Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il centrodestra lombardo aveva annunciato in pompa magna che avrebbe ‘salvato’ la Formula Uno e l’autodromo di Monza, messi a repentaglio da una sentenza del Tribunale di Milano, confermata il 15 marzo scorso, che giudicava fuorilegge l’inquinamento acustico prodotto dalle gare automobilistiche. Peccato che il progetto di legge presentato dalla Lega e approvato oggi a maggioranza dalla VII Commissione consiliare, con la bocciatura dell’emendamento proposto da Rifondazione, Verdi, DS e Margherita, si è rivelato, come da copione, un vero e proprio pasticcio pre-elettorale.
Il provvedimento appare scritto talmente in fretta e furia che vengono addirittura sbagliati alcuni riferimenti normativi, come nel caso della legge regionale 26/2002, che si occupa di “attività motorie sportivo-ricreative” e non certo di quelle di tipo motoristico. Ma la cosa più inquietante è che il progetto di legge non risolve il problema, ma si limita a definire una sorta di deroga preventiva e permanente, spostando sulla carta il perimetro dell’autodromo di 500 metri.
Quindi, non soltanto vengono ignorati l’inquinamento acustico e il disagio dei cittadini, che da oltre dieci anni stanno alla base dei conflitti rispetto alle attività dell’autodromo, ma si gettano le fondamenta di una futura contestazione di legittimità.
Rifondazione Comunista è assolutamente convinta che vadano garantiti l’attività dell’autodromo, lo svolgimento del Gran Premio e la salvaguardia dei posti di lavori diretti e indotti. Ma siamo altrettanto certi che non si possa continuare a ignorare le legittime richieste dei cittadini, residenti o fruitori del parco che siano. Insistere nella contrapposizione tra gli interessi dell’autodromo e quelli dei cittadini, come fa il pdl del centrodestra, è irresponsabile e inaccettabile. Ecco perché Rifondazione, insieme a Verdi, DS e Margherita, ha presentato un emendamento in cui, in accordo con la legislazione nazionale, si stabiliscono dei limiti e soprattutto si impegna la Regione a intervenire, in concorso con gli enti locali, per realizzare opere permanenti di mitigazione dell’inquinamento acustico.
Che ci sia qualche problema con il provvedimento l’ha riconosciuto in fondo lo stesso centrodestra, annunciando la sua disponibilità a discutere con l’opposizione un emendamento comune in Aula. Se si tratta di qualcosa di più che semplice propaganda, allora Rifondazione Comunista sarà disponibile a discuterne. Altrimenti confermeremo la nostra netta contrarietà a una legge pasticciata e irresponsabile.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione e il Manifesto (pag. Milano) del 4 aprile 2006
Forse Rumesh Rajgama Achrige ce la farà a sconfiggere la morte. Non ce la fece invece Abdel Khalek Nakab due mesi fa. Apparentemente Abdel e Rumesh raccontano due storie diverse. Il primo aveva 37 anni, cittadino marocchino, ed era stato ucciso il 27 febbraio scorso da un colpo di arma da fuoco esploso da un vigilante privato in via Cavezzali, a Milano. Il secondo, comasco originario dello Sri Lanka, ha 19 anni ed è stato colpito alla testa il 29 marzo dal proiettile di un vigile urbano nelle strade di Como.
Due storie diverse, ma che si assomigliano maledettamente. In ambedue i casi le autorità si sono precipitate a decretare la natura “accidentale” dell’accaduto. Certo, né il vigile, né il vigilante volevano sparare veramente, eppure tutti e due hanno estratto l’arma con il colpo in canna e l’hanno puntata contro una persona inoffensiva e per motivi assolutamente futili, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Il vigilante di via Cavezzali, come altri suoi “colleghi”, faceva da poliziotto privato per la proprietà immobiliare e non era la prima volta che veniva estratta un’arma. Gli inquilini hanno ripetutamente denunciato alle forze dell’ordine minacce e violenze, l’ultima volta soltanto due giorni prima della morte violenta di Abdel, ma nessuno era intervenuto per porre un freno. Un “accidente” piuttosto annunciato, insomma.
E nemmeno quanto successo a Como deve e può essere liquidato come un “accidente”. La progressiva militarizzazione della Polizia Locale, come oggi si chiamano i vigili urbani, è stata invocata, voluta e promossa consapevolmente dalle destre, spesso con l’acquiescenza da parte della sinistra moderata. Oggi, nonostante le molteplici resistenze da parte degli stessi vigili urbani, sempre più di loro portano le armi, mentre la legge regionale lombarda n.4/2003 prevede altresì la possibilità di uso di spray irritanti e bastoni estensibili. Il tutto in omaggio all’esaltazione delle “funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza” da parte della polizia locale. C’è da stupirsi che molti sindaci, desiderosi di disporre di una “loro” polizia, sono passati a costruire squadre speciali che vengono lanciati addosso non ai grandi delinquenti e speculatori, bensì a immigrati o writer?
Abdel è stato dimenticato troppo in fretta da Milano e sono rimasti soltanto i familiari e gli amici a chiedere giustizia. A Como, per fortuna, una parte della città ha deciso di reagire. E ci auguriamo che non sia un fuoco fatuo. Ma tutto questo non basta. Sia la tolleranza nei confronti delle polizie private e dell’uso sempre più disinvolto delle armi, che le leggi regionali o le ordinanze di sindaci sono figlie di una concezione della società insana e pericolosa.
Alla crescita dell’emarginazione e dell’esclusione, di nuove povertà e solitudini urbane, si risponde non con una politica sociale degna di questo nome, bensì con le politiche securitarie e criminalizzanti. E allora non si combatte l’esclusione, ma l’escluso. Non si favorisce la crescita di spazi sociali, ma si perseguita chi colora i muri cittadini.
Vi è la terribile urgenza che da sinistra, dalla politica e dalla società, venga presa un’iniziativa forte e decisa per rovesciare il paradigma securitario. Prima che sia troppo tardi. Lo dobbiamo a Abdel e a Rumesh, che sta ancora lottando per la sua vita, ma lo dobbiamo soprattutto a noi stessi e al nostro futuro.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 3 maggio 2006 (pag. Milano)
Speravamo che la vicenda di Rumesh, il giovane comasco ridotto in fin di vita dalla revolverata di un vigile urbano il 29 marzo scorso, diventasse perlomeno occasione per qualche riflessione sulle politiche di militarizzazione della polizia locale. Ahinoi, pare che il nostro ottimismo fosse del tutto fuori luogo e ora arriva persino un’iniziativa che si colloca francamente tra il grottesco e l’inquietante.
Il Consorzio Parco delle Groane, che associa tra loro la Provincia di Milano e 17 Comuni, tra cui il capoluogo, ai fini della tutela ambientale e paesistica dell’area protetta, e l’Iref, l’istituto regionale che si occupa di formazione per l’amministrazione pubblica, organizzano tra il 10 e il 31 maggio prossimi un ciclo di seminari, rivolto a comandanti e ufficiali della polizia locale e intitolato “Fenomeno religioso e rischio”.
Scorrendo il programma del seminario sembra di trovarsi di fronte a un corso di addestramento per agenti dell’antiterrorismo. A parte qualche excursus rispetto al tema delle sette sataniche, il seminario formativo si concentra sull’analisi dei nessi tra religione islamica e terrorismo, della “nuova guerra mondiale”, di organizzazioni come Al Qaeda e Hamas e della “questione palestinese e irachena”. Di conseguenza, tra gli obiettivi enunciati troviamo anche l’individuazione delle “realtà (gruppi, centri, movimenti, aggregazioni) islamiche in Italia”.
Insomma, se il Consorzio e l’Iref ritengono che nel Parco delle Groane esista un’emergenza terroristica tale da giustificare persino la mobilitazione dei vigili urbani, allora farebbero meglio a informare tempestivamente il Ministero degli Interni e la cittadinanza, invece di organizzare seminari. Se invece tale emergenza non c’è, come ci suggerisce il più elementare buon senso, ci troviamo di fronte a un’operazione dal sapore ideologico, assolutamente inutile, se non controproducente.
Ebbene sì, perché fornire agli operatori della polizia locale una siffatta formazione non aumenta sicuramente la sicurezza dei cittadini, ma semplicemente finisce per stimolare un rapporto deformato con una parte della nostra società, specie con le persone di fede islamica, additate tout court come sospette. E il tutto in omaggio a una concezione deviata della vigilanza urbana, che da anni sacrifica le funzioni proprie della polizia locale.
Rifondazione Comunista ha già presentato un’interrogazione all’assessore regionale Buscemi, ma sollecitiamo altresì gli enti locali associati nel Consorzio - e probabilmente all’oscuro di questa iniziativa - a esprimersi e prendere posizione. L’annullamento di questo grottesco e inquietante corso di formazione non risolverebbe ovviamente il problema di fondo, ma sicuramente indicherebbe almeno la volontà di aprire la discussione.
qui puoi scaricare l'interrogazione
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 9 maggio 2006 (pag. Milano)
Una settimana fa avevamo presentato un’interrogazione e denunciato pubblicamente un corso di formazione per comandanti e ufficiali della Polizia Locale piuttosto curioso e inquietante. Infatti, il Consorzio Parco delle Groane, che associa 17 Comuni e la Provincia di Milano, e l’IREF, l’istituto regionale che si occupa di formazione per la pubblica amministrazione, hanno organizzato un seminario formativo dal titolo “Fenomeno religioso e rischio”, incentrato principalmente sulla religione islamica.
Oltre la bizzarria di un Consorzio per la tutela ambientale e paesistica che organizza corsi per vigili urbani che sembrano un addestramento per agenti dell’antiterrorismo e tutte le considerazioni circa l’opportunità e l’utilità di un tale approccio deformato alla realtà dell’immigrazione, ora sono emersi ulteriori elementi che destano viva preoccupazione.
L’IREF e il Consorzio hanno affidato la gestione e la docenza del seminario formativo ad un istituto torinese, il CESNUR (Center for studies on new religions), fondato e diretto dall’avv. Massimo Introvigne, in questi anni al centro di diverse polemiche a causa dei suoi legami con l’organizzazione della destra integralista “Alleanza Cattolica”. Ma non finisce qui, poiché è sufficiente una breve ricerca su internet per scoprire che l’attuale direttore dell’IREF, prof. Lorenzo Cantoni, ha pubblicato nel corso degli anni diversi scritti sulla rivista “Cristianità”, organo di “Alleanza Cattolica”.
Rifondazione Comunista ha depositato oggi una nuova interrogazione all’assessore regionale alla polizia locale, Buscemi, per sollecitare un celere intervento della Giunta Regionale, affinché questo corso di formazione venga immediatamente sospeso e venga fatta luce sugli eventuali rapporti tra enti pubblici e ambienti dell’integralismo cattolico, nonché sui costi della collaborazione del CESNUR con l’IREF.
qui puoi scaricare l’interrogazione
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 11 maggio 2006
Speravamo che la vicenda di Rumesh, il giovane comasco ridotto in fin di vita dalla revolverata di un vigile urbano il 29 marzo scorso, diventasse perlomeno occasione per qualche riflessione sulle politiche di militarizzazione della polizia locale, cioè dei vigili urbani. Ahinoi, pare che il nostro ottimismo fosse del tutto fuori luogo, considerato che piovono iniziative sempre più inquietanti.
Così succede che un consorzio milanese per la tutela ambientale, il Consorzio Parco delle Groane, e l’Iref, ente dipendente dalla Regione Lombardia che si occupa di formazione per l’amministrazione pubblica, organizzano tra il 10 e il 31 maggio un corso di formazione per comandanti e ufficiali della polizia locale, intitolato “Fenomeno religioso e rischio”.
Scorrendo il programma del corso, sembra trovarsi di fronte ad un addestramento per agenti dell’antiterrorismo. A parte qualche excursus sul tema delle sette sataniche, il seminario formativo si concentra sull’analisi dei nessi tra religione islamica e terrorismo, della “nuova guerra mondiale”, di organizzazioni come Al Qaeda e Hamas e della “questione palestinese e irachena”. Di conseguenza, tra gli obiettivi enunciati troviamo anche l’individuazione delle “realtà (gruppi, centri, movimenti, aggregazioni) islamiche in Italia”.
Ma non finisce qui, poiché la gestione del corso è stata affidata ad un istituto torinese, il Cesnur -Center for studies on new religions-, fondato e diretto dall’avvocato Massimo Introvigne, membro influente di “Alleanza Cattolica”, cioè la più importante organizzazione della destra integralista italiana. E, per chiudere il cerchio, possiamo aggiungere che sulla rivista “Cristianità”, organo di “Ac”, troviamo anche scritti di Lorenzo Cantoni, attuale presidente dell’Iref.
Per capirci meglio, “Ac”, che annovera tra i suoi dirigenti anche l’ex sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano, nacque alla fine degli anni ’60 in stretto rapporto con l’organizzazione anticomunista brasiliana “Tradizione, Famiglia e Proprietà”, famosa per i suoi legami con le dittature militari del Brasile e del Cile. Non a caso la storia di “Ac” si era poi intrecciata regolarmente con quella del neofascismo nostrano, mentre la sua ideologia di riferimento può essere definita vandeana, poiché individua nella rivoluzione francese la fonte di tutti i mali del nostro tempo.
Insomma, a parte i rapporti equivoci tra enti pubblici e interessi privati, siamo di fronte ad un corso di formazione in chiave anti-islamica, gestito da integralisti cattolici. Evidentemente a certi apologeti del securitarismo non basta più la semplice militarizzazione e ora puntano ad imporre ai vigili urbani l’ideologia dello scontro di civiltà.
Rifondazione Comunista ha già presentato due interrogazioni e chiesto la sospensione immediata di questo allucinante corso, finanziato peraltro con fondi pubblici. Ma quello che stupisce e preoccupa di più non è il silenzio assordante della Giunta Formigoni, ma quello di tutti gli altri. Forse in questi anni la follia securitaria ha scavato troppo a fondo e tutto viene considerato “normale”.
A noi pare invece che di normale non ci sia proprio nulla e che la militarizzazione dei vigili urbani vada arrestata al più presto, per restituire alla polizia locale le sue funzioni proprie, in questi anni sempre più marginalizzate.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 12 maggio 2006 (pag. Milano)
Sono passati due mesi esatti da quell’11 marzo in cui una manifestazione di protesta contro l’indecente sfilata nazi-fascista della “Fiamma Tricolore” si era trasformata in un mezzogiorno di follia. Oggi, 27 persone si trovano ancora in carcere in attesa di un processo, del quale non è stata nemmeno fissata la data.
Il problema non è il giudizio da dare di quei fatti. Quell’esplosione di violenza ha riproposto una modalità della politica rispetto alla quale non possiamo che avvertire tutta la nostra lontananza e tutta la nostra incomprensione. Il problema sta nel fatto che 27 persone stanno pagando ancora oggi un prezzo inaccettabile e smisurato, in omaggio non tanto alla legge, quanto piuttosto al clima politico avvelenato -e a tratti isterico- che si era instaurato in campagna elettorale.
Le accuse contro i 27 ragazzi e ragazze sono pesantissime, come quella di devastazione, eppure loro sono in carcere anzitutto perché erano presenti quel giorno in corso Buenos Aires, indistintamente e non per quello che ognuno di loro ha effettivamente fatto. Insomma, sembra scomparso quel principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico, per cui la responsabilità penale è personale. Pertanto, essere stati lì, aver indossato un passamontagna o aver portato una bottiglietta d’acqua è diventato indizio sufficiente per essere privati della libertà personale a tempo indeterminato.
Lungi da noi voler insegnare il mestiere ai magistrati, ma ci pare urgente e necessario ristabilire in città un clima politico più equilibrato e razionale attorno a quei fatti. Per questo e per non veder marcire in carcere inutilmente 27 ragazzi e ragazze, ci permettiamo oggi di dire che è arrivato il momento di restituire gli arrestati dell’11 marzo alla loro vita e al loro lavoro. E ci permettiamo altresì di invitare quella tanta parte della città, rimasta finora in silenzio, a fare altrettanto.
Questa mattina una nutrita delegazione del Comitato cittadino di Corsico (Milano) ha consegnato al presidente Formigoni le prime 1800 firme che chiedono l’interramento del progettato raddoppio della linea ferroviaria Milano-Mortara.
La protesta e la proposta dei cittadini di Corsico sono assolutamente condivisibili e ragionevoli. In discussione non è il necessario e per troppo tempo rinviato raddoppio della linea Milano-Mortara, bensì la superficialità, se non peggio, con la quale è stato progettato l’attraversamento di Corsico.
Corsico è tra i comuni a più alto tasso di urbanizzazione nell’area metropolitana milanese, eppure il progetto di Regione Lombardia e RFI l’ha trattato come se fosse una zona desertica. Cioè, il raddoppio così come progettato adesso, con le sue annesse barriere antirumore alte tra quattro e sei metri, finirebbe per tagliare in due Corsico come un novello muro di Berlino. A questo si aggiunge una valutazione di impatto ambientale, risalente al 1999, redatta in maniera assai discutibile.
I cittadini dei quartieri direttamente interessati al raddoppio si sono costituiti da tempo in comitato e lo stesso Comune di Corsico ha chiesto a più riprese di riesaminare il progetto. E’ dunque assolutamente incomprensibile perché Regione Lombardia non abbia ancora aderito alla richiesta di aprire un tavolo istituzionale con RFI e Comune di Corsico, al fine di valutare progetti alternativi.
L’interramento del raddoppio a Corsico comporterebbe sicuramente un aumento dei costi e dei tempi di realizzazione. Ma riteniamo questo un prezzo più che accettabile se ciò significa fare un’opera condivisa dai cittadini e rispettosa dei più elementari criteri di impatto ambientale e urbanistico. Ciò che invece è inaccettabile è che si voglia costringere i cittadini di Corsico a dare vita ad una piccola Val di Susa alle porte di Milano.
Comunicato di Luciano Muhlbauer
Mentre a livello nazionale non accenna a placarsi il fuoco di fila scatenato dalla destra contro il neo-ministro Ferrero, reo di aver semplicemente annunciato la necessità di regolarizzare i lavoratori immigrati rimasti esclusi dall’ultima caotica sanatoria del governo Berlusconi, a Milano la campagna elettorale sembra dedicare ben poca attenzione al tema dell’immigrazione e del razzismo.
E così succede che la notizia -riportata oggi da alcuni importanti quotidiani- del pestaggio di un cittadino italiano di origine senegalese, Pap Khouma, ad opera di alcuni controllori dell’Atm, non abbia provocato nemmeno una dichiarazione da parte della solitamente prolissa compagine di centrodestra.
A noi pare che ci sia qualcosa di inquietante e colpevole in questo assordante silenzio. Il pestaggio di Khouma non è un fatto eccezionale, ma rappresenta purtroppo la punta di un iceberg, visto che ogni giorno a Milano si consuma ormai una miriade di piccole e grandi discriminazioni a sfondo xenofobo, se non razzista.
Basta essere riconoscibile come cittadino straniero per subire un surplus di controlli in metropolitana o sul tram, magari con quelle maniere un po’ spicce che farebbero giustamente imbestialire ogni milanese doc. Ma meccanismi simili, di disparità di trattamento, si riproducono regolarmente anche negli uffici pubblici, nell’accesso ai servizi o nella ricerca di un’abitazione.
In questi lunghi anni di governo di centrodestra della città, mai l’amministrazione si è preoccupata di monitorare la situazione, né di agire sul terreno della formazione dei funzionari pubblici. Anzi, gli unici messaggi lanciati andavano in direzione opposta, fomentando un’immagine dell’immigrato come un mero problema di ordine pubblico o peggio.
Ecco perché questo silenzio puzza di ipocrisia e perché lo riteniamo inaccettabile e irresponsabile. A Milano, dove vivono ormai quasi 200mila cittadini immigrati, serve una politica accogliente e includente, prima che i danni accumulati diventino irreversibili. E questo significa anzitutto non coprire con un complice silenzio gli atti di intolleranza e di xenofobia e avviare finalmente una politica attiva antidiscriminazione, mediante la formazione dei funzionari pubblici e con un monitoraggio permanente della situazione sul territorio.
Comunicato di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 31 maggio 2006 (pag. Milano)
Ha vinto la Moratti, ha perso Ferrante. Certo, rispetto a cinque anni fa il divario tra centrodestra e centrosinistra è diminuito notevolmente. E facciamo bene a sottolinearlo, poiché ci ricorda che a Milano e in Lombardia non siamo destinati a morire per forza berlusconiani, leghisti e post-fascisti. Eppure, non possiamo accontentarci di questa osservazione. Sa un po’ troppo di auto-assoluzione.
E per favore, ora non si dica che Ferrante era un candidato troppo debole, inadatto per una così alta sfida. Beninteso, egli avrà sicuramente dei limiti, ma onestà vuole che riconosciamo che in questa campagna elettorale il limite principale risiedeva nella coalizione che lo sosteneva, come la grottesca vicenda del Primo Maggio ha simboleggiato in maniera eloquente. È come se si fosse data per persa la partita, prima ancora di averla giocata.
L’analisi del voto va ovviamente affrontata con il tempo e la cura necessari, tuttavia ci pare evidente che l’astensionismo abbia colpito non soltanto le destre, come tradizione vuole, ma in maniera significativa anche l’Unione. Insomma, non siamo riusciti a motivare e mobilitare sufficientemente il nostro elettorato e ancor meno a realizzare incursioni in quello del centrodestra. Colpa del fatto di non averci creduto fino in fondo in campagna elettorale, sicuramente, ma anche dell’assenza di un cuore politico pulsante, cioè di un insieme di proposte forti e comprensibili che potessero indicare una politica alternativa per la città.
Lunghi mesi furono infatti spesi nella discussione del Cantiere, luogo di elaborazione del programma dell’Unione, con il coinvolgimento di movimenti e associazioni. Ma questi ultimi si sono presto persi per strada, evidentemente poco affascinati dall’imperante politicismo, mentre il programma si è trasformato in un illustre sconosciuto per la quasi totalità dell’elettorato.
Ma sullo sfondo si staglia la madre di tutte le questioni, tuttora irrisolta, cioè la crisi della sinistra milanese e la sua incapacità di pensare, costruire e comunicare un modello alternativo di città. Non basta sperare che prima o poi il riflesso delle dinamiche nazionali risolva il problema Milano. È qui che sono nati il berlusconismo e il leghismo, è qui che hanno scavato radici profonde ed è qui che vanno sconfitti. Ma per fare questo occorre ri-costruire consenso sul territorio, ritornare ad immergersi nei ceti popolari, nativi e migranti, e nei loro bisogni.
E questo non è un problema di altri, è anzitutto un problema nostro, della cosiddetta sinistra radicale. Messi tutti insieme, Prc, Verdi, Lista Fo’ e PdCI, realizzano a Milano un risultato inferiore a quello del 2001 (allora c’era anche Miracolo a Milano), mentre Rifondazione Comunista paga un prezzo altissimo, scendendo a un inedito 4,2%. Potremmo elencare molti fattori per spiegare questo dato, tra cui la frammentazione determinatasi con la Lista Fo’, ma non centreremmo il problema, che appunto sta da un'altra parte.
Ripartire in maniera autocritica, anzitutto come sinistra radicale e Rifondazione, da questo risultato elettorale non è soltanto un atto di rispetto per le scelte dei “nostri” elettori, ma è condizione imprescindibile per poter costruire, da domani in poi, un’opposizione incisiva alla Moratti e un percorso politico e sociale per un’altra città.
di lucmu (del 01/06/2006, in Lavoro, linkato 799 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberamente di maggio-giugno 2006
Per una nuova scala mobile. Si chiama così la campagna nazionale a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare che chiede l’istituzione di un meccanismo di adeguamento automatico dei redditi da lavoro e delle pensioni all’inflazione reale. L’idea di lanciare dal basso una proposta di legge era venuta al Sincobas e aveva rapidamente raccolto il consenso delle altre organizzazioni sindacali di base e della Rete 28 aprile nella Cgil, nonché di diverse forze sociali e politiche, come Rifondazione Comunista, il PdCI e i Verdi. Anche il gruppo consiliare regionale lombardo del Prc ha aderito da subito alla campagna.
Di scala mobile non si parlava più da anni, anzi quando osavi discuterne in pubblico rimediavi al massimo qualche sorriso di sufficienza. Eppure, le notizie provenienti dai banchetti per la raccolta delle firme, iniziata a febbraio, raccontano di una buona e immediata adesione di lavoratori e lavoratrici. E allora forse conviene ricordare cos’è successo in questi anni che ci dividono da quello sciagurato fine di luglio di 14 anni fa.
Fu appunto alla vigilia della pausa agostana del 1992, quando Governo, Confindustria e Cgil-Cisl-Uil firmarono l’accordo interconfederale che abrogò definitivamente gli accordi sindacali e le norme di legge che regolavano la cosiddetta scala mobile, ratificando così la sconfitta politica subita dal movimento dei lavoratori nel referendum del ’85. Da allora in poi non ci sarebbe più stato alcun meccanismo automatico. Il nuovo sistema, tuttora in vigore, si basava invece sull’inflazione “programmata”, stabilita dal Governo, e sul recupero del divario in sede di contrattazione nazionale.
Il bilancio di quattordici anni di applicazione del nuovo modello è assolutamente disastroso. Mentre prezzi e tariffe sono liberi di aumentare senza vincoli sostanziali, l’inflazione “programmata” si colloca sistematicamente al di sotto di quella reale ed i rinnovi contrattuali, peraltro sempre più spesso in ritardo rispetto alla loro scadenza naturale, finiscono con il rincorrere il carovita senza mai raggiungerlo.
In altre parole, il modello post-scala mobile si è tradotto in una redistribuzione del reddito al rovescio, con il risultato che oggi milioni di lavoratori e pensionati sono impoveriti. Lo dicono le statistiche, ma ancor prima ce lo dice la realtà vissuta di tutti giorni, con le difficoltà di arrivare alla fine del mese oppure con il crescente indebitamento di numerose famiglie. Di fronte a questa realtà è certamente più comodo –e più ipocrita- addossare tutte le colpe all’euro, il quale in realtà ha funzionato da semplice acceleratore, piuttosto che mettere in discussione l’insano imperativo della moderazione salariale, ahinoi fatto proprio anche dai sindacati concertativi.
Tuttavia, oggi la situazione sta raggiungendo un livello di guardia e si impone la riapertura della discussione. E per favore non si dica che non è possibile, perché il problema dell’economia italiana sarebbe il costo del lavoro troppo alto. Si tratta di una leggenda che trova regolare smentita sul piano internazionale, come ricorda anche la recente ricerca della società multinazionale KPMG. Infatti, risulta che il costo del lavoro in Italia non solo è più basso rispetto agli Stati Uniti, ma anche rispetto a Francia, Germania e Regno Unito.
Infine, una forte iniziativa per rimettere al centro la questione salariale, insieme a quella della lotta alla precarietà e dell’abrogazione della legge 30, è imprescindibile proprio ora. Vi è una preoccupante propensione, da parte di diversi settori del sindacalismo confederale e della sinistra moderata, di interpretare la nuova situazione determinatasi con l’avvento del governo Prodi, alla sola luce del rilancio di un sistema concertativo, che lungi dal rappresentare la soluzione, costituisce invece una parte importante del problema. Se era rimasto qualche dubbio al riguardo, basti ricordare i troppi applausi ricevuti da Montezemolo, quando chiedeva continuità con le politiche liberiste e invocava la collaborazione sindacale.
Ci pare che la campagna Per una nuova scala mobile, che proseguirà fino a settembre, costituisca in questo senso una salutare novità e uno strumento utile per costruire dal basso la mobilitazione per conquistare delle politiche alternative, capaci di rispondere alle aspettative e alle condizioni reali di lavoratori e pensionati.
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