro e forse consegnare qualche deputato, ma non sarebbe certo servito a rimuovere e far dimenticare i due anni precedenti.
Ebbene sì, perché questi ultimi due anni al governo sono stati devastanti, perché la sinistra ne è uscita sconfitta nella linea politica, nella credibilità e nei rapporti con i movimenti e i ceti popolari. E non sono stati due anni qualsiasi, bensì due anni che si sono consumati nel quadro di una dinamica sfavorevole di medio periodo, segnata dalla crisi continua della sinistra e dalla conquista dell’egemonia culturale delle destre. In altre parole, è come se fossero stati il colpo di grazia.
In campagna elettorale non abbiamo motivato e convinto neanche i “nostri”, perché non abbiamo risposto a questo scenario. La Sinistra l’Arcobaleno appariva come un cartello elettorale e un assemblaggio dell’esistente, fin dentro la composizione delle liste, senza un profilo chiaro e leggibile, senza una prospettiva per il futuro e senza innovazione.
Ora ci aspetta una fase difficile, irta di ostacoli. E ci sono due cose da evitare. La prima è la tentazione di attribuire il disastro alla cattiveria degli altri e non ai propri errori e insufficienze. La seconda è la concreta possibilità che lo stato delle cose produca semplicemente una sorta di deflagrazione della sinistra e una serie infinita di rese dei conti nelle stanze dei partiti.
Dire oggi, il fatidico giorno dopo, quello che bisogna fare esattamente è difficile e nessuno ha la ricetta in tasca. Ci vorrà riflessione, umiltà e ascolto. Ma una cosa è certa: un ciclo si è chiuso e la sinistra così com’è ha fatto il suo tempo. Occorre un fatto nuovo, una ripartenza, una sinistra nuova.
E un’altra cosa è certa: il processo di ricostruzione di una sinistra nuova non potrà essere il prodotto degli apparati e gruppi dirigenti esistenti, ma necessita di rinnovamento e, soprattutto, del calore della realtà sociale. Ovvero, della partecipazione e del protagonismo dei movimenti, dei lavoratori e delle tante realtà attive nella lotta sociale e nell’associazionismo.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato (con altro titolo) su Liberazione del 26 aprile 2008
Formigoni non andrà a Roma e la Lombardia non tornerà alle urne in autunno. Sembra essere questa la conclusione del tormentone lombardo, sebbene la parola fine non sia ancora stata scritta. Ciononostante, occorre azzardare una prima riflessione, perché un tale esito avrebbe rilevanti conseguenze sullo scenario politico lombardo.
Anzitutto, saremmo di fronte a una sconfitta personale per il potente governatore. Non solo si è esposto parecchio, annunciando il suo trasloco nella capitale e candidandosi di fatto alla leadership futura del centrodestra, ma non è nemmeno la prima volta che tenta il salto nella politica nazionale. Tutti ricordano il suo progetto centrista della lista del presidente ai tempi delle elezioni regionali del 2005, poi naufragato a causa del veto berlusconiano. Oppure la lunga e inconcludente telenovela all’insegna del “vado, anzi non vado”, di cui il presidente-senatore si rese protagonista l’anno successivo.
Questa volta, però, la situazione appariva diversa. Il tutto era stato preparato con estrema cura, c’era persino un patto con la Lega, che sembrava d’acciaio, e il centrodestra ha stravinto le elezioni. Ma allora, come mai è andato tutto storto per il capo di Cl? Semplice, ai suoi due tradizionali talloni d’Achille, se n’è aggiunto un terzo, quello fatale. In altre parole, per fermare Formigoni forse non sarebbe stato sufficiente l’intreccio tra l’ostilità conclamata di Berlusconi, che da sempre vuole tenerlo lontano da Roma, e le resistenze silenziose del possente sistema di potere ciellino, preoccupato per il futuro dei suoi affari lombardi, se non fosse intervenuta la significativa affermazione elettorale della Lega.
Ebbene sì, perché il cambio di mestiere del presidente impone le elezioni anticipate e, in tal caso, sarebbe impossibile negare alla Lega il candidato presidente ed è prevedibile un nuovo rafforzamento elettorale del Carroccio. Considerato quanto già successo il 13-14 aprile in Veneto, dove la Lega ha cannibalizzato parte del tradizionale elettorato di Forza Italia, si capisce che questo scenario trova l’opposizione di Berlusconi.
Insomma, se l’esito dell’affaire Formigoni è quello ipotizzato e se la nostra analisi è fondata, allora gli ultimi due anni della legislatura regionale si preannunciano densi di contraddizioni, con una Lega che cerca di massimizzare il suo exploit elettorale e con un Formigoni indebolito e quindi costretto a qualche rilancio.
In fondo, un terreno interessante per le opposizioni per tentare di rimontare la china e presentarsi all’appuntamento con il 2010 con una proposta credibile di cambiamento. Ahinoi, le prime parole dei dirigenti lombardi del Pd non fanno sperare bene, visto che non trovano di meglio che reiterare le offerte di collaborazione con Formigoni. Quindi, per Rifondazione è ancora più importante non disperdere il tempo e affrontare da subito, nelle parole e nella pratica, la ricostruzione di una presenza e di una prospettiva della sinistra alternativa in Lombardia.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato (con altro titolo) su il Manifesto del 24 maggio 2008 (pag. Milano)
La vera notizia del giorno non è che il “governo ombra” del Pd si sia riunito a Milano, bensì che lo abbia fatto al Pirellone, ospite di Roberto Formigoni. Una scelta simbolica e in politica i simboli parlano, meglio di tante parole.
La Lombardia è una terra che spesso ha anticipato, nel bene e nel male, i processi nazionali ed è così anche nel caso del progetto del Pd veltroniano. Qui l’Unione, cioè il centrosinistra, era stata affossata già nel 2006, a un solo anno dalle elezioni regionali e contestualmente con la nascita del governo Prodi. Da allora è stato un susseguirsi di voti favorevoli o astensioni sui provvedimenti principali del centrodestra, a partire dalla convergenza dell’allora Ulivo su una parte fondamentale del programma di governo di Formigoni, cioè la richiesta al governo nazionale di poteri particolari per Regione Lombardia.
L’idea che stava alla base delle scelte del Pd lombardo era tanto semplice, quanto inquietante: rompere non soltanto con la sinistra politica, bensì con ogni idea alternativa al modello politico e sociale formigoniano, nella prospettiva di risalire così la china elettorale e candidarsi ad amministrare la Lombardia così com’è.
In realtà, il bilancio di questi due anni di “dialogo” è per nulla edificante, poiché Formigoni ne è uscito rafforzato sul piano politico, mentre il suo solido sistema di potere ne ha tratto ulteriore legittimazione culturale e sociale. Ma, si sa, le illusioni sono dure a morire e così oggi Veltroni ha dato il suo imprimatur nazionale alla collaborazione tra Pd e Formigoni.
Non c’è da dubitare che il Presidente ciellino abbia apprezzato, perché un Pd collaborativo è più che mai utile nella situazione attuale, segnata dal contrasto con Berlusconi, dall’incalzare della Lega e dalla competizione con il Sindaco Moratti. Formigoni è costretto a qualche rilancio politico e ha bisogno di alleati. E allora si può discutere di tutto con il Pd, dagli affari dell’Expo fino alle necessità di Penati, bisognoso di un aiutino in vista delle elezioni provinciali.
Tutto ciò è comprensibile, ma è anche misero. È la riduzione della politica a contrattazione di quote di potere e, in ultima analisi, una resa di fronte agli interessi particolari che spadroneggiano in Lombardia. Di tutto ha bisogno la nostra regione, fuorché di grandi coalizioni di fatto che sterilizzano la dialettica democratica e bloccano ogni cambiamento e rinnovamento.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 22 luglio 2008 (pag. Milano)
Il Presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, è un fiume in piena. Da una settimana ormai è impegnato in un tormentone mediatico dal leitmotiv “c’è un pezzo di Rifondazione che vuole destabilizzare la maggioranza in Provincia” (vedi Corsera del 20 giugno). E nel calderone polemico ci finisce un po’ di tutto, dalle dichiarazioni del sottoscritto e di Nicotra fino agli affari sulle aree ex-Falck di Sesto San Giovanni, con l’ovvia conseguenza che ogni persona che non sia laureata in provinciologia non riesce più a capire dove stia l’oggetto del contendere. Ma forse è proprio questo uno degli obiettivi del Presidente, vero maestro nell’arte del rovesciare la frittata.
Il tutto iniziò il lunedì di settimana scorsa con un comunicato stampa, poi pubblicato anche da il Manifesto, in cui Penati attaccò frontalmente Nicotra e il sottoscritto, rei di averlo criticato. Ma in realtà le nostre dichiarazioni non c’entravano poi granché, come si evince facilmente dal fatto che le parole incriminate di Nicotra risalivano a una settimana prima, mentre le mie erano assolutamente identiche a quelle pronunciate pubblicamente tante altre volte. No, l’obiettivo della polemica era un altro, sebbene non dichiarato, cioè il congresso provinciale di Rifondazione Comunista, conclusosi 24 ore prima dell’attacco di Penati, in cui era stato approvato a larghissima maggioranza un ordine del giorno che impegnava la federazione milanese ad aprire immediatamente una verifica in Provincia, al fine di valutare se sussistessero ancora le condizioni per poter andare avanti.
E allora è molto più comodo, ma anche molto più sbagliato, cercare di anticipare i tempi e di buttarla in rissa, evitando la politica. E così Penati fa tutto da solo. Lui apre la sua personalissima verifica mediatica, indica i nemici e poi addirittura pretende di chiuderla con un perentorio “oggi non ci sono le condizioni per una crisi in Provincia”, sparato dalle pagine del Corsera. Caro Presidente, così non va!
Il profondissimo disagio rispetto alla politica che persegue il Presidente della Provincia, specie da un anno a questa parte, non appartiene soltanto a qualche esponente di Rifondazione e nemmeno ai soli delegati del congresso, bensì a una parte significativa di suoi elettori. Sì, “suoi” elettori, perché quanti e quante alle ultime provinciali avevano votato un partito di sinistra avevano votato anche per Penati Presidente. Certo, chi con convinzione e chi con meno convinzione, ma comunque lo ha fatto, consapevole che fosse maledettamente importante avere un’amministrazione di centrosinistra in un territorio, quello milanese e lombardo, egemonizzato e governato da tempo dalle destre. E nessuno era pazzo e quindi nessuno pretendeva l’impossibile, ma un presidio democratico e una profonda diversità dalle amministrazioni di centrodestra, questo sì.
Ebbene, sappiamo tutti che la Provincia ha fatto molte cose buone e che molti assessori, non solo quelli di Rifondazione, beninteso, stanno svolgendo un lavoro egregio e meritorio, ma tutto questo finisce nell’ombra o nell’irrilevanza quando vi è una continua sovrapposizione di esternazioni e atti politici di segno diverso o persino opposto da parte della massima carica dell’amministrazione.
Ci pare che il Presidente Penati sia giunto a conclusioni politiche analoghe a quelle di Veltroni, cioè che bisogna rompere con la sinistra e dialogare con la destra. Infatti, di fronte al preoccupante risultato negativo raccolto in Lombardia dalle allora forze di governo nelle elezioni amministrative della primavera 2007 non fu aperta una riflessione sulla deludente azione di governo nazionale, bensì applicato il principio che occorre rincorrere le destre sul loro terreno. Non a caso, fu nel mese di giugno dell’anno scorso che iniziarono le esternazioni anti-rom del Presidente e che in consiglio provinciale fu votato un ordine del giorno bipartisan Ulivo-Centrodestra sulla sicurezza. E come sempre quando rincorri qualcuno, prima o poi cerchi di superarlo e così, di recente, siamo arrivati addirittura al grottesco, con l’ideona di multare i musulmani che pregano per strada.
Oppure potremmo parlare dell’Expo 2015, dove crediamo il ruolo della Provincia non debba e non possa essere semplicemente quello di sostenere Formigoni contro la Moratti, ma dovrebbe essere quello di contrastare la marea speculativa che sta per abbattersi sull’area metropolitana e di restituire a chi abita e lavora sul territorio la possibilità di partecipare e decidere.
Insomma, per non farla troppo lunga, il Presidente Penati sta applicando una linea politica e istituzionale che c’entra ben poco con quella che fu votata dagli elettori quattro anni fa e che prescinde completamente dalla composizione della coalizione che amministra la Provincia. E, cosa ancora più preoccupante in prospettiva, che ha comportato il venir meno di un argine politico e culturale nei confronti dello strapotere delle destre.
In altre parole, di materia politica da verificare ce n’è in abbondanza –e non da oggi, a dire il vero- e l’esito non è in alcun modo predeterminato, poiché l’unica certezza è che così non si può andare avanti.
P.S. da molto tempo diverse realtà di Sesto San Giovanni, dalla Rete dei Comitati fino al circolo locale del Prc, stanno denunciando le possibili speculazioni sulle aree ex-Falck e la troppa accondiscenza nei confronti degli interessi di Zunino. Siamo felici che ora anche il Presidente Penati se ne sia accorto, ma questo non c’entra con il nostro discorso, bensì con il dibattito interno al Pd.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 8 genn. 2009 (pag. Milano)
A Gaza si continua a morire senza sosta, ma a Milano ci si scandalizza per altro. Cioè, per la preghiera islamica in piazza Duomo di sabato scorso, a cui aveva dato vita una parte dei manifestanti al termine del corteo organizzato dalla comunità palestinese lombarda.
La polemica, innescata dal solito De Corato, il verboso e sempre più noioso vicesindaco nazionalalleato, ha velocemente varcato i confini cittadini e occupa ormai da giorni le pagine nazionali del Corsera e di la Repubblica. E quindi, tutti quanti a dire la loro nel frullatore mediatico. Nulla di straordinario, si direbbe, se non fosse che il nocciolo duro della “polemica” ripropone un triste e inquietante scimmiottamento dello scontro di civiltà, dove all’Islam e ai musulmani viene assegnato immancabilmente il ruolo dei cattivi.
E così, quanti in Italia sostengono la tesi che Hamas –e per proprietà transitiva i palestinesi di Gaza tout court- è semplicemente un’organizzazione terroristica da eliminare con la violenza armata, ora gridano alla provocazione e al pericolo islamico se un centinaio di immigrati si raccoglie in preghiera davanti al Duomo, chiedendo persino di trascinarli in tribunale.
Ma per costoro, in fondo, quanto avviene in Palestina è soltanto un utile pretesto per tentare di “nobilitare” e alimentare una politica che essi perseguono da tempo. A Milano e in Lombardia, da parte di An e Lega anzitutto, la propaganda contro le moschee e il “pericolo islamico” è incessante e non risparmia niente e nessuno. Ogni voce, che sia quella di un laico o quella del cardinale Tettamanzi, che cerchi di riportare un po’ di buon senso viene regolarmente aggredita e tacciata di “buonismo” e di voler svendere l’identità occidentale e cristiana.
Per costoro c’è un unico modo per rapportarsi a una città che è cambiata, che è diventata più multiculturale e multireligiosa: il conflitto. E così, quando i fedeli islamici, esattamente come i fedeli di ogni religione, si riuniscono per pregare, allora scatta l’operazione “no alla moschea abusiva”. Quando poi cercano di dotarsi di un luogo di culto regolare, cioè in possesso di tutti i requisiti e permessi previsti dalla normativa, si passa alla fase 2 e si negano le autorizzazioni e si invocano i referendum preventivi. Figuriamoci se qualcuno si mette a pregare in centro città!
Secondo loro, ogni moschea, ogni aggregazione di islamici e ogni imam sono potenzialmente dei terroristi. C’è da dubitare seriamente che ci credano davvero a queste fandonie, ma l’esperienza recente ha insegnato che funziona egregiamente sul piano del consenso elettorale, così come ha funzionato la caccia al rom. E così, la meschinità di una politica ridotta a lotta per le poltrone con ogni mezzo si incontra con l’ipocrisia di quanti vedono soltanto la violenza dei razzi Qassam, ma mai quella di un’occupazione decennale che costringe un’intera popolazione a vivere chiusa in un recinto di cemento e che ora semina la morte all’ingrosso.
Tuttavia, in questa stucchevole polemica sulla preghiera si annida qualcosa di peggio e di più preoccupante, che nessuno in questi giorni sembra voler considerare. Andando avanti di questo passo, i nostri novelli crociati di provincia rischiano di produrre la classica profezia che si autoavvera, cioè di fornire qui e ora ai predicatori del peggior fondamentalismo islamico, allo stato assolutamente minoritari, gli argomenti e la credibilità che non hanno. In fondo, le macerie di questi anni di “guerra al terrorismo” di Bush e soci dovrebbero insegnare qualcosa.
Ecco perché, da laici incalliti, crediamo che il problema vero per Milano non sia qualche preghiera islamica in Duomo, bensì la miseria morale e la miopia dei suoi amministratori.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Aprileonline.info del 20 gennaio 2008
Siamo immersi in un terribile paradosso. Proprio quando i fatti del nostro tempo smentiscono sonoramente i profeti della "fine della storia" e del superamento definitivo di ogni bisogno di cambiamento e alternativa, la sinistra realmente esistente, almeno in Europa, sicuramente in Italia, si trova avviluppata nella più profonda delle sue crisi. Ed è crisi seria, di consenso politico, insediamento sociale, credibilità, progetto e identità.
Un paradosso denso di implicazioni inquietanti, come già ci hanno confermato i primi mesi seguiti alla disfatta politica ed elettorale della primavera scorsa. Cioè, una sinistra sostanzialmente impotente e afona di fronte alla crisi del capitalismo liberista e alla veloce regressione civile e morale che sta investendo la politica e la società, lascia di fatto campo libero al peggio.
Insomma, c’è un grande bisogno di sinistra, ma la sinistra così com’è oggi è fuorigioco, non serve e non evoca nemmeno speranze. In altre parole, è da rifare, da reinventare. Questo è lo stato delle cose e faremmo bene a dircelo in faccia senza troppi giri di parole. Ed è per questo che al Congresso di Rifondazione, quello di Chianciano, anche il sottoscritto avevo sostenuto e votato la mozione n. 2 “vendoliana”. Perché nominava il problema e proponeva di affrontarlo, invece di ritirarsi nel fortino assediato e di rifugiarsi nell’illusione che fosse sufficiente aspettare che la tempesta si calmasse.
Ri-costituire la sinistra in Italia, tuttavia, non è una questione di ingegneria politica o di accordi tra pezzi di gruppi dirigenti esistenti, come aveva peraltro ratificato il fallimento dell’Arcobaleno. È cosa necessariamente più difficile, articolata e ambiziosa e, soprattutto, presuppone una ripartenza dalla società e dai suoi conflitti, cioè dalla rottura della separatezza della politica. E presuppone un’altra cosa: partire dai contenuti, quello che classicamente si chiamava “programma” e “strategia”, e non dai contenitori. Detto altrimenti, occorre partire dalla domanda del “perché” un lavoratore, una giovane, un migrante eccettera dovrebbe impegnarsi nella sinistra o votarla, invece che dalla domanda del “dove” dovrebbe farlo.
In fondo, gli stessi avvenimenti dell’autunno scorso non hanno fatto che riconfermare tutto questo, a partire dal grande movimento di studenti, insegnanti e genitori, che non solo ci teneva alla sua autonomia, come fanno tutti i movimenti veri, ma guardava con enorme diffidenza tutto ciò che sapeva di partiti e di politico. E soprattutto, il dibattito e la discussione sulla sinistra non ha mai nemmeno incrociato quel movimento e gli uomini e le donne che lo componevano.
Sono passati soltanto pochi anni, ma rispetto al movimento nato a Genova nel 2001 sembra passato un secolo. Anche allora la diffidenza verso i soggetti partitici c’era, ma allo stesso tempo vi era anche il pieno riconoscimento dell’internità di Rifondazione al movimento. E quel movimento esprimeva, a modo suo, una grande domanda politica e rappresentava una straordinaria forza centripeta. Oggi, le cose stanno diversamente, allo stato non ci sono luoghi sociali, politici o di movimento che attraggano, che mettano in comunicazione forze diverse, plurali. Oggi a sinistra prevalgono le forze centrifughe, la dispersione e le solitudini, sia a livello politico, che a livello sociale.
In un quadro del genere, ridurre la questione del rifare la sinistra a un’operazione di scissione di Rifondazione in vista delle scadenze elettorali di giugno, appare dunque cosa modesta, ancora prima che sbagliata. È comprensibile certamente la fretta, il voler agire e anche il profondo disagio di fronte al cul de sac in cui l’attuale maggioranza di Rifondazione ha infilato il partito. Ma non è convincente il tipo di risposta offerta, segnata dal metodo politicista, troppo indeterminata politicamente e foriera di nuove dispersioni e divisioni.
Per questo, insieme a molti compagni e compagne di Rifondazione per la Sinistra, non parteciperò alla scissione, continuando dunque la battaglia iniziata a Chianciano, nel partito e nella società.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 12 marzo 2009 (pag. Milano)
Del pacchetto sicurezza, cioè del disegno di legge governativo “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, si è parlato molto, ma in realtà persino molta parte dei cittadini più sensibili ne conoscono soltanto quei frammenti che hanno avuto più eco mediatico.
E così, non solo si ignora largamente la vera portata della stretta securitaria contro i migranti, sia irregolari che regolari, contenuta nei 66 articoli del pacchetto, una sorta di galleria degli orrori, ma anche che il progetto non si limita alla sola immigrazione. Infatti, il ddl -approvato il 5 febbraio scorso dal Senato e ora all’esame della Camera- introduce altresì una serie di norme che riguardano più o meno direttamente il conflitto sociale e la libertà di espressione, ponendosi così in linea di continuità con le recenti iniziative restrittive in materia di diritto di sciopero e libertà di manifestazione.
Lasciamo stare in questa sede lo sdoganamento delle ronde, peraltro già anticipato con il decreto “anti-stupri” del 20 febbraio, oppure le varie norme che intensificano le sanzioni in tema di “decoro urbano”, nella sua accezione più ampia, per concentrarci invece su tre innovazioni altamente significative.
Anzitutto, vi è la reintroduzione nel codice penale di un reato abolito nel 1999: l’oltraggio a pubblico ufficiale, punibile con la reclusione fino a tre anni. E come se non bastasse, la definizione del reato è talmente vaga, cioè “chiunque offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale”, che non è difficile prevedere che si ripresenteranno i medesimi abusi che avevano motivato la precedente abolizione. Attenti dunque ai vostri slogan e alle vostre parole al prossimo corto, presidio o sciopero, perché potrebbero costarvi caro.
In secondo luogo, c’è la norma che prevede la sospensione cautelativa e lo scioglimento di “organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi”, qualora la loro attività abbia “favorito” la commissione di un delitto con finalità di terrorismo o di un reato aggravato dall’”eversione dell’ordine democratico” (ai sensi del decreto-legge n. 625/79). La sospensione viene disposta dal giudice nel corso del processo, ma lo scioglimento può essere ordinato dal solo Ministro degli Interni in seguito a sentenza definitiva.
Certo, a prima vista questa norma può apparire innocua per quanti agiscono alla luce del sole, ma poi basta richiamare alla mente i recenti e sempre più frequenti proclami di politici della destra, come De Corato, ma non solo, che tentano di accreditare le loro campagne politiche contro i centri sociali o i movimenti antagonisti con l’allusione che sarebbero contigui al terrorismo. In altre parole, sarà sufficiente che un condannato per le fattispecie di reato indicate abbia frequentato qualche volta un certo centro sociale o riunione pubblica e il Ministro potrà procedere allo scioglimento.
Infine, vi è il gentile contributo dell’Udc al pacchetto, cioè l’emendamento, ovviamente accolto, del Senatore D’Alia. Si tratta di un vero e proprio intervento censorio rivolto a internet, poiché prevede che se su un sito vengono pubblicati contenuti considerati apologia di reato, istigazione a delinquere o semplicemente un invito “a disobbedire alle leggi”, allora il Ministro potrà ordinare al provider di oscurare il sito entro 24 ore. Detto altrimenti, Facebook, You Tube o blog che sia, tutti a rischio censura. E soprattutto una pesante limitazione della libertà di espressione e di parola di ognuno e ognuna di noi.
Non abbiamo mai condiviso l’allarmismo di quanti gridano al lupo, al lupo di fronte a ogni difficoltà, ma quello che sta accadendo oggi, per giunta in maniera accelerata, contiene tutti gli elementi per poter parlare, armati di sano realismo, di una deriva autoritaria.
O più concretamente, siamo di fronte all’esplicitazione di che cosa significhi “uscire a destra dalla crisi”: non solo sei chiamato a pagare il prezzo in termini di lavoro, reddito, studio e condizione sociale, ma devi pure stare zitto e applaudire i potenti. E se proprio non ce la fai a tapparti la bocca, allora prenditela con lo straniero della porta accanto o con il barbone. Questo e non altro è il pacchetto sicurezza e sarebbe bene che nessuno e nessuna di noi lo dimentichi e che agisca di conseguenza.
qui sotto puoi scaricare il testo del “pacchetto sicurezza” all’esame della Camera
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