Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione e il Manifesto (pag. Milano) del 4 aprile 2006
Forse Rumesh Rajgama Achrige ce la farà a sconfiggere la morte. Non ce la fece invece Abdel Khalek Nakab due mesi fa. Apparentemente Abdel e Rumesh raccontano due storie diverse. Il primo aveva 37 anni, cittadino marocchino, ed era stato ucciso il 27 febbraio scorso da un colpo di arma da fuoco esploso da un vigilante privato in via Cavezzali, a Milano. Il secondo, comasco originario dello Sri Lanka, ha 19 anni ed è stato colpito alla testa il 29 marzo dal proiettile di un vigile urbano nelle strade di Como.
Due storie diverse, ma che si assomigliano maledettamente. In ambedue i casi le autorità si sono precipitate a decretare la natura “accidentale” dell’accaduto. Certo, né il vigile, né il vigilante volevano sparare veramente, eppure tutti e due hanno estratto l’arma con il colpo in canna e l’hanno puntata contro una persona inoffensiva e per motivi assolutamente futili, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Il vigilante di via Cavezzali, come altri suoi “colleghi”, faceva da poliziotto privato per la proprietà immobiliare e non era la prima volta che veniva estratta un’arma. Gli inquilini hanno ripetutamente denunciato alle forze dell’ordine minacce e violenze, l’ultima volta soltanto due giorni prima della morte violenta di Abdel, ma nessuno era intervenuto per porre un freno. Un “accidente” piuttosto annunciato, insomma.
E nemmeno quanto successo a Como deve e può essere liquidato come un “accidente”. La progressiva militarizzazione della Polizia Locale, come oggi si chiamano i vigili urbani, è stata invocata, voluta e promossa consapevolmente dalle destre, spesso con l’acquiescenza da parte della sinistra moderata. Oggi, nonostante le molteplici resistenze da parte degli stessi vigili urbani, sempre più di loro portano le armi, mentre la legge regionale lombarda n.4/2003 prevede altresì la possibilità di uso di spray irritanti e bastoni estensibili. Il tutto in omaggio all’esaltazione delle “funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza” da parte della polizia locale. C’è da stupirsi che molti sindaci, desiderosi di disporre di una “loro” polizia, sono passati a costruire squadre speciali che vengono lanciati addosso non ai grandi delinquenti e speculatori, bensì a immigrati o writer?
Abdel è stato dimenticato troppo in fretta da Milano e sono rimasti soltanto i familiari e gli amici a chiedere giustizia. A Como, per fortuna, una parte della città ha deciso di reagire. E ci auguriamo che non sia un fuoco fatuo. Ma tutto questo non basta. Sia la tolleranza nei confronti delle polizie private e dell’uso sempre più disinvolto delle armi, che le leggi regionali o le ordinanze di sindaci sono figlie di una concezione della società insana e pericolosa.
Alla crescita dell’emarginazione e dell’esclusione, di nuove povertà e solitudini urbane, si risponde non con una politica sociale degna di questo nome, bensì con le politiche securitarie e criminalizzanti. E allora non si combatte l’esclusione, ma l’escluso. Non si favorisce la crescita di spazi sociali, ma si perseguita chi colora i muri cittadini.
Vi è la terribile urgenza che da sinistra, dalla politica e dalla società, venga presa un’iniziativa forte e decisa per rovesciare il paradigma securitario. Prima che sia troppo tardi. Lo dobbiamo a Abdel e a Rumesh, che sta ancora lottando per la sua vita, ma lo dobbiamo soprattutto a noi stessi e al nostro futuro.
Il centrodestra lombardo aveva annunciato in pompa magna che avrebbe ‘salvato’ la Formula Uno e l’autodromo di Monza, messi a repentaglio da una sentenza del Tribunale di Milano, confermata il 15 marzo scorso, che giudicava fuorilegge l’inquinamento acustico prodotto dalle gare automobilistiche. Peccato che il progetto di legge presentato dalla Lega e approvato oggi a maggioranza dalla VII Commissione consiliare, con la bocciatura dell’emendamento proposto da Rifondazione, Verdi, DS e Margherita, si è rivelato, come da copione, un vero e proprio pasticcio pre-elettorale.
Il provvedimento appare scritto talmente in fretta e furia che vengono addirittura sbagliati alcuni riferimenti normativi, come nel caso della legge regionale 26/2002, che si occupa di “attività motorie sportivo-ricreative” e non certo di quelle di tipo motoristico. Ma la cosa più inquietante è che il progetto di legge non risolve il problema, ma si limita a definire una sorta di deroga preventiva e permanente, spostando sulla carta il perimetro dell’autodromo di 500 metri.
Quindi, non soltanto vengono ignorati l’inquinamento acustico e il disagio dei cittadini, che da oltre dieci anni stanno alla base dei conflitti rispetto alle attività dell’autodromo, ma si gettano le fondamenta di una futura contestazione di legittimità.
Rifondazione Comunista è assolutamente convinta che vadano garantiti l’attività dell’autodromo, lo svolgimento del Gran Premio e la salvaguardia dei posti di lavori diretti e indotti. Ma siamo altrettanto certi che non si possa continuare a ignorare le legittime richieste dei cittadini, residenti o fruitori del parco che siano. Insistere nella contrapposizione tra gli interessi dell’autodromo e quelli dei cittadini, come fa il pdl del centrodestra, è irresponsabile e inaccettabile. Ecco perché Rifondazione, insieme a Verdi, DS e Margherita, ha presentato un emendamento in cui, in accordo con la legislazione nazionale, si stabiliscono dei limiti e soprattutto si impegna la Regione a intervenire, in concorso con gli enti locali, per realizzare opere permanenti di mitigazione dell’inquinamento acustico.
Che ci sia qualche problema con il provvedimento l’ha riconosciuto in fondo lo stesso centrodestra, annunciando la sua disponibilità a discutere con l’opposizione un emendamento comune in Aula. Se si tratta di qualcosa di più che semplice propaganda, allora Rifondazione Comunista sarà disponibile a discuterne. Altrimenti confermeremo la nostra netta contrarietà a una legge pasticciata e irresponsabile.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 23/03/2006, in Lavoro, linkato 989 volte)
Il gruppo consiliare regionale lombardo di Rifondazione Comunista - fanno oggi sapere i consiglieri regionali Mario Agostinelli, Luciano Muhlbauer e Osvaldo Squassina - sostiene la campagna nazionale Per un nuova scala mobile.
La campagna, che vede impegnate in tutto il Paese forze sindacali, associative e politiche, tra cui il Prc, consiste nella raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare che ripristini la scala mobile.
“La progressiva erosione del potere d’acquisto di questi anni - spiegano i tre consiglieri - ha peggiorato in maniera significativa le condizioni di vita di milioni di lavoratori e lavoratrici e pensionati. Lo dicono le statistiche, ma ancor prima ce lo dice la realtà vissuta di tutti giorni, con le difficoltà di arrivare alla fine del mese oppure con il crescente indebitamento di numerose famiglie.
Nessuno nega più questo dato di fatto, ma pochi sono disposti a riflettere sulle cause di una vera e propria redistribuzione del reddito al rovescio. Eppure, la verità è molto semplice: prezzi e tariffe sono liberi di aumentare, mentre salari e stipendi sono ingabbiati dalle regole della ‘politica dei redditi’ del 1993, che aveva introdotto l’insano principio della ‘inflazione programmata’, sempre e comunque inferiore a quella reale”.
“Si tratta insomma – proseguono i consiglieri - di fare un bilancio della politica che aveva abolito e sostituito la scala mobile. E quel bilancio è francamente disastroso. Ecco perché vi è una necessità impellente di riaprire la discussione e l’iniziativa politica sull’introduzione di un nuovo meccanismo che adegui automaticamente salari, stipendi e pensioni all’inflazione reale.
E per favore non si dica che non è possibile perché il problema dell’economia italiana sarebbe il costo del lavoro troppo alto. Si tratta di una leggenda che trova regolare smentita sul piano internazionale, come ricorda anche la recentissima ricerca della società multinazionale KPMG sulla competitività dei paesi più industrializzati. Infatti, risulta che il costo del lavoro in Italia non solo è più basso rispetto agli Stati Uniti, ma anche più basso di tutti gli altri paesi europei”.
“Coloro che hanno deciso di ridurre i salari per rilanciare l’economia italiana - concludono Agostinelli, Muhlbauer e Squassina - hanno fallito. I lavoratori sono più poveri e le imprese perdono competitività sui mercati internazionali. Per tutte queste ragioni è importante che la campagna Per un nuova scala mobile registri una forte e convinta adesione.”
Comunicato stampa del Gruppo regionale del Prc
Il gruppo consiliare regionale di Rifondazione Comunista parteciperà domani alla manifestazione in piazza Fontana che ricollocherà al suo posto la lapide a Pinelli, sottratta dalla Giunta Albertini.
Il gesto di Albertini e De Corato non può e non deve rimanere senza risposta, poiché offende e oltraggia la storia e le memoria di Milano. Anzi, si pone in piena continuità con una volontà di revisionismo storico che nel caso degli amministratori ex-MSI si fa apertamente revanscista. Rilegittimare i combattenti di Salò il 25 aprile o ritenere accettabili le parate nazifasciste della Fiamma Tricolore fa il paio con la volontà di riscrivere la storia di Pinelli, con tutto ciò implica rispetto al significato della strage di piazza Fontana.
Il centrodestra non soltanto ha scelto scientemente la strada della provocazione, nella speranza di raccattare qualche reazione inconsulta a poca distanza dalle elezioni, ma ha altresì mentito ai cittadini, dicendo che quella lapide era “abusiva”. Infatti, fu il 24 ottobre del 1994, durante l’amministrazione Formentini, che il consiglio comunale di Milano votò a maggioranza un ordine del giorno che impegnava il Comune a lasciare al suo posto la lapide così com’era in caso di lavori di ristrutturazione della piazza. Ebbene, a noi pare che l’unica cosa abusiva in tutta questa storia sia il comportamento vergognoso degli amministratori di Milano.
Tanti buoni motivi, quindi, per essere domani in piazza Fontana, alle ore 18.00, per rimettere al suo posto la lapide. Quella abusiva di Albertini e De Corato rimanga pure lì dov’è, a simboleggiare l’arroganza e la pochezza di quanti oggi governano Milano.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Il Sindaco Albertini e la sua Giunta non sono mai andati d’accordo con la storia e la memoria di Milano. L’hanno sempre vissuta come un ingombro, un qualcosa da riscrivere. Ed ecco dunque le visite del primo cittadino alle tombe dei combattenti della Repubblica di Salò il 25 aprile, le assenze e le reticenze in occasione degli anniversari della strage di piazza Fontana oppure i silenzi rispetto alla parata nazifascista della Fiamma Tricolore. Poteva mancare la lapide che ricorda Pinelli?
Beninteso, qui non è questione di discutere le dinamiche esatte che portarono alla morte del ferroviere e anarchico Pinelli nei locali della questura di Milano, pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana. È questione che quella morte non era una semplice cattiveria del destino, bensì la diretta conseguenza delle macchinazioni che in quei giorni iniziavano a coprire le responsabilità nella strage di apparati dello Stato e di gruppi fascisti. Questo diceva e ricordava la lapide sottratta da Albertini che perciò dava fastidio a taluni.
La lapide deve tornare al suo posto, non c’è alcun dubbio. Per amore della verità e per rispetto di quella memoria che non è fatto privato di anarchici e comunisti, ma patrimonio democratico di tutti i milanesi.
Questo oltraggio alla città non è semplicemente un ulteriore tassello della guerra di Gabriele contro la storia di Milano, è altresì una palese provocazione costruita ad arte in vista degli appuntamenti elettorali. Cosa ci sarebbe di meglio di qualche incidente, di qualche atto di violenza a poca distanza da quel sabato di follia di dieci giorni fa? Anzi, se qualcuno non avesse colto il messaggio, eccovi il buon De Corato a invitare esplicitamente a spaccare la lapide posta dal Comune. È davvero triste e preoccupante essere governati da persone disposte a tutto pur di salvaguardare la loro posizione di potere.
Ci sono quindi almeno due motivi per essere in tanti e tante giovedì prossimo a rimettere al suo posto la lapide, senza cascare nelle stupide trappole e lasciando integra la loro contro-lapide. Che siano i cittadini milanesi a giudicare i loro attuali amministratori.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Comunicato di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 16 marzo 2006 (pag. Milano)
Le dichiarazioni dell’assessore regionale alla sicurezza, Buscemi, sui centri sociali sono inaccettabili. Ancora una volta si usano i fatti di sabato a Milano per cercare di delegittimare una componente importante e preziosa della città. Secondo Buscemi, i centri sociali non avrebbero gli stessi diritti dei “cittadini normali”. Ma l’ha mai visto lui un centro sociale? E ha mai incontrato i tanti ragazzi e le tante ragazze che animano e frequentano queste realtà, in una città che offre sempre meno spazi di aggregazione?
I fatti di sabato sono gravi e il nostro partito li ha già condannati. Ma la campagna scatenata dal centrodestra che punta a criminalizzare tout court i centri sociali e ne chiede la chiusura forzata ha decisamente passato il limite.
Occorre davvero abbassare i toni e smetterla con le strumentalizzazioni. Non è accettabile che in cambio di un pugno di voti si cerchi di trasformare la campagna elettorale in un campo di battaglia. Ci saremmo aspettati che l’assessore Buscemi riuscisse ad essere diverso dall’assessore Manca. Ma evidentemente ci siamo sbagliati.
di lucmu (del 14/03/2006, in Casa, linkato 1027 volte)
Il centrodestra lombardo è sempre più lacerato dalle polemiche interne e dalla candidatura al Senato di Formigoni. Ciononostante, oggi la maggioranza ha forzato l’approvazione di uno dei provvedimenti più contestati e più odiosi, cioè le modifiche al regolamento di accesso alle case popolari.
Con questo voto la discriminazione e la demagogia diventano legge.
Non solo viene confermato il folle criterio della legge regionale n. 7 del febbraio 2005, per cui quanti non dispongono di cinque anni di residenza continuativa in Lombardia non possono nemmeno presentare domanda di alloggio di edilizia residenziale pubblica. Ma da oggi in poi la residenza farà punteggio anche per quanti riescono ad accedere alla graduatoria. E secondo una simulazione, l’applicazione del nuovo criterio porterà a invertire le posizioni in graduatoria nella misura del 22%, penalizzando dunque numerose famiglie in condizioni di grande disagio.
Insomma, siamo di fronte a uno snaturamento della funzione dell’edilizia pubblica, che è quella di rispondere a un bisogno sociale e prevenire il prodursi di emergenze abitative. Tanto che il Tar aveva già bocciato una norma analoga di Regione Lombardia due anni fa. E per quale motivo non dovrebbe respingerla anche questa volta?
Introdurre in maniera così pesante il criterio della residenzialità significa togliere efficacia all’intervento abitativo pubblico, specie in aree metropolitane come Milano, caratterizzate da una grande mobilità in entrata e uscita. Il centrodestra, evidentemente ben consapevole dell’insufficienza della propria politica di fronte al crescente fabbisogno di abitazioni, ha scelto consapevolmente di puntare sulla demagogia e sulla discriminazione. Il risultato, è facile prevederlo, sarà un po’ di guerra tra poveri. Complimenti presidente-senatore Formigoni!
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Passata la giornata delle polemiche politiche, su via Triboniano sta di nuovo calando il silenzio. E soprattutto il campo e le famiglie rom sono stati riconsegnati all’abbandono, nonostante sia evidente a chiunque che siamo in pieno emergenza umanitaria.
Il Comune di Milano aveva annunciato di aver messo a disposizione posti letto di emergenza per i tanti rom che avevano perso la loro roulotte o baracca nell’incendio. Ebbene, questi posti letto esistono soltanto nelle dichiarazioni pubbliche, ma non sono reperibili nella realtà. Infatti, ieri notte, la Protezione Civile del Comune riusciva a mettere a disposizione la bellezza di 8 posti letto! Per il resto, erano a disposizione, nelle varie strutture del comune, soprattutto refettori e corridoi.
La ovvia conseguenza di questo stato di cose è stato ed è che i rom senzatetto, compresi molti bambini, si ammassano nelle roulotte sopravvissute all’incendio. Non si è visto nessuno intervento del Comune nemmeno da questo punto di vista. Anzi, le condizioni del campo, nella sua parte ancora integra, sono pessime e vi è il concreto rischio che possano scoppiare altri incendi, mentre non sono stati distribuiti nemmeno degli estintori. L’unico intervento concreto che si è visto finora è quello repressivo da parte della polizia, che nella giornata di ieri ha fermato ed espulso in modo coatto, con volo a Bucarest, circa 80 rom di via Triboniano non in regola con i documenti.
E’ davvero stucchevole dover assistere alle tante dichiarazioni e a qualche bella parola, salvo poi verificare che nella realtà prevale la politica di sempre. Cioè, quella dell’abbandono. Questa situazione non è accettabile, il Comune si assuma le sue responsabilità e intervenga almeno rispetto all’emergenza umanitaria.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Guerre&Pace di marzo 2006
Nella sua sesta edizione il Forum sociale mondiale si è fatto policentrico. Non più un luogo unico a livello mondiale dunque, ma tre forum in paesi di tre diversi continenti: Bamako in Mali (19-23 gennaio), Caracas in Venezuela (24-29 gennaio) e Karachi in Pakistan (presumibilmente a marzo). Ci sarà tempo per fare un bilancio complessivo, ma sicuramente vi era la necessità di innovare un format che rischiava di essere un po’ ripetitivo e che ormai faticava a mettersi in sintonia con l’estensione geografica del processo. I maliziosi potrebbero poi aggiungere che forse taluni erano interessati a diluire il prevedibile impatto politico di un forum troppo di sinistra, come quello di Caracas.
Comunque sia, e mettendo in questa sede da parte considerazioni politiche più generali sul processo dei forum, l’appuntamento di Bamako si annunciava senz’altro come quello più innovativo e meno scontato, poiché si trattava di una autentica prima volta. Infatti, due anni fa, con il Fsm di Mumbai, il processo valicò i confini euro-latinoamericani per aprirsi ai movimenti asiatici, anzitutto a quelli indiani, ma l’Africa continuava fino ad oggi a rimanere ai margini estremi. Un problema di non poco conto, poiché questo significava in qualche modo emulare da sinistra e dal basso un’esclusione già decretata dal mercato mondiale liberista e dai potenti della politica globale. E un problema, peraltro, di non facile risoluzione, visto che i forum funzionano e acquisiscono senso politico laddove c’è protagonismo di movimenti sociali, mentre il continente africano è in larga parte caratterizzato dalla debolezza delle sue società civili o meglio, delle sue espressioni organizzate.
La decisione di tenere il Fsm del 2007, di nuovo unificato, nella capitale keniota, Nairobi, è stata pertanto coraggiosa e lungimirante. E in questo senso il forum di Bamako assumeva la funzione di apripista. Per tutti questi motivi si trattava di un vero e proprio forum di frontiera, difficilmente paragonabile agli appuntamenti portoalegrini. Difatti, non vi erano grandi palchi e grandi eventi politici, ma piuttosto la meno spettacolare costruzione di relazioni negli interstizi. Non vi si trovava tanto la prosecuzione –o la replica…- di dibattiti già conosciuti, ma piuttosto l’apertura di nuovi fronti politici, come quello delle migrazioni, finora rimasti poco più che enunciazioni nei vari forum sociali mondiali.
Questa diversità del forum di Bamako lo ha reso politicamente prezioso, ma al contempo gli ha negato la luce dei riflettori. I grandi media lo hanno sostanzialmente ignorato e anche la presenza della stampa italiana si è limitata ai soliti noti, cioè a Liberazione, il Manifesto e Carta. Gli stessi movimenti europei hanno in parte sottovalutato l’appuntamento, a giudicare dalle presenze e dalle assenze. Se escludiamo la delegazione francese, presente in maniera plurale e con oltre mille persone, in virtù dell’appartenenza del Mali al mondo francofono, il resto dell’Europa non ha brillato particolarmente per quantità e pluralità. Dall’Italia vi era una partecipazione forse superiore alle aspettative, quasi cento delegati, ma molte organizzazioni e movimenti erano del tutto assenti.
Non è facile raccontare il forum di Bamako nel suo insieme. Anzitutto per un fatto materiale, cioè a causa della sua dispersione in dieci distinti spazi tematici; conseguenza non tanto di scelte politiche, ma dell’effetto combinato della scarsità delle infrastrutture cittadine e dei mezzi finanziari degli organizzatori. Una frammentazione dei luoghi di discussione, ulteriormente accentuata dalle difficoltà di trasporto nella capitale maliana, che ha finito per limitare non poco la mobilità, la comunicazione e la contaminazione all’interno del territoire social mondial. Esclusa la manifestazione di apertura, a cui hanno partecipato 7mila persone, vi è stata dunque poca possibilità di incontro tra i circa 30mila partecipanti.
Una seconda difficoltà di orientamento -per la grande maggioranza degli europei, si intende- era rappresentata dall’intelaiatura sociale e politica del forum. In America Latina, Europa e India eravamo infatti abituati a confrontarci anzitutto con movimenti sociali, organizzazioni sindacali e, anche se ufficialmente non doveva essere così, con forze politiche. Se fossimo stati in Sudafrica, sarebbe stato uguale, ma appunto, il resto dell’Africa è in gran parte un’altra cosa e lo sicuramente il Mali, paese di quella fascia sub-sahariana a cui il capitalismo liberista concede unicamente lo sviluppo della povertà.
Tutto ciò ha comportato il co-protagonismo di altri soggetti, come le Ong o delle personalità che di fatto svolgono un ruolo da “referente” socio-politico, come era il caso dell’ex-Ministra della Cultura maliana, Aminata Traoré. Da sottolineare in particolare il ruolo svolto dalle organizzazioni femminili, decisamente superiore rispetto a quanto avvenuto negli altri forum. Non solo i seminari organizzati dalle donne erano sempre affollati e partecipati, ma vi era una presenza protagonista un po’ ovunque. Forse l’immagine più fedele l’ha fornita la composizione di una riunione di sindacati africani: la platea era affollata da maschi, ma al tavolo della presidenza quattro su sei erano donne.
Beninteso, non è che mancassero movimenti sociali e sindacati –e nemmeno forze politiche-, ma nel loro insieme non svolgevano il tradizionale ruolo determinante. Allo stesso tempo, quella composizione del forum testimonia l’esistenza di soggetti organizzati delle società civili africane, con i quali è possibile avviare un percorso di costruzione di relazioni, riflessioni e azioni.
A questo punto ci preme però sottolineare due assi politici che hanno attraversato tutto il forum e che rappresentano in realtà i due nodi strategici per il futuro del processo in Africa. La relazione tra africani e quella tra africani e europei.
Il primo asse ha visto delle discussioni intense in diversi seminari e ha toccato due ordini di problemi, tra di loro strettamente intrecciati. Ovvero, la necessità di avviare la costruzione di una rete di soggetti africani capaci di sostenere il percorso verso Nairobi 2007 e l’idea che da quella rete debba nascere una Carta dell’unità e del futuro africani.
Discussione complessa e ambiziosa, il cui punto di partenza è costituito dalla domanda “cos’è che unisce noi africani?”. Infatti, al di là degli stanchi stereotipi che spesso si aggirano dalle nostre parti, non vi è nel continente la percezione di un’identità africana, ma piuttosto quella delle differenze. C’è l’Africa occidentale, quella orientale, quella del sud e quella del nord. C’è quella francofona e quella anglofona, vi sono religioni, culture, lingue e condizioni economiche distinte e distanti, per limitarci soltanto alle macro-differenze. Insomma, difficile trovare un cittadino del Marocco e uno del Burkina Faso che pensano di appartenere allo stesso mondo.
Il problema ha dunque natura squisitamente politica, cioè la definizione dell’unità dei popoli africani nel rispetto delle diversità e in relazione alla condizione comune di sfruttamento e oppressione e alla conseguente necessità di costruire alternative. Inevitabile dunque partire dalla rivisitazione critica della Carta di Arusha, messa a punto nel 1990 da una rete di movimenti sociali africani e incentrata sulla resistenza ai piani di aggiustamento strutturale che in quella epoca le istituzioni finanziarie internazionali imponevano a paesi africani. Ora si tratta di partire dalle mutazioni intervenute sul piano continentale e mondiale, cioè, per dirla con il documento finale prodotto dalla discussione: “la fine della guerra fredda e l’affermazione dell’egemonia americana, la globalizzazione liberista e il suo impatto disastroso sulle nostre economie e società, la moltiplicazione dei conflitti e delle guerre per l’accaparramento delle risorse, la mercificazione e la privatizzazione della società, l’indebolimento di certi movimenti sociali, la nascita dell’Unione Africana”.
Vi è stata quindi ampia convergenza tra le realtà africane presenti, poiché, per usare le parole di uno degli esponenti intervenuti, “per cacciare una nuova bestia non serve un cane vecchio e stanco, ma ne occorre uno nuovo”. Il percorso concordato prevede consultazioni a livello nazionale e continentale da realizzarsi nel corso del 2006 e un’assemblea “di convalida” al Fsm di Nairobi l’anno prossimo.
Per quanto riguarda la relazione tra movimenti europei e africani, si trattava invece di esplorare un terreno largamente vergine. Molti seminari erano occasione per mettere in comunicazione i movimenti dei due continenti, dalle donne alla questione dei beni comuni, l’acqua in primo luogo, ma gli incontri forse più fecondi si sono realizzati nei seminari dedicati alle migrazioni. Infatti, per prima volta i movimenti e le organizzazioni europei che si battono per i diritti dei migranti –in questo caso soprattutto francesi, italiani (Arci, SinCobas, Cgil, Rifondazione Comunista) e dello stato spagnolo- hanno discusso direttamente con degli interlocutori nei paesi d’origine. E non solo in termini generali, ma anche concreti e specifici, dato che vi era una significativa presenza nel forum di associazioni di migranti espulsi dall’Europa. Un reticolato associativo, quest’ultimo, che ha costituito per gli europei un’autentica scoperta. Nel Mali, per esempio, ne esiste una “storica”, fondata nel 1996 da espulsi dalla Francia, mentre un’altra è stata formata recentemente dai maliani respinti a fucilate nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla.
I numerosi e molto partecipati seminari sulle migrazioni, ubicati tutti nel Palais des Congrés di Bamako, si sono presto trasformati in una sorta di assemblea permanente, dove ogni seminario, a prescindere dal suo titolo originario, finiva per discutere le medesime questioni. Emergeva, insomma, una diffusa necessità di definire relazioni e azioni comuni. In altre parole, si trattava di capire come costruire un contraltare alla cooperazione imposta dall’UE a molti governi africani, specie del nord, al fine di gestire la sua politica repressiva in materia di immigrazione e di cui sono triste e vergognoso esempio i fatti di Ceuta e Melilla o la delocalizzazione dei centri di detenzione per migranti irregolari (accordo Berlusconi-Gheddafi docet!).
Un confronto a più voci e dai più luoghi che si è tradotto infine in un Appello per il rispetto e la dignità dei migranti, con il quale le organizzazioni firmatarie, europee e africane, si impegnano su tre direttrici di lavoro: una rete internazionale di scambio di informazioni e di azione comune in relazione alle espulsioni coatte; un “asse tematico” dedicato alle migrazioni da costruire nel Fsm di Nairobi; una giornata internazionale di mobilitazione contro la politica repressiva e il diritto speciale applicato ai migranti in Europa e per la chiusura dei centri di detenzione e la libertà di circolazione.
Come nel caso delle relazioni tra movimenti africani, anche sul terreno di quelle euro-africane, nella frontiera di Bamako c’è stata dunque una semina. Certo, tutto questo è molto meno spettacolare dei grandi eventi del movimento e dei forum di questi anni, ma sicuramente non meno importante e prezioso per la costruzione di un’alternativa globale a quella rapina a mano armata, chiamata globalizzazione liberista. Anzi, forse è particolarmente importante proprio per i movimenti italiani ed europei, per i quali continuare a ignorare l’Africa sarebbe testimonianza di una miopia strategica imperdonabile.
A Bamako è stato dunque fatto il primo passo. Il resto è nelle nostre mani, dei movimenti europei e africani. Si tratta di non perdere l’occasione offerta da questi dodici mesi che ci separano dall’appuntamento di Nairobi del 2007, passando ovviamente per il Forum sociale del Magreb.
di lucmu (del 07/03/2006, in Lavoro, linkato 981 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 2 marzo e su il Manifesto (pag. Milano) del 7 marzo 2006
La legge 30, impropriamente detta legge Biagi, è sbarcata in Regione Lombardia in piena campagna elettorale e nel momento di lancio dell’offensiva neocentrista del presidente-senatore Formigoni. Il progetto di legge applicativo del centrodestra lombardo ha iniziato il suo iter istituzionale due settimane fa e la sua approvazione in aula è programmata per il 21 marzo. Anche se quest’ultima data è ormai destinata a slittare al dopo elezioni politiche, stupisce il silenzio un po’ irreale che circonda l’intera operazione. La stampa non ne parla e dallo stesso mondo sindacale, se escludiamo forze come il SinCobas o la Fiom, non provengono finora segnali di mobilitazione.
Eppure, vi sarebbe l’urgente necessità di accendere i riflettori e far suonare un campanello d’allarme, considerato che si tratta non soltanto dell’applicazione di una delle peggiori leggi berlusconiane, bensì di una sua interpretazione iperliberista, in omaggio alla sussidiarietà secondo Formigoni. E il ruolo della legislazione regionale è tutt’altro che marginale, poiché ad essa è demandata la definizione del regime di accreditamento delle agenzie di somministrazione e intermediazione di manodopera.
Come si sa, il vecchio collocamento pubblico è stato abolito dalla legge 30 e dal decreto legislativo 276/03 e sono subentrati i centri per l’impiego gestiti dalla Province. Ora il centrodestra lombardo propone di fatto l’emarginazione di questo residuo ruolo pubblico, prevedendo un “sistema di servizi per l’impiego aperto alla partecipazione di operatori pubblici e privati”. Dunque, non vi saranno più funzioni svolte in esclusiva dai centri provinciali, ma questi ultimi, per poter operare, dovranno accreditarsi presso la Regione ed entrare nella rete “in concorrenza con i soggetti privati”. Ogni operatore accreditato, pubblico o privato che sia, potrà accedere a finanziamenti regionali, certificare lo stato di disoccupazione, gestire le liste di mobilità e le graduatorie dei disabili, fare intermediazione di manodopera e avviare la selezione presso le pubbliche amministrazioni. E, tanto per ribadire il concetto, è previsto un forte accentramento delle politiche del lavoro nelle mani del Pirellone, trasformando così le Province in semplici terminali della programmazione regionale. Possiamo infine aggiungere che il progetto contempla un uso estensivo di alcune forme contrattuali come il tirocinio e l’apprendistato e della Bottega-scuola.
Non è necessario avere il master in economia per capire che si tratta di un’operazione di devastazione di ogni ruolo pubblico e dell’avvio del grande affare del mercato delle braccia. Insomma, il caporalato elevato al rango di politiche del lavoro e il lavoratore ridotto a merce pura e semplice, come se si trattasse di una scatoletta di tonno. L’impatto sociale di un siffatto sistema sarebbe devastante in una regione in cui la precarietà del lavoro e della vita rappresenta ormai uno dei principali problemi. Già oggi, a Milano, oltre il 70% dei nuovi contratti di lavoro avviati sono di tipo precario.
Ecco perché questo assordante silenzio non ci convince. Anzi, lo leggiamo con viva preoccupazione, specie alla luce delle ripetute aperture al “riformismo” formigoniano da parte della Margherita e di settori dei DS lombardi, anche di questi ultimi giorni. Per quanto ci riguarda, come Rifondazione Comunista, abbiamo presentato un nostro progetto di legge, incentrato sul rilancio del ruolo pubblico e sul rafforzamento delle strutture delle Province, nonché su una politica regionale di contrasto attivo della precarizzazione. Ma soprattutto occorre rompere il silenzio e far uscire la discussione dal palazzo. Per questo crediamo sia giunto definitivamente il momento che le forze della sinistra sociale e politica e dei movimenti facciano sentire la loro voce. Per impedire che apra il supermercato della precarietà, magari sotto il segno di un altrettanto devastante neocentrismo lombardo.
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