Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Un “debutto” e una “novità”, anzi un “tesoretto” che Regione Lombardia consegna alle famiglie lombarde. Il forse-Ministro e tuttora Presidente della Regione Lombardia, Formigoni, non ha risparmiato parole roboanti per annunciare che da oggi, 21 aprile, possono essere presentate le domande per la “dote scuola”.
Peccato però che quelle parole faticano terribilmente a trovare un qualche riscontro nella realtà dei fatti, poiché l’unico debutto è quello del termine “dote”. Infatti, le tre tipologie di doti introdotte, in applicazione della legge regionale n. 19/2007, altro non sono che un nome nuovo per finanziamenti vecchi, di provenienza sia statale, che regionale.
E così, la “dote per la permanenza nel sistema educativo”, destinata a quel 91,45% di studenti lombardi che frequentano la scuola pubblica, riunisce semplicemente i diversi contributi statali per i libri di testo e per gli assegni e le borse di studio. In altre parole, la Regione, in quanto ente erogatore, non ci mette un soldo e si limita unicamente a cambiare denominazione a finanziamenti vincolati dello Stato.
Per quanto riguarda i fondi regionali, cioè quelli decisi autonomamente dalla Giunta Formigoni, va anzitutto sottolineato che le quantità economiche erogate corrispondono quasi esattamente a quanto stanziato l’anno precedente. In secondo luogo, si riproduce pari pari la pesante discriminazione delle famiglie i cui figli frequentano la scuola pubblica. Infatti, la “dote di merito”, destinata agli studenti meritevoli delle scuole statali e private, è finanziata con appena 4,2 milioni di euro, mentre la “dote per la libertà di scelta” -cioè il vecchio “buono scuola”-, destinata in maniera esclusiva a quel 8,55% di studenti lombardi che frequentano le private, dispone uno stanziamento di ben 46 milioni di euro.
Cioè, per avere diritto a qualche sostegno da parte della Regione, le famiglie della scuola pubblica devono versare in condizioni economiche sfavorevoli e i figli sono tenuti a dimostrare un ottimo rendimento scolastico, mentre le famiglie delle private possono disporre anche di redditi superiori –fino a 200mila euro di reddito dichiarato al fisco!- e il rendimento scolastico dello studente può essere anche pessimo o nullo.
Insomma, più che di una novità si tratta di un’operazione pubblicitaria, tesa a vendere fumo alla grandissima maggioranza delle famiglie lombarde, mentre i soliti amici del Presidente, cioè le scuole private, si accaparrano quasi tutto il finanziamento pubblico della Regione.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 15/04/2008, in Politica, linkato 2870 volte)
Anche i più incalliti pessimisti, tra i quali mi annoveravo, non prevedevano un risultato tanto disastroso. E non l’ha fatto nemmeno il compagno che mi aveva detto “questa volta non voto”, disgustato e disilluso dopo i due anni di governo Prodi, o quello che aveva ceduto alla tentazione del “voto utile”, credendo davvero alla favola veltroniana della pareggio possibile. Ambedue non avevano trovato le motivazioni sufficienti per esprimere un voto a favore della “Sinistra l’Arcobaleno” e ambedue hanno cercato una via per esprimere nelle urne il proprio disagio e lanciare un segnale politico. E ambedue sono rappresentativi dell’atteggiamento prevalente degli elettori di sinistra, cioè l’astensione e il voto al Pd, con l’aggiunta che al Nord alcuni hanno votato pure per la Lega.
Che di una vera e propria disfatta si tratti, si può peraltro evincere da tre fatti. In primo luogo, prendendo i dati della Camera, neanche sommando tutti i voti di tutte le liste riconducibili alla “sinistra radicale” di due anni fa, cioè oltre SinArc (3,1%) anche Pcl (0,6%), Sinistra Critica (0,5%) e Per il Bene Comune (0,3%), ci si avvicina anche soltanto alla metà dei voti di allora. Ovvero, nel 2006 Prc, PdCi e Verdi ottennero complessivamente 3.898.460 voti e il 10,2%, mentre oggi SinArc, Pcl, S.C. e Bene Comune realizzano insieme 1.619.905 voti e il 4,5%.
In secondo luogo, dalle elezioni emerge un netto spostamento a destra del panorama politico italiano. La coalizione berlusconiana non solo dispone di una chiara maggioranza sia alla Camera che al Senato, ma al suo interno non c’è più la componente centrista dell’Udc, mentre la Lega ha rafforzato notevolmente le sue posizioni, grazie al suo exploit al Nord. E, da sottolineare, la campagna elettorale della Lega, specie nelle aree metropolitane, era giocata fortemente sui temi della sicurezza e della paura dell’immigrazione.
Infine, il Pd ha realizzato, forse oltre le sue aspettative, il suo obiettivo primario, cioè l’eliminazione della sinistra, come primo passo verso l’imposizione di un sistema bipartitico all’americana. In campagna elettorale, Veltroni è riuscito in un capolavoro politico, staccando la sua immagine da quella di Prodi, addossando alla sinistra la responsabilità del fallimento dell’esperienza governativa e, soprattutto, convincendo gli elettori di sinistra che il Pd potesse effettivamente battere Berlusconi. Una tesi spericolata e truffaldina, senza alcun fondamento reale, come hanno poi ampiamente confermato i risultati elettorali. Infatti, il Pd non ha tolto nemmeno l’ombra di un consenso alle destre e non ha fagocitato l’Udc, dirottando in cambio voti dalla sinistra e rimanendo sostanzialmente fermo a quello che avevano due anni fa Ds e Margherita.
Questa ci pare essere in sintesi la fotografia del terremoto che ha investito la sinistra nel nostro paese e da qui occorre partire per porsi la prima domanda: come mai è potuto accadere?
Non penso, in tutta franchezza, che la risposta sia che il popolo italiano abbia voluto decretare la fine e l’inutilità dell’esistenza di una sinistra nel nostro paese, ma piuttosto che la soggettività –o le soggettività- che si è concretamente presentato alle elezioni non era adatta e credibile. E non si tratta di una mera questione di simboli. Insomma, se c’era la falce e il martello sarebbe andata diversamente? Sì, forse un mezzo o un intero punto percentuale in più sarebbe arrivato, ma giusto per mitigare un po’ il disastro e forse consegnare qualche deputato, ma non sarebbe certo servito a rimuovere e far dimenticare i due anni precedenti.
Ebbene sì, perché questi ultimi due anni al governo sono stati devastanti, perché la sinistra ne è uscita sconfitta nella linea politica, nella credibilità e nei rapporti con i movimenti e i ceti popolari. E non sono stati due anni qualsiasi, bensì due anni che si sono consumati nel quadro di una dinamica sfavorevole di medio periodo, segnata dalla crisi continua della sinistra e dalla conquista dell’egemonia culturale delle destre. In altre parole, è come se fossero stati il colpo di grazia.
In campagna elettorale non abbiamo motivato e convinto neanche i “nostri”, perché non abbiamo risposto a questo scenario. La Sinistra l’Arcobaleno appariva come un cartello elettorale e un assemblaggio dell’esistente, fin dentro la composizione delle liste, senza un profilo chiaro e leggibile, senza una prospettiva per il futuro e senza innovazione.
Ora ci aspetta una fase difficile, irta di ostacoli. E ci sono due cose da evitare. La prima è la tentazione di attribuire il disastro alla cattiveria degli altri e non ai propri errori e insufficienze. La seconda è la concreta possibilità che lo stato delle cose produca semplicemente una sorta di deflagrazione della sinistra e una serie infinita di rese dei conti nelle stanze dei partiti.
Dire oggi, il fatidico giorno dopo, quello che bisogna fare esattamente è difficile e nessuno ha la ricetta in tasca. Ci vorrà riflessione, umiltà e ascolto. Ma una cosa è certa: un ciclo si è chiuso e la sinistra così com’è ha fatto il suo tempo. Occorre un fatto nuovo, una ripartenza, una sinistra nuova.
E un’altra cosa è certa: il processo di ricostruzione di una sinistra nuova non potrà essere il prodotto degli apparati e gruppi dirigenti esistenti, ma necessita di rinnovamento e, soprattutto, del calore della realtà sociale. Ovvero, della partecipazione e del protagonismo dei movimenti, dei lavoratori e delle tante realtà attive nella lotta sociale e nell’associazionismo.
 
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L’Assessore regionale al lavoro, Rossoni, ci ha dato ragione, confermando l’illegittimità delle esclusioni di alcune categorie di lavoratori precari dalla possibilità di accedere a posti di lavoro temporanei nelle pubbliche amministrazioni (cosiddette “chiamate art. 16”). Questo è il succo della risposta alla nostra interpellanza di tre mesi fa (vedi news su questo blog del 9/1/08).
Il problema era sorto con la delibera della Giunta regionale n. 4890 del 15 giugno 2007, che conteneva delle formulazioni non univoche, e con la successiva applicazione della normativa da parte dei Centri per l’Impiego delle Province. Infatti, a partire dal settembre dell’anno scorso, molte persone si vedevano all’improvviso rifiutate le loro domande di lavoro.
Il diavolo, come al solito, si nascondeva in un dettaglio, cioè nella nuova e più restrittiva interpretazione della categoria “persona priva di occupazione”. Fino ad allora, infatti, quest’ultima comprendeva anche i lavoratori precari con un reddito annuo inferiore a 8.000 euro, come peraltro previsto dalla vigente normativa nazionale e dalla prassi delle Regioni limitrofe.
Fino ad oggi nessuno sembrava interessarsi alla vicenda, nonostante le sollecitazioni di diversi operatori del settore, e soltanto in seguito alla nostra interpellanza sembra muoversi qualcosa, poiché l’Assessore regionale scrive testualmente:
la definizione di ‘persona priva di occupazione’ deve essere interpretata in modo estensivo e va riferita, oltre ai ‘disoccupati in senso stretto’, anche alle persone in condizione lavorativa in possesso dei requisiti di legge (d.lgs. 181/00) per il mantenimento dello stato di disoccupazione (reddito annuo da lavoro non superiore a quello minimo esente da imposizione fiscale: 8.000 Euro lordi per i redditi da lavoro dipendente e assimilati ed Euro 4.800 per quelli da lavoro autonomo). Le persone ‘prive di occupazione’ possono pertanto partecipare a tutte le selezioni, sia a tempo determinato che a tempo indeterminato.
Inoltre, la risposta all’interpellanza indicherebbe che a breve dovrebbero essere diramate nuove indicazioni alla Province. Cioè, “per fornire una soluzione adeguata alle criticità emerse in fase di prima attuazione della delibera regionale, gli uffici stanno definendo, di concerto con le Province, puntuali indicazioni tecnico-operative relative alle nuove procedure”.
Insomma, ci auguriamo che ora alle parole seguano i fatti e che venga ristabilita, nel più breve tempo possibile, la corretta applicazione della normativa nazionale.
 
qui sotto puoi scaricare il testo integrale della risposta all’interpellanza
 

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Non vedo, non sento, non parlo. Sembra essere questo il senso della risposta dell’Assessore regionale alla polizia locale, Massimo Ponzoni, alla nostra interpellanza del gennaio scorso sul Consorzio del Corpo di Polizia Intercomunale dei Colli (Bg).
Una risposta strana, quella pervenutaci oggi, diversa da molte altre, che solitamente si basano su una raccolta di informazioni in loco. In questo caso, invece, l’assessorato non solo afferma di non essere a conoscenza dei fatti, ma soprattutto che non intende promuovere specifici accertamenti, come aveva richiesto la nostra interpellanza. Anzi, rimanda semplicemente alle ordinarie verifiche previste dalla legge, che possono tardare anche anni e che si basano sull’esame della rendicontazione fornita dal Consorzio.
Eppure, quanto denunciato dalle organizzazioni sindacali dei vigili urbani e ripreso in più occasioni dalla stampa locale, di ordinario non ha proprio nulla. Riguarda, per citare solo alcuni esempi, un turn-over di personale assolutamente fuori dalla norma, un ricorso a rapporti di lavoro precari sproporzionato e l’acquisto di costose apparecchiature poi rimaste sostanzialmente inutilizzate. (vedi anche news su questo blog del 7/1/08)
Ma la stranezza della risposta appare ancora più evidente se consideriamo il fatto che il Consorzio è stato beneficiario di cospicui finanziamenti regionali. Infatti, come conferma l’assessorato, questi ammontano a ben 1.239.004 euro nel periodo 2000-2007.
In altre parole, sebbene Regione Lombardia avesse concesso al Consorzio un consistente finanziamento pubblico, l’assessore non ritiene opportuno né acquisire informazioni, né promuovere accertamenti specifici.
Delle due l’una: o le denunce sono inconsistenti e non corrispondono al vero e allora Regione Lombardia lo dica formalmente, oppure le denunce non sono campate per aria e in tal caso occorre intervenire con urgenza, accertando le eventuali responsabilità. Ma, l’unica cosa non ammissibile è che, di fronte a oltre 1,2 milioni di euro di finanziamenti regionali, l’assessore si chiami fuori.
Riteniamo che tutto ciò non sia serio e responsabile, anzitutto nei confronti dei cittadini dei Comuni coinvolti e degli operatori della Polizia Locale del Consorzio. Pertanto, chiediamo nuovamente che il governo regionale contribuisca, nell’ambito delle proprie competenze, a fare chiarezza in tempi brevi e certi.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
qui sotto puoi scaricare il testo dell’interpellanza e la risposta dell’assessore
 

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di lucmu (del 08/04/2008, in Casa, linkato 1151 volte)
Suonano stantie e stucchevoli le parole dell’assessore Scotti, che per l’ennesima volta dà voce alla favola formigoniana che l’aumento dei canoni d’affitto nelle case popolari lombarde, determinato dalla legge regionale n. 27/2007, sarebbe irrisorio e finalizzato alla lotta contro i privilegi.
È una storiella vecchia, ma che oggi, ancora meno di ieri, trova riscontro nella realtà dei fatti. Infatti, la fase applicativa sta confermando che gli aumenti colpiscono maggiormente le fasce economicamente più deboli, gli inquilini che abitano gli stabili più vecchi e degradati e le città più grandi.
A tutto questo va poi aggiunto un dato che il governo regionale omette con un’ostinazione degna di migliore causa, cioè, che gli inquilini degli alloggi sociali, Aler e comunali, pagano anche le “spese”, che su base annua possono essere persino superiori al canone corrisposto, specie per i cittadini meno abbienti. Ebbene, non solo la legge regionale non interviene sull’assenza di trasparenza e sui diffusi sprechi, che fanno sì che il riscaldamento costi spesso più di quanto paghi qualsiasi condominio privato, ma mantiene integro l’obbligo per gli inquilini di pagare una serie di voci di spesa improprie, come quella di amministrazione, e soprattutto non pone alcun freno alla crescita continua delle spese, che ha caratterizzato gli ultimi anni.
Insomma, qui l’equità e la lotta ai privilegi non c’entrano un bel niente, poiché il risultato dell’operazione della Giunta Formigoni è unicamente quello di mettere in ulteriori difficoltà economiche quei cittadini che già oggi faticano terribilmente a sbarcare il lunario.
Ma allora, perché il governo regionale difende ad oltranza l’indifendibile? E qui arriviamo all’omissione pubblica più grave, cioè a quello che avvenne in Regione un anno prima dell’approvazione della legge 27. Infatti, all’inizio di dicembre del 2006, la Giunta Formigoni chiese ed ottenne il taglio drastico di oltre mezzo miliardo di euro sugli investimenti per la realizzazione e la manutenzione delle case popolari.
E, per la cronaca, è utile ricordare che allora quel taglio fu motivato dall’impossibilità di reperire tali fondi. Peccato però, che soltanto due settimane più tardi fu approvato il Bilancio regionale, che, guarda caso, stanziava per il triennio a seguire 470 milioni di euro freschi freschi per il nuovo Palazzo della Regione!
Tutto chiaro? Prima si tagliano brutalmente i fondi pubblici e un anno dopo si chiede agli inquilini di autofinanziarsi l’edilizia pubblica.
Nell’esprimere il nostro totale accordo con i sindacati inquilini che oggi manifesteranno davanti al Pirellone, chiediamo che il governo regionale riapra immediatamente il confronto con le parti sindacali e con l’opposizione consiliare, al fine di procedere alle opportune e necessarie modifiche della legge regionale n. 27.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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Martedì 8 aprile, i sindacati inquilini lombardi tornano in piazza contro l’ingiusta e iniqua legge regionale n. 27/2007, voluta dalla Giunta Formigoni, che ha aumentato brutalmente i canoni d’affitto nelle case popolari della Lombardia. L’appuntamento è alle ore 16.30, a Milano, in piazza Duca d’Aosta, cioè davanti al Pirellone, sede del governo regionale lombardo.
Anche alla luce del fatto che la fase applicativa della legge ha confermato tutte le preoccupazioni e le critiche già a suo tempo avanzate sia dalle organizzazioni sociali che dall’opposizione politica in Consiglio, i sindacati inquilini chiedono unitariamente di modificare la legge 27.
 
Invitiamo tutti e tutte a sostenere la mobilitazione e a parteciparvi.
 
Qui sotto potete scaricare tutti i materiali sindacali: il volantino della manifestazione, la piattaforma sindacale e una proposta di ordine del giorno per i consigli comunali.
 

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La lotta paga! I 400 operai delle Officine FFS di Bellinzona hanno raggiunto una prima vittoria. Infatti, dopo un mese di sciopero totale, appoggiato dalla popolazione locale, le ferrovie svizzere hanno ritirato il piano di ristrutturazione, che prevedeva la liquidazione dello stabilimento ticinese e dei posti di lavoro.
Questa mattina l’assemblea dei lavoratori ha deciso la fine dello sciopero e la ripresa del lavoro. Ora si aprirà il negoziato e la strada sarà ancora lunga, ma intanto non c’è più la spada di Damocle del piano di ristrutturazione.
Ricordiamo il sito web dei lavoratori delle Officine: www.officine.unia.ch
 
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di lucmu (del 05/04/2008, in Politica, linkato 933 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 5 aprile 2008 (pag. Milano)
 
Un’altra settimana sta per concludersi, ma per Milano non è stata una settimana qualsiasi. Il contrasto apparente tra i trionfalismi per l’Expo, supposta cura per tutti i mali della metropoli, e il realismo misero dello sgombero della baraccopoli della Bovisasca, con le centinaia di uomini, donne e bambini costretti a vagare per le strade, è qualcosa di più di una semplice notizia di cronaca. È piuttosto una metafora dell’oggi, della città esistente e di quella futura.
Nemmeno l’ipocrisia sembra più fare scandalo, quasi fosse divenuta una virtù della modernità. E così, il sindaco elargiva parole mielose di gratitudine a un’Africa lontana, mentre la sua amministrazione procedeva all’espulsione di centinaia di profughi di guerra africani dai dormitori comunali. Nulla di straordinario, per carità, succede tutti gli anni. E poi, l’inverno è finito e quindi si può tornare tranquillamente a dormire nelle aree dismesse.
La vetrina luccicante da esibire e la povertà da nascondere sotto il tappeto. Le due facce che disegnano un’unica medaglia, quella di una società dove le differenze sociali si acutizzano e di una città sempre più ostaggio degli interessi di pochi. Il sindaco e il suo vice fanno il loro mestiere, il primo si occupa della buona riuscita degli affari, il secondo di vendere percezione di sicurezza e di castigare gli esclusi e gli oppositori.
Poi c’è il cardinale, che ha messo in imbarazzo il sindaco, ricordandogli che esistono anche e soprattutto i diritti umani. Due giorni dopo ha spiegato a Confcooperative che i contratti di lavoro “al massimo ribasso” e precari non vanno bene. A dire il vero, non è la prima volta che si espone, anzi è una delle poche voci autorevoli della città che parla della sempre più esplosiva questione sociale, cioè del lavoro, della casa, delle periferie, dell’esclusione e delle solitudini urbane, senza cedere alla demagogia securitaria.
Il cardinale fa molto di più del suo mestiere, dicendo quello che molti altri dovrebbero dire. Anzi, riempie un vuoto di coscienza critica e di iniziativa politica. In questi giorni, quasi quasi, veniva voglia di urlare “viva il Cardinale, abbasso il Sindaco!”. Ma, con tutto il rispetto e l’apprezzamento per lui, non possiamo mica finire con una riedizione moderna dei guelfi e dei ghibellini e così dobbiamo occuparci di noi, di quelli di sinistra.
La sinistra si è sentita poco. Sull’Expo quasi per nulla, sommersa com’era dall’assordante plauso bipartisan. Certo, ci sono state alcune prese di parola, ma che in fondo hanno semplicemente confermato quello che sapevamo già, cioè che il dibattito è ancora da fare. Anche sullo sgombero della Bovisasca c’è stato troppo silenzio pubblico e non è tutta colpa di un’informazione cittadina che ormai concede poco fuori dal duopolio PdL-Pd.
L’assenza di iniziativa e chiarezza della sinistra in questa settimana è paradigmatica dello stato di cose presente, poiché si è prodotta esattamente su due questioni che attengono intimamente all’idea e al progetto di città e di società. Le trasformazioni urbanistiche dell’area metropolitana sono di fatto guidate da pochi, ma potenti interessi privati che disegnano una metropoli a misura di affari, dove chi abita il territorio e vi lavora è ridotto a spettatore rispetto alle decisioni che contano, a produttore a buon mercato di ricchezze altrui e a consumatore frenetico. E chi non si adegua o chi non ce la fa diventa un fastidio e un problema di ordine pubblico.
Ecco perché è determinante che la ricostruzione di una soggettività della sinistra parta da un’altra idea di città, dove vengono prima le persone e dopo il business, prima il trasporto pubblico e dopo le colate di asfalto, prima le periferie popolari e dopo le new towns per i benestanti, prima l’inclusione e la giustizia sociale e dopo le polizie.
Senza un’altra idea di città saremo condannati alla subalternità. Senza la ripresa della mobilitazione e del conflitto non rimane che l’impotenza. E senza il protagonismo e la partecipazione dei soggetti sociali e della cosiddetta “sinistra diffusa”, fatta di comitati, associazioni, realtà sindacali e centri sociali, non si va da nessuna parte.
 
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Formigoni predica bene, ma razzola male. Mentre risuonano ancora le sue parole di mezza presa di distanza dallo sgombero della baraccopoli della Bovisasca, stamattina è piombato in Consiglio un provvedimento della Giunta regionale, di segno diametralmente opposto.
Infatti, la Commissione II era chiamata ad esprimere il suo parere sulla delibera di Giunta che definisce “criteri e priorità per l’assegnazione del finanziamento ai progetti in materia di sicurezza urbana” per il biennio 2008-2009. In altre parole, si tratta dei finanziamenti regionali da destinare alle polizie municipali, in base ai progetti presentati dagli enti locali, dall’importo compreso tra 30mila e 500mila euro.
Ebbene, la delibera introduce una novità rispetto al biennio precedente, cioè la valutazione dell’efficacia e dell’efficienza dei progetti finanziati in base a una serie di indicatori. E che indicatori! Infatti, accanto a quelli sacrosanti, come il numero di controlli di sicurezza sui luoghi di lavoro o quello dei controlli con l’alcooltest, abbiamo trovato delle voci più che sconcertanti, come il “numero di sgomberi di campi nomadi effettuati” e il “numero di soggetti irregolari extracomunitari fotosegnalati”.
E allora cerchiamo di capirci. Per fare punteggio e avere una valutazione positiva dell’investimento, le vigilanze urbane dovrebbero sgomberare tanti rom - a prescindere da dove finiscono- oltre che rincorrere tutte le persone con sembianze non italiane e fotografarle, nella speranza di individuare tanti irregolari. Altro che sicurezza urbana, qui siamo all’istigazione alla xenofobia istituzionale!
E tanto per ribadire il concetto, il documento elencava, sotto la voce “sviluppo di iniziative per interventi di mediazione culturale e reinserimento sociale”, i seguenti acquisti finanziabili: “monitor, videoproiettori, videocamera digitale, macchina fotografica digitale”. Cioè, l’inserimento sociale si fa con le foto segnaletiche?
Che non si trattasse di bazzecole, è stato poi confermato dal diffuso imbarazzo che si è fatto largo in Commissione in seguito alle nostre veementi proteste. E così, è seguito lo stralcio totale dell’indicatore sugli immigrati da fotosegnalare, la riscrittura di quello sugli sgomberi, con la sostituzione del criterio etnico “campo nomadi” con quello di “insediamenti abusivi”, e la cancellazione delle videocamere e macchine fotografiche dagli strumenti finanziabili per il “reinserimento sociale”. Una scelta condivisa all’unanimità dalla Commissione, compresi i consiglieri di Lega e An.
La nostra opinione sull’insieme del provvedimento rimane negativa, poiché si continua a stimolare la trasformazione delle vigilanze urbane in una sorta di polizia del sindaco. Ma aver evitato l’introduzione dei criteri etnici voluti dalla Giunta regionale è sicuramente una piccola vittoria di civiltà, che fa onore al Consiglio.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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L’Assessore regionale alla Polizia Locale, Massimo Ponzoni, ha risposto alla nostra interrogazione relativa all’impiego degli agenti della P.L. di Milano –cioè dei vigili urbani- nello sgombero forzoso delle baracche abitate da rom in via Pozzobonelli, eseguito il 5 dicembre scorso.
L’interrogazione si era resa necessaria perché in quella occasione il vicesindaco De Corato, che detiene altresì la delega alla Sicurezza, aveva pubblicamente rivendicato il fatto che gli agenti della vigilanza urbana erano intervenuti in piena autonomia, cioè non in funzione di appoggio alle forze dell’ordine (vedi anche la news su questo blog del 6-12-2007).
Ebbene, la risposta dell’assessore conferma anzitutto che lo sgombero era stato realizzato in piena autonomia dalla P.L., cioè “direttamente, da sola”. Tuttavia, ritiene che tale intervento autonomo non sia in contrasto con le vigenti leggi nazionali, che assegnano la gestione dell’ordine pubblico agli organi di polizia dello Stato, né con le leggi regionali, che riconoscono alla P.L esclusivamente “funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza”.
L’argomento invocato per giustificare tale impiego della vigilanza urbana risiede nella considerazione che si era trattato di un intervento relativo a un fenomeno di abusivismo di “piccole dimensioni”. Cita a sostegno di questa tesi altresì una circolare del Prefetto di Milano, del 16 novembre scorso, in cui effettivamente si riconosce alla P.L. la facoltà di poter procedere in autonomia all’”allontanamento forzoso di persone” in certe condizioni.
Insomma, la tendenza alla militarizzazione dei vigilanza urbana e alla sua trasformazione in polizia del sindaco, invocato da amministratori sia di destra che del Pd, continua imperterrita, anche a costo di interpretazioni della legge a dir poco discutibili. Questo e non altro significa, infatti, voler distinguere le funzioni di pubblica sicurezza e di ordine pubblico da quelle che non lo sono in base a un criterio meramente quantitativo, cioè in base alla “dimensione” dell’intervento repressivo.
Qualcuno potrà dire che si tratta di piccole cose e che non vale la pena perderci tempo, ma noi pensiamo che l’esperienza insegni che spesso sono proprio i “dettagli” a dare la misura delle involuzioni in atto in materia di sicurezza e securitarismo.
 
qui sotto puoi scaricare sia l’interrogazione, che la risposta dell’Assessore
 

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