Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Confesso, questo post lo scrivo malvolentieri, un po’ perché questo blog ha sempre cercato di tenersi lontano da quelle che vengono percepite da tanti e tante (a torto?) come semplici “beghe” di palazzo o di partito, un po’ perché non c’è nulla di edificante da raccontare. Infatti, non ne volevo scrivere.
Ma poi il fatto, cioè la fuoriuscita dal gruppo consiliare regionale di Rifondazione di Agostinelli e Squassina e la conseguente formazione di un ulteriore gruppo, diventa pubblico, com’è successo ieri con l’intervista di Mario Agostinelli sul giornale on-line www.affaritaliani.it (riproduciamo per correttezza l’intervista, nonché la mia successiva dichiarazione, in fondo a questo post). E, giustamente, qualche amico, compagno o elettore ti chiede che cavolo sta succedendo. Allora ti rendi conto che il silenzio, sebbene ispirato a buoni propositi, non è praticabile. Anzi, è proprio sbagliato, anche perché se siedi in Consiglio regionale è perché qualcuno ha votato una determinata lista, in questo caso quella di Rifondazione del 2005, ed espresso una determinata preferenza. Insomma, questo post, in fondo, è un atto dovuto.
IL FATTO. Lunedì 11 maggio l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale ha preso atto, mediante propria deliberazione, della costituzione di un nuovo gruppo, denominato “Unione per Unaltralombardia” e composto da Mario Agostinelli (capogruppo), Osvaldo Squassina e Giuseppe Civati.
Con la fuoriuscita dal gruppo di Rifondazione di Agostinelli (già capogruppo indipendente Prc) e Squassina, il gruppo ”Rifondazione Comunista – Sinistra Europea” rimane dunque composto dal solo sottoscritto, che per matematica ne diventa quindi anche il nuovo capogruppo.
Nulla cambierà invece nel Partito Democratico, poiché l’adesione al nuovo gruppo da parte di Civati, proveniente appunto dal Pd, è soltanto temporanea ed egli ritornerà al Pd al più presto, come ha chiarito il capogruppo del Pd in Consiglio, Carlo Porcari, con le seguenti parole consegnate all’Ansa ieri: “Civati è e rimane del Pd, ma il cui appoggio consente alla nuova formazione di avere una propria rappresentanza nell'aula del Consiglio”.
Infatti, va ricordato che il Regolamento del Consiglio regionale prevede che per poter formare un nuovo gruppo bisogna essere almeno in tre, salvo nel caso in cui il/i consigliere/i siano espressione di una lista che ha ottenuto la legittimazione del voto popolare.
A sinistra del Pd il panorama si “arricchisce” dunque di un ulteriore gruppo. Cioè, per fare l’elenco aggiornato: Prc, Sd, Verdi, Comunisti Italiani e Unione per Unaltralombardia. A questo potrebbe essere aggiunta l’Italia dei Valori, ma non mi pare possa essere definita una forza di sinistra.
LA PREISTORIA. Il gruppo consiliare regionale ”Rifondazione Comunista – Sinistra Europea” era stato costituito all’inizio della Legislatura (2005) dai tre consiglieri eletti sulle liste di Rifondazione (Squassina a Brescia, Agostinelli e Muhlbauer a Milano). Capogruppo era stato nominato, su indicazione del partito, l’indipendente Agostinelli. In tutti questi anni, la diversità tra noi tre non è mai diventato un problema politico, anzi, è stato di fatto un punto di forza del gruppo. Così come non si sono mai registrate divergenze significative, a parte le solite discussioni che si producono in ogni gruppo umano, sul modo e sul merito del fare opposizione al sistema di potere di Formigoni.
Ma poi, in questo 2009, è successo che Rifondazione ha vissuto la scissione di una parte dell’area congressuale che faceva riferimento a Niki Vendola. Osvaldo Squassina, da subito, aveva scelto di stare con quel percorso, che poi avrebbe portato alla lista “Sinistra e Libertà”. E quindi, da tempo, egli, pur non abbandonando il gruppo di Rifondazione, faceva attività a favore di quella lista e dichiarava di non rappresentare più il Prc.
Una situazione che con il tempo si faceva complicata, a tratti schizofrenica, visto che nel frattempo si è aggiunta la partecipazione di Agostinelli, in quanto capogruppo di Rifondazione, a qualche iniziativa promozionale di “Sinistra e Libertà”. Di fronte a questa confusione galoppante, il Congresso regionale del Prc, svoltosi il 22 marzo scorso, ha chiesto formalmente quello che in realtà è normale per qualsiasi formazione politica: cioè, che i consiglieri regionali del gruppo di Rifondazione, data anche la loro visibilità pubblica, non facessero campagna elettorale per altre liste, oggettivamente in competizione con quella del partito di riferimento.
Questa richiesta era stata però ritenuta irricevibile e pertanto si è arrivati alla scelta da parte di Mario e Osvaldo di abbandonare il gruppo.
UN COMMENTO. Ed è la parte più breve, perché penso che chi legge, se ha avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, è perfettamente in grado di farsi un’idea di quello che è successo. E poi, di ulteriori polemiche a sinistra non si sente proprio il bisogno. Anzi, forse è proprio la troppa autoreferenzialità che rende così terribilmente faticoso individuare una via d’uscita dal disastro in cui tutte le sinistre sono precipitate.
Tuttavia una cosa va detta, per onestà. Sento un dispiacere personale, oltre che politico, per la scelta di Mario e Osvaldo e posso anche capire le loro motivazioni, ma non capisco il senso dell’operazione. Cioè, a un anno soltanto dalle elezioni regionali, dove si porrà a tutti quanti il problema di costruire una proposta credibile, autonoma e aperta della sinistra, provocare un’ulteriore divisione, senza peraltro riaggregare nulla, è un grave errore politico. E che tutto questo avvenga nella separatezza del “palazzo” non rende certo più comprensibile il tutto.
Qui di seguito l’intervista di Agostinelli rilasciata a Affaritaliani.it e poi il mio intervento, così come sono stati pubblicati dal giornale on-line:
Regione Lombardia/ Mario Agostinelli (Prc) ad Affaritaliani.it: "Esco da Rifondazione per dare vita a Unione per un'altra Lombardia"
Mercoledì 13.05.2009 15:56
Il consiglio regionale si arricchisce di un altro gruppo. Si chiamerà Unione per un'altra Lombardia nel quale confluiranno i vendoliani che si staccheranno da Rifondazione comunista. Ad annunciare la scissione ad Affaritaliani.it è proprio l'ex capogruppo del Prc al Pirellone Mario Agostinelli che da qualche tempo non è "più in sintonia con la politica del partito. Per questo – spiega - ho chiesto alla presidenza del consiglio regionale di permettere, nella fase in cui il gruppo del Prc composto da tre persone si divide, di mantenere la rappresentanza sia del Prc che dell'area più vicina a Vendola dentro il consiglio, per impedire che vadano entrambe nel gruppo misto". Com'è avvenuto questo passaggio? "Giuseppe Civati del Pd si rende disponibile ad assicurare questo diritto di tribuna: nel tempo tecnico necessario al consiglio per espletare questa transizione farà parte, tecnicamente e non politicamente, di Unione per un'altra Lombardia e subito dopo tornerà nei Democratici. Un gesto che apprezzo e che garantisce il pluralismo"
Anche Rifondazione comunista regionale di divide…
“Sì. Per compiere questo atto di pluralismo ho chiesto alla presidenza del consiglio regionale di permettere, nella fase in cui il gruppo del Prc (composto da tre persone) si divide, di mantenere la rappresentanza sia del Prc che dell'area più vicina a Vendola dentro il consiglio, per impedire che vadano entrambe nel gruppo misto".
Com'è avvenuto questo passaggio?
"Giuseppe Civati del Pd, con l’avallo del suo capogruppo Porcari, si è reso disponibile ad assicurare questo diritto di tribuna: nel tempo tecnico necessario al consiglio per espletare questa transizione farà parte da oggi in poi, tecnicamente e non politicamente, di Unione per un'altra Lombardia e subito dopo tornerà nei Democratici. Un gesto che apprezzo e che garantisce il pluralismo”
Una sorta di garanzia di pluralismo...
"Certamente. Il problema è proprio il diritto di tribuna. E' un vantaggio per tutti. Nessuno ha abiurato. Io ho fatto questo per coerenza, visto che potevo rimanere capogruppo del Prc pur essendo oggi non in consonanza con le scelte del partito. Quindi è un atto che tutti hanno apprezzato. Ma vorrei aggiungere una cosa..."
Dica...
"In molti stanno trascurando che se questo passaggio non fosse possibile dovremmo cacciare cinque dipendenti. Da parte mia mi prendo tutte le responsabilità di una procedura contemplata e corretta che salva il pluralismo politico. Sono fiero di fare questa cosa perché non caccio Rifondazione dal consiglio e salvo 5 posti di lavoro".
Daniele Riosa
Lombardia/ Luciano Muhlbauer (Prc) ad Affaritaliani.it: "Agostinelli? Ha commesso un grave errore politico"
Giovedì 14.05.2009 12:19
Volano gli stracci a sinistra. Luciano Muhlbauer, capogruppo del Prc-Se in Regione, con una nota inviata ad Affaritaliani.it, attacca Mario Agostinelli che, sempre ad Affari, ha annunciato la sua fuoriuscita dal partito e la creazione di un nuovo gruppo consigliare in Regione di ispirazione vendoliana che si chiamerà Unione per un'altra Lombardia
"Con dispiacere - spiega Muhlbauer - abbiamo dovuto prendere atto della decisione di Mario Agostinelli e Osvaldo Squassina di fuoriuscire dal Gruppo consiliare regionale di Rifondazione Comunista. Una decisione sicuramente comprensibile e persino ovvia, alla luce della scelta di sostenere la lista "Sinistra e Libertà" alle Europee, ma che non possiamo non considerare un grande errore politico, poiché il suo unico effetto concreto è quello di aumentare la frammentazione delle sinistre in Consiglio regionale. Siamo tuttavia delle persone ostinate e pertanto continueremo a lavorare perché le elezioni regionali del 2010 vedano la presenza di una coalizione di sinistra credibile, aperta, autonoma e alternativa al regime formigoniano, auspicando di ritrovare su questa strada anche Agostinelli e Squassina. Dobbiamo tuttavia rettificare in un solo punto le dichiarazioni di Agostinelli rilasciate ad Affaritaliani. Cioè, l'esistenza autonoma di Rifondazione Comunista in Consiglio non è mai stata in discussione, perché gli unici che possono "cacciare" il Prc, o qualsiasi altra forza politica legittimamente rappresentata, sono gli elettori lombardi. Infatti - conclude il capogruppo del Prc - le norme e le regole del Consiglio regionale prevedono in ogni caso la rappresentanza autonoma di una forza politica, purché questa sia espressione diretta del voto popolare. Altre regole, più restrittive, valgono invece nel caso della formazione di nuovi gruppi, non espressione del corpo elettorale”.
La sospensione permanente della libertà di manifestare in alcuni luoghi pubblici di Milano, tra cui piazza Duomo e Palazzo Marino, annunciata da Moratti, De Corato e Prefetto, è illegale e non sarà, da parte nostra, né condivisa, né rispettata. Anzi, qualora sciaguratamente il centrodestra dovesse davvero imporre tali divieti incostituzionali, inviteremo i cittadini alla disobbedienza.
Il tentativo di imbavagliare i cittadini, specie quelli che non la pensano come il centrodestra, si basa formalmente sulla direttiva del Ministro Maroni del 23 gennaio scorso, la quale rappresenta un autentico capolavoro di acrobazia giuridica. Infatti, essa tenta surrettiziamente di modificare le prescrizioni dell’articolo 17 della Costituzione e le stesse norme di legge in materia (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), che prevedono il divieto di manifestare unicamente per “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”.
È questo palese carattere anticostituzionale che spiega il tentativo del centrodestra di coinvolgere nella decisione anche le forze politiche e sociali estranee alla maggioranza di governo, che così fornirebbero legittimità a un provvedimento illegittimo. Purtroppo a Roma il Pd e i sindacati confederali avevano collaborato e il prezzo l’hanno pagato poi gli studenti della Sapienza, a suon di manganelli. Auspichiamo pertanto che a Milano non si voglia ripetere questo madornale errore.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
qui sotto puoi scaricare il testo integrale della Direttiva Maroni sulle manifestazioni
Ci sono momenti che condensano meglio di mille dotte analisi il senso dei tempi in cui viviamo. E l’ultima settimana a Milano, tra rifugiati trattati come un mero problema di ordine pubblico e crociate anti-kebab trasformate in legge regionale, è uno di questi. Ma andiamo con ordine, giusto per non dimenticare.
Nella notte di venerdì 17 aprile 300 rifugiati africani sono emersi dall’invisibilità. Succede ciclicamente a Milano, perché la polvere sotto il tappeto ci rimarrà pure, ma non così gli esseri umani. Questa volta si sono materializzati nel quartiere Bruzzano, periferia nord. Il luogo è un monumento alla speculazione edilizia e all’abbandono delle periferie, che fa di Milano una città dalla percentuale di edifici vuoti e alloggi sfitti senza pari tra le metropoli europee. Tre casermoni gemelli, in mezzo un albergo funzionante, da un lato uno stabile sventrato stile Sarajevo e dall’altro quello occupato dai rifugiati, vuoto da molti anni.
Lunedì pomeriggio la Questura ha censito i rifugiati, smentendo il grido “sono clandestini!” del farneticante De Corato e stabilendo che erano 299, tutti con regolari permessi di soggiorno, tutti accolti dallo Stato italiano perché scappati da guerre e persecuzioni. In larga maggioranza eritrei e gli altri sudanesi, etiopi e somali. 28 donne, due bimbi e il resto uomini. Eppure, soltanto 12 ore più tardi è arrivata l’operazione di polizia. Avevano deciso che andava sgomberato l’edificio, il resto era un dettaglio. Ne sono seguiti tensione, inganni, proposte improvvisate di ospitalità precaria nei dormitori per una minoranza di loro e molte manganellate. Alla fine i rifugiati sono finiti per strada, qualcuno anche ferito.
Manco a dirlo, il coro ufficiale del giorno dopo ha subito assolto le istituzioni e accusato i rifugiati stessi e/o gli immaginari “registi occulti”, promettendo le denunce del caso. Nel frattempo i rifugiati avevano dormito al Pini, grazie all’ospitalità dell’associazione Olinda, poi sono scesi in corteo nel centro città e la seconda notte l’hanno passata sull’asfalto di Porta Venezia. Infine, giovedì, è arrivato l’epilogo momentaneo della vicenda, imposto con un’ulteriore esibizione di muscoli da parte della istituzioni. Così, un gruppo di rifugiati presenti al momento nei giardini di P.ta Venezia è stato prelevato dalla polizia e portato in un parcheggio sotterraneo di Quarto Oggiaro, ufficialmente per identificarli –ripetendo di fatto l’operazione di tre giorni prima…-, ma in realtà per imporre con la forza una “soluzione”.
I rifugiati, cioè il centinaio presente, poiché gli altri 200 censiti non sembrano più esistere per Comune e Prefettura, a questo punto hanno optato per la tregua, accettando per 15 giorni di stare in un centro comunale. Tregua durata comunque soltanto una notte, poiché gli accordi imposti con la forza e la minaccia tendono a non durare nel tempo.
E mentre le istituzioni giocavano a fare la guerra a 300 rifugiati, il centrodestra in Consiglio regionale, nello stesso giorno dello sgombero dei profughi, non ha trovato di meglio che approvare una legge regionale, composta da soli sei articoli, il cui unico scopo è quello di assecondare la campagna leghista contro le rivendite di kebab, considerate nemiche perché gestite in prevalenza da immigrati. Cioè, la medesima futile e misera ragione che aveva giù motivato le legge regionale contro i phone center.
E pur di farlo, non potendo ovviamente scrivere una legge speciale sulle sole kebaberie, hanno penalizzato anche le gelaterie, le rosticcerie e le rivendite di pizze al trancio, nonché contraddetto la legge n. 248/2006 (“decreto Bersani”). E così, tutte quelle imprese artigiane non potranno più mettere nemmeno una sedia davanti al negozio, né vendere bibite senza DIAP e dovranno chiudere entro l’una di notte, pena multe e chiusure forzate.
A tutto questo va aggiunta, inoltre, la norma regionale, inserita nella legge urbanistica il 3 marzo scorso, sempre su pressione della Lega, che dà ai Sindaci il potere discrezionale di vietare qualsiasi attività, qualora venga considerata “suscettibile di determinare situazioni di disagio a motivo della frequentazione costante e prolungata dei luoghi”. Cioè, anche qui, non solo le kebaberie, ma qualsiasi cosa.
Insomma, dei cassaintegrati e dei precari licenziati si parla sempre di meno, ma in cambio le istituzioni si scagliano, armati dei loro poteri e dei loro proclami, contro profughi africani, kebab e gelati. Sarà un caso?
Meno male che ieri c’è stato il bel 25 aprile, almeno abbiamo respirato un po’, nonostante le presenze indesiderate, e per un giorno abbiamo potuto far finta di non vivere in una città dove il ridicolo e lo squallido stanno diventando pubbliche virtù.
qui sotto puoi scaricare il testo integrale della legge regionale anti-kebab-gelati-eccetera
Il candidato del Fmln (Frente Farabundo MartÍ para la Liberación Nacional), Mauricio Funes, ha vinto le elezioni presidenziali in El Salvador. Così dicono i dati ormai quasi definitivi dello spoglio e così ha riconosciuto il candidato della destra. Una vittoria della sinistra che si inserisce certamente nella dinamica più generale che sta vivendo l’America Latina, così diversa da quella del vecchio continente, ma che rappresenta anche un fatto epocale per il piccolo paese centroamericano.
El Salvador è stato negli anni ’80 teatro di una delle più feroci guerre di bassa intensità promosse dagli Stati Uniti. Alla fine del decennio i morti erano circa 70mila, in gran parte civili massacrati dall’esercito e dagli squadroni della morte. Soltanto all’inizio degli anni ’90 furono siglati degli accordi di pace, che posero fine alla dittatura e permisero al Fmln, uno dei movimenti guerriglieri più intelligenti e maturi del continente, di spostare la sua battaglia sul terreno politico e civile.
In tutti questi anni l’ex fronte guerrigliero riuscì a conquistare il governo di molte municipalità, compresa la capitale, ma mai ottenne la vittoria alle elezioni presidenziali, che rimasero invece appannaggio del partito di destra Arena. Quest’ultimo si era formato negli anni ’80 ed era una creatura di quell’apparato militar-oligarichico che dominava il paese con la violenza praticamente per tutto il Novecento. Non a caso, tra i principali fondatori di Arena c’era Roberto D’Aubuisson, organizzatore degli squadroni della morte e responsabile nel 1980 dell’omicidio di Monsignor Romero, il coraggioso arcivescovo di San Salvador.
Ovviamente, sarà il futuro a dirci se la realtà del governo corrisponderà alle aspettative, ma oggi godiamoci la buona notizie. E questo vale sicuramente per quelli e quelle come me, che ai tempi si erano impegnati nella solidarietà con la lotta di liberazione del popolo salvadoregno, conobbero il paese in guerra e si ricordano ancora bene delle tante straordinarie persone, contadini, operai e studenti, che animarono con il loro agire la speranza nei momenti più bui, sacrificando finanche le loro vite.
Le note difficoltà economiche de il Manifesto, accentuate dalla crisi, rischiano di portare a brevissimo al taglio della pagina milanese, alla chiusura della redazione e al licenziamento di Mariangela e Alessandro. Una prospettiva insensata, dovuta forse più alla lontananza di Milano da Roma, che non a una valutazione editoriale e politica.
La redazione milanese si oppone a questa scelta, ma da soli non ce la fanno e hanno bisogno di una mano. In fondo, chi di noi, che stiamo a Milano o in Lombardia, non ha mai usato la pagina milanese, per segnalare iniziative che altrove non sarebbero state pubblicate, per scriverci, per leggere o semplicemente per sapere dove passare serata?
Per questo vi invito a leggere il sottostante appello, a farlo circolare dove potete e, soprattutto, a firmarlo, inviando una mail a redmi@ilmanifesto.it, segnalando nome, cognome, età e professione.
Mi dicono che stanno arrivando già molte adesioni in redazione, ma servono di più e urgentemente, possibilmente entro lunedì, poiché già martedì a Roma si discuterà di chiusura.
Appello urgente:
Siamo lettori, abbonati e sostenitori milanesi e lombardi del manifesto. Conosciamo bene le difficoltà che la crisi comporta per la carta stampata e ancora di più per il nostro giornale. Ma sappiamo anche che proprio in tempi così difficili il manifesto è più che mai uno strumento irrinunciabile.
La crisi in corso spinge verso destra, portando a pericolosi rigurgiti, scontri tra poveri, minacce per i lavoratori, nazionalismo e razzismo, arretramento economico e culturale, che rischiano di chiudere ogni spazio di iniziativa per qualsiasi cosa che si muove a sinistra. Anche per questo non abbiamo smesso di sostenere il manifesto e per queste ragioni ci permettiamo di chiedervi di mantenere e, se possibile, migliorare la pagina milanese del nostro giornale e di mantenere attivo il presidio della redazione milanese.
La pagina locale per tanti e tante di noi è uno dei pochi spazi che ci sono ancora concessi per far conoscere le nostre iniziative e per poter discutere le nostre idee: ci piacerebbe potesse esprimere ancora di più queste potenzialità, permettendo alla redazione di mantenere accesi i riflettori sulla realtà metropolitana. Viviamo in una città e in una regione difficili, ma Milano e la Lombardia sono ancora un territorio vivo e comunque di fondamentale importanza per la sinistra e i movimenti sociali.
La redazione milanese rimane uno dei luoghi ancora agibili a Milano, una risorsa a cui sarebbe sbagliato rinunciare, per noi e per voi. Siamo consapevoli che la crisi del giornale può portare ripensamenti e persino all’ipotesi di chiusura della redazione e della pagina locale. Vi chiediamo di non farlo. Siamo disponibili a dare una mano e a incontrare i responsabili della cooperativa per scongiurare questa eventualità.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 12 marzo 2009 (pag. Milano)
Del pacchetto sicurezza, cioè del disegno di legge governativo “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, si è parlato molto, ma in realtà persino molta parte dei cittadini più sensibili ne conoscono soltanto quei frammenti che hanno avuto più eco mediatico.
E così, non solo si ignora largamente la vera portata della stretta securitaria contro i migranti, sia irregolari che regolari, contenuta nei 66 articoli del pacchetto, una sorta di galleria degli orrori, ma anche che il progetto non si limita alla sola immigrazione. Infatti, il ddl -approvato il 5 febbraio scorso dal Senato e ora all’esame della Camera- introduce altresì una serie di norme che riguardano più o meno direttamente il conflitto sociale e la libertà di espressione, ponendosi così in linea di continuità con le recenti iniziative restrittive in materia di diritto di sciopero e libertà di manifestazione.
Lasciamo stare in questa sede lo sdoganamento delle ronde, peraltro già anticipato con il decreto “anti-stupri” del 20 febbraio, oppure le varie norme che intensificano le sanzioni in tema di “decoro urbano”, nella sua accezione più ampia, per concentrarci invece su tre innovazioni altamente significative.
Anzitutto, vi è la reintroduzione nel codice penale di un reato abolito nel 1999: l’oltraggio a pubblico ufficiale, punibile con la reclusione fino a tre anni. E come se non bastasse, la definizione del reato è talmente vaga, cioè “chiunque offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale”, che non è difficile prevedere che si ripresenteranno i medesimi abusi che avevano motivato la precedente abolizione. Attenti dunque ai vostri slogan e alle vostre parole al prossimo corto, presidio o sciopero, perché potrebbero costarvi caro.
In secondo luogo, c’è la norma che prevede la sospensione cautelativa e lo scioglimento di “organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi”, qualora la loro attività abbia “favorito” la commissione di un delitto con finalità di terrorismo o di un reato aggravato dall’”eversione dell’ordine democratico” (ai sensi del decreto-legge n. 625/79). La sospensione viene disposta dal giudice nel corso del processo, ma lo scioglimento può essere ordinato dal solo Ministro degli Interni in seguito a sentenza definitiva.
Certo, a prima vista questa norma può apparire innocua per quanti agiscono alla luce del sole, ma poi basta richiamare alla mente i recenti e sempre più frequenti proclami di politici della destra, come De Corato, ma non solo, che tentano di accreditare le loro campagne politiche contro i centri sociali o i movimenti antagonisti con l’allusione che sarebbero contigui al terrorismo. In altre parole, sarà sufficiente che un condannato per le fattispecie di reato indicate abbia frequentato qualche volta un certo centro sociale o riunione pubblica e il Ministro potrà procedere allo scioglimento.
Infine, vi è il gentile contributo dell’Udc al pacchetto, cioè l’emendamento, ovviamente accolto, del Senatore D’Alia. Si tratta di un vero e proprio intervento censorio rivolto a internet, poiché prevede che se su un sito vengono pubblicati contenuti considerati apologia di reato, istigazione a delinquere o semplicemente un invito “a disobbedire alle leggi”, allora il Ministro potrà ordinare al provider di oscurare il sito entro 24 ore. Detto altrimenti, Facebook, You Tube o blog che sia, tutti a rischio censura. E soprattutto una pesante limitazione della libertà di espressione e di parola di ognuno e ognuna di noi.
Non abbiamo mai condiviso l’allarmismo di quanti gridano al lupo, al lupo di fronte a ogni difficoltà, ma quello che sta accadendo oggi, per giunta in maniera accelerata, contiene tutti gli elementi per poter parlare, armati di sano realismo, di una deriva autoritaria.
O più concretamente, siamo di fronte all’esplicitazione di che cosa significhi “uscire a destra dalla crisi”: non solo sei chiamato a pagare il prezzo in termini di lavoro, reddito, studio e condizione sociale, ma devi pure stare zitto e applaudire i potenti. E se proprio non ce la fai a tapparti la bocca, allora prenditela con lo straniero della porta accanto o con il barbone. Questo e non altro è il pacchetto sicurezza e sarebbe bene che nessuno e nessuna di noi lo dimentichi e che agisca di conseguenza.
qui sotto puoi scaricare il testo del “pacchetto sicurezza” all’esame della Camera
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Aprileonline.info del 20 gennaio 2008
Siamo immersi in un terribile paradosso. Proprio quando i fatti del nostro tempo smentiscono sonoramente i profeti della "fine della storia" e del superamento definitivo di ogni bisogno di cambiamento e alternativa, la sinistra realmente esistente, almeno in Europa, sicuramente in Italia, si trova avviluppata nella più profonda delle sue crisi. Ed è crisi seria, di consenso politico, insediamento sociale, credibilità, progetto e identità.
Un paradosso denso di implicazioni inquietanti, come già ci hanno confermato i primi mesi seguiti alla disfatta politica ed elettorale della primavera scorsa. Cioè, una sinistra sostanzialmente impotente e afona di fronte alla crisi del capitalismo liberista e alla veloce regressione civile e morale che sta investendo la politica e la società, lascia di fatto campo libero al peggio.
Insomma, c’è un grande bisogno di sinistra, ma la sinistra così com’è oggi è fuorigioco, non serve e non evoca nemmeno speranze. In altre parole, è da rifare, da reinventare. Questo è lo stato delle cose e faremmo bene a dircelo in faccia senza troppi giri di parole. Ed è per questo che al Congresso di Rifondazione, quello di Chianciano, anche il sottoscritto avevo sostenuto e votato la mozione n. 2 “vendoliana”. Perché nominava il problema e proponeva di affrontarlo, invece di ritirarsi nel fortino assediato e di rifugiarsi nell’illusione che fosse sufficiente aspettare che la tempesta si calmasse.
Ri-costituire la sinistra in Italia, tuttavia, non è una questione di ingegneria politica o di accordi tra pezzi di gruppi dirigenti esistenti, come aveva peraltro ratificato il fallimento dell’Arcobaleno. È cosa necessariamente più difficile, articolata e ambiziosa e, soprattutto, presuppone una ripartenza dalla società e dai suoi conflitti, cioè dalla rottura della separatezza della politica. E presuppone un’altra cosa: partire dai contenuti, quello che classicamente si chiamava “programma” e “strategia”, e non dai contenitori. Detto altrimenti, occorre partire dalla domanda del “perché” un lavoratore, una giovane, un migrante eccettera dovrebbe impegnarsi nella sinistra o votarla, invece che dalla domanda del “dove” dovrebbe farlo.
In fondo, gli stessi avvenimenti dell’autunno scorso non hanno fatto che riconfermare tutto questo, a partire dal grande movimento di studenti, insegnanti e genitori, che non solo ci teneva alla sua autonomia, come fanno tutti i movimenti veri, ma guardava con enorme diffidenza tutto ciò che sapeva di partiti e di politico. E soprattutto, il dibattito e la discussione sulla sinistra non ha mai nemmeno incrociato quel movimento e gli uomini e le donne che lo componevano.
Sono passati soltanto pochi anni, ma rispetto al movimento nato a Genova nel 2001 sembra passato un secolo. Anche allora la diffidenza verso i soggetti partitici c’era, ma allo stesso tempo vi era anche il pieno riconoscimento dell’internità di Rifondazione al movimento. E quel movimento esprimeva, a modo suo, una grande domanda politica e rappresentava una straordinaria forza centripeta. Oggi, le cose stanno diversamente, allo stato non ci sono luoghi sociali, politici o di movimento che attraggano, che mettano in comunicazione forze diverse, plurali. Oggi a sinistra prevalgono le forze centrifughe, la dispersione e le solitudini, sia a livello politico, che a livello sociale.
In un quadro del genere, ridurre la questione del rifare la sinistra a un’operazione di scissione di Rifondazione in vista delle scadenze elettorali di giugno, appare dunque cosa modesta, ancora prima che sbagliata. È comprensibile certamente la fretta, il voler agire e anche il profondo disagio di fronte al cul de sac in cui l’attuale maggioranza di Rifondazione ha infilato il partito. Ma non è convincente il tipo di risposta offerta, segnata dal metodo politicista, troppo indeterminata politicamente e foriera di nuove dispersioni e divisioni.
Per questo, insieme a molti compagni e compagne di Rifondazione per la Sinistra, non parteciperò alla scissione, continuando dunque la battaglia iniziata a Chianciano, nel partito e nella società.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 8 genn. 2009 (pag. Milano)
A Gaza si continua a morire senza sosta, ma a Milano ci si scandalizza per altro. Cioè, per la preghiera islamica in piazza Duomo di sabato scorso, a cui aveva dato vita una parte dei manifestanti al termine del corteo organizzato dalla comunità palestinese lombarda.
La polemica, innescata dal solito De Corato, il verboso e sempre più noioso vicesindaco nazionalalleato, ha velocemente varcato i confini cittadini e occupa ormai da giorni le pagine nazionali del Corsera e di la Repubblica. E quindi, tutti quanti a dire la loro nel frullatore mediatico. Nulla di straordinario, si direbbe, se non fosse che il nocciolo duro della “polemica” ripropone un triste e inquietante scimmiottamento dello scontro di civiltà, dove all’Islam e ai musulmani viene assegnato immancabilmente il ruolo dei cattivi.
E così, quanti in Italia sostengono la tesi che Hamas –e per proprietà transitiva i palestinesi di Gaza tout court- è semplicemente un’organizzazione terroristica da eliminare con la violenza armata, ora gridano alla provocazione e al pericolo islamico se un centinaio di immigrati si raccoglie in preghiera davanti al Duomo, chiedendo persino di trascinarli in tribunale.
Ma per costoro, in fondo, quanto avviene in Palestina è soltanto un utile pretesto per tentare di “nobilitare” e alimentare una politica che essi perseguono da tempo. A Milano e in Lombardia, da parte di An e Lega anzitutto, la propaganda contro le moschee e il “pericolo islamico” è incessante e non risparmia niente e nessuno. Ogni voce, che sia quella di un laico o quella del cardinale Tettamanzi, che cerchi di riportare un po’ di buon senso viene regolarmente aggredita e tacciata di “buonismo” e di voler svendere l’identità occidentale e cristiana.
Per costoro c’è un unico modo per rapportarsi a una città che è cambiata, che è diventata più multiculturale e multireligiosa: il conflitto. E così, quando i fedeli islamici, esattamente come i fedeli di ogni religione, si riuniscono per pregare, allora scatta l’operazione “no alla moschea abusiva”. Quando poi cercano di dotarsi di un luogo di culto regolare, cioè in possesso di tutti i requisiti e permessi previsti dalla normativa, si passa alla fase 2 e si negano le autorizzazioni e si invocano i referendum preventivi. Figuriamoci se qualcuno si mette a pregare in centro città!
Secondo loro, ogni moschea, ogni aggregazione di islamici e ogni imam sono potenzialmente dei terroristi. C’è da dubitare seriamente che ci credano davvero a queste fandonie, ma l’esperienza recente ha insegnato che funziona egregiamente sul piano del consenso elettorale, così come ha funzionato la caccia al rom. E così, la meschinità di una politica ridotta a lotta per le poltrone con ogni mezzo si incontra con l’ipocrisia di quanti vedono soltanto la violenza dei razzi Qassam, ma mai quella di un’occupazione decennale che costringe un’intera popolazione a vivere chiusa in un recinto di cemento e che ora semina la morte all’ingrosso.
Tuttavia, in questa stucchevole polemica sulla preghiera si annida qualcosa di peggio e di più preoccupante, che nessuno in questi giorni sembra voler considerare. Andando avanti di questo passo, i nostri novelli crociati di provincia rischiano di produrre la classica profezia che si autoavvera, cioè di fornire qui e ora ai predicatori del peggior fondamentalismo islamico, allo stato assolutamente minoritari, gli argomenti e la credibilità che non hanno. In fondo, le macerie di questi anni di “guerra al terrorismo” di Bush e soci dovrebbero insegnare qualcosa.
Ecco perché, da laici incalliti, crediamo che il problema vero per Milano non sia qualche preghiera islamica in Duomo, bensì la miseria morale e la miopia dei suoi amministratori.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 22 luglio 2008 (pag. Milano)
Il Presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, è un fiume in piena. Da una settimana ormai è impegnato in un tormentone mediatico dal leitmotiv “c’è un pezzo di Rifondazione che vuole destabilizzare la maggioranza in Provincia” (vedi Corsera del 20 giugno). E nel calderone polemico ci finisce un po’ di tutto, dalle dichiarazioni del sottoscritto e di Nicotra fino agli affari sulle aree ex-Falck di Sesto San Giovanni, con l’ovvia conseguenza che ogni persona che non sia laureata in provinciologia non riesce più a capire dove stia l’oggetto del contendere. Ma forse è proprio questo uno degli obiettivi del Presidente, vero maestro nell’arte del rovesciare la frittata.
Il tutto iniziò il lunedì di settimana scorsa con un comunicato stampa, poi pubblicato anche da il Manifesto, in cui Penati attaccò frontalmente Nicotra e il sottoscritto, rei di averlo criticato. Ma in realtà le nostre dichiarazioni non c’entravano poi granché, come si evince facilmente dal fatto che le parole incriminate di Nicotra risalivano a una settimana prima, mentre le mie erano assolutamente identiche a quelle pronunciate pubblicamente tante altre volte. No, l’obiettivo della polemica era un altro, sebbene non dichiarato, cioè il congresso provinciale di Rifondazione Comunista, conclusosi 24 ore prima dell’attacco di Penati, in cui era stato approvato a larghissima maggioranza un ordine del giorno che impegnava la federazione milanese ad aprire immediatamente una verifica in Provincia, al fine di valutare se sussistessero ancora le condizioni per poter andare avanti.
E allora è molto più comodo, ma anche molto più sbagliato, cercare di anticipare i tempi e di buttarla in rissa, evitando la politica. E così Penati fa tutto da solo. Lui apre la sua personalissima verifica mediatica, indica i nemici e poi addirittura pretende di chiuderla con un perentorio “oggi non ci sono le condizioni per una crisi in Provincia”, sparato dalle pagine del Corsera. Caro Presidente, così non va!
Il profondissimo disagio rispetto alla politica che persegue il Presidente della Provincia, specie da un anno a questa parte, non appartiene soltanto a qualche esponente di Rifondazione e nemmeno ai soli delegati del congresso, bensì a una parte significativa di suoi elettori. Sì, “suoi” elettori, perché quanti e quante alle ultime provinciali avevano votato un partito di sinistra avevano votato anche per Penati Presidente. Certo, chi con convinzione e chi con meno convinzione, ma comunque lo ha fatto, consapevole che fosse maledettamente importante avere un’amministrazione di centrosinistra in un territorio, quello milanese e lombardo, egemonizzato e governato da tempo dalle destre. E nessuno era pazzo e quindi nessuno pretendeva l’impossibile, ma un presidio democratico e una profonda diversità dalle amministrazioni di centrodestra, questo sì.
Ebbene, sappiamo tutti che la Provincia ha fatto molte cose buone e che molti assessori, non solo quelli di Rifondazione, beninteso, stanno svolgendo un lavoro egregio e meritorio, ma tutto questo finisce nell’ombra o nell’irrilevanza quando vi è una continua sovrapposizione di esternazioni e atti politici di segno diverso o persino opposto da parte della massima carica dell’amministrazione.
Ci pare che il Presidente Penati sia giunto a conclusioni politiche analoghe a quelle di Veltroni, cioè che bisogna rompere con la sinistra e dialogare con la destra. Infatti, di fronte al preoccupante risultato negativo raccolto in Lombardia dalle allora forze di governo nelle elezioni amministrative della primavera 2007 non fu aperta una riflessione sulla deludente azione di governo nazionale, bensì applicato il principio che occorre rincorrere le destre sul loro terreno. Non a caso, fu nel mese di giugno dell’anno scorso che iniziarono le esternazioni anti-rom del Presidente e che in consiglio provinciale fu votato un ordine del giorno bipartisan Ulivo-Centrodestra sulla sicurezza. E come sempre quando rincorri qualcuno, prima o poi cerchi di superarlo e così, di recente, siamo arrivati addirittura al grottesco, con l’ideona di multare i musulmani che pregano per strada.
Oppure potremmo parlare dell’Expo 2015, dove crediamo il ruolo della Provincia non debba e non possa essere semplicemente quello di sostenere Formigoni contro la Moratti, ma dovrebbe essere quello di contrastare la marea speculativa che sta per abbattersi sull’area metropolitana e di restituire a chi abita e lavora sul territorio la possibilità di partecipare e decidere.
Insomma, per non farla troppo lunga, il Presidente Penati sta applicando una linea politica e istituzionale che c’entra ben poco con quella che fu votata dagli elettori quattro anni fa e che prescinde completamente dalla composizione della coalizione che amministra la Provincia. E, cosa ancora più preoccupante in prospettiva, che ha comportato il venir meno di un argine politico e culturale nei confronti dello strapotere delle destre.
In altre parole, di materia politica da verificare ce n’è in abbondanza –e non da oggi, a dire il vero- e l’esito non è in alcun modo predeterminato, poiché l’unica certezza è che così non si può andare avanti.
P.S. da molto tempo diverse realtà di Sesto San Giovanni, dalla Rete dei Comitati fino al circolo locale del Prc, stanno denunciando le possibili speculazioni sulle aree ex-Falck e la troppa accondiscenza nei confronti degli interessi di Zunino. Siamo felici che ora anche il Presidente Penati se ne sia accorto, ma questo non c’entra con il nostro discorso, bensì con il dibattito interno al Pd.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato (con altro titolo) su il Manifesto del 24 maggio 2008 (pag. Milano)
La vera notizia del giorno non è che il “governo ombra” del Pd si sia riunito a Milano, bensì che lo abbia fatto al Pirellone, ospite di Roberto Formigoni. Una scelta simbolica e in politica i simboli parlano, meglio di tante parole.
La Lombardia è una terra che spesso ha anticipato, nel bene e nel male, i processi nazionali ed è così anche nel caso del progetto del Pd veltroniano. Qui l’Unione, cioè il centrosinistra, era stata affossata già nel 2006, a un solo anno dalle elezioni regionali e contestualmente con la nascita del governo Prodi. Da allora è stato un susseguirsi di voti favorevoli o astensioni sui provvedimenti principali del centrodestra, a partire dalla convergenza dell’allora Ulivo su una parte fondamentale del programma di governo di Formigoni, cioè la richiesta al governo nazionale di poteri particolari per Regione Lombardia.
L’idea che stava alla base delle scelte del Pd lombardo era tanto semplice, quanto inquietante: rompere non soltanto con la sinistra politica, bensì con ogni idea alternativa al modello politico e sociale formigoniano, nella prospettiva di risalire così la china elettorale e candidarsi ad amministrare la Lombardia così com’è.
In realtà, il bilancio di questi due anni di “dialogo” è per nulla edificante, poiché Formigoni ne è uscito rafforzato sul piano politico, mentre il suo solido sistema di potere ne ha tratto ulteriore legittimazione culturale e sociale. Ma, si sa, le illusioni sono dure a morire e così oggi Veltroni ha dato il suo imprimatur nazionale alla collaborazione tra Pd e Formigoni.
Non c’è da dubitare che il Presidente ciellino abbia apprezzato, perché un Pd collaborativo è più che mai utile nella situazione attuale, segnata dal contrasto con Berlusconi, dall’incalzare della Lega e dalla competizione con il Sindaco Moratti. Formigoni è costretto a qualche rilancio politico e ha bisogno di alleati. E allora si può discutere di tutto con il Pd, dagli affari dell’Expo fino alle necessità di Penati, bisognoso di un aiutino in vista delle elezioni provinciali.
Tutto ciò è comprensibile, ma è anche misero. È la riduzione della politica a contrattazione di quote di potere e, in ultima analisi, una resa di fronte agli interessi particolari che spadroneggiano in Lombardia. Di tutto ha bisogno la nostra regione, fuorché di grandi coalizioni di fatto che sterilizzano la dialettica democratica e bloccano ogni cambiamento e rinnovamento.
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