Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Tutti contro la Fiom, tutti con Marchionne. Sembra sia questa la parola d’ordine, sancita oggi dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, con un perentorio “il vero problema è la Fiom”.
Ora, che Marchionne e i capi confindustriali si facciano i propri interessi senza troppi fronzoli, possiamo anche considerarlo normale, ma che essi trovino con tanta facilità consenso e complicità nella politica, non possiamo e non vogliamo considerarlo normale.
Insomma, il vero problema da debellare ci pare sia la condiscendenza della politica. E non è questione di partigianeria sindacale, poiché qui, in tutta evidenza, si sta giocando una partita fondamentale per il futuro di tutto il mondo del lavoro italiano.
Federmeccanica non si è semplicemente piegata all’arroganza di Marchionne, ma ha colto la palla al balzo, visto che con la disdetta unilaterale del contratto nazionale dei metalmeccanici punta ad imporre condizioni salariali e di lavoro peggiorativi in tutte le aziende.
Che le cose stiano così, in fondo ce lo conferma proprio un quotidiano non ostile agli imprenditori, cioè il Corriere della Sera, che nell’edizione in edicola oggi ipotizza i primi effetti concreti sui lavoratori metalmeccanici della disdetta, spaziando dagli stipendi più bassi per i giovani (cioè, il salario d’ingresso) fino all’aumento del numero di straordinari obbligatori.
Altro che “non cambia niente per i lavoratori”, come aveva esclamato ieri il Ministro Sacconi. Era soltanto una bugia, il cui unico scopo è quello di fiancheggiare Confindustria. Del resto, la stessa cosa la fanno tutti i componenti del Governo, ognuno nel suo stile: dalle rozze provocazioni della Gelmini fino agli applausi leghisti alle proposte di Tremonti di spazzare via mezza legislazione sul lavoro, passando attraverso le campagne denigratorie della stampa di proprietà di Berlusconi, in primis Panorama.
Ma il problema non si limita al Pdl e alla Lega. Pesano in maniera determinante, ovviamente, le parole e gli atti di chi governa, ma non sono indifferenti neanche i silenzi o le voci troppo flebili nel campo dell’opposizione, per non parlare dello spettacolo sempre più offensivo offerto da alcuni leader sindacali, a partire da Bonanni, che sono disposti ad ogni servilismo pur di ottenere qualche rendita di posizione per la propria casta di funzionari.
Tutto questo facilita i ricatti e le forzature, perché consente di distorcere la realtà. Quindi, con la massima disinvoltura, si passa dalla santificazione dell’istituto referendario, nel caso di Pomigliano, alla sua fucilazione sommaria, nel caso del contratto nazionale. Ebbene sì, perché quello disdetto era stato approvato dagli operai con referendum, mentre quello separato che dovrebbe sostituirlo non è stato mai sottoposto a referendum.
Ma appunto, la partita è generale, tra chi ritiene che il futuro dell’economia italiana stia nel dumping sociale fatto in casa e chi invece pensa che tentare di assomigliare alle fabbriche cinesi sia un suicidio e che occorra investire sull’innovazione e sulla qualità del prodotto e del lavoro.
Per questo bisogna schierarsi. E se non si sta con i teorici della nuova servitù della gleba, allora bisogna contrastare i tentativi di isolare la Fiom e lavorare perché la manifestazione nazionale del 16 ottobre sia un fiume di popolo.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 27/08/2010, in Lavoro, linkato 1100 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 27 agosto 2010
 
Un pregio questo profondo agosto l’ha avuto, con i suoi meeting e i suoi dibattiti. Ha aiutato a fare un po’ di chiarezza, ad esplicitare, al di là di ogni ragionevole dubbio, di che cosa stiamo parlando, quando diciamo Pomigliano, Melfi o Fiat.
Non a caso, infatti, nessuno parla più di fannulloni, assenteismo o finti malati, come invece si faceva senza ritegno ai tempi del referendum di Pomigliano. E assume senso compiuto anche quell’irriducibile opposizione della Fiat al reintegro “nel proprio posto di lavoro” –e non nella saletta sindacale- dei tre operai di Melfi.
No, tutte queste cazzate, ci si permetta il termine, sono state spazzate via dai dotti discorsi di Ministri, capi confidustriali e amministratori delegati. Dobbiamo essere grati, in particolare, al Ministro Tremonti e all’Ad Marchionne, per avere autorevolmente attestato che le cose stanno esattamente come pensavamo che stessero.
Il primo, tra Rimini e Bergamo, ha in sostanza detto che viviamo in un mondo difficile, che siamo noi che dobbiamo adeguarci a questo e non questo noi e che, quindi, certi lussi non possiamo più permetterceli. Si riferiva soprattutto a due “lussi”: i diritti e la sicurezza sui luoghi di lavoro, comprese “robe come la 626”.
Il secondo, nel suo intervento di ieri a Rimini, non ha nemmeno fatto finta di citare l’assenteismo e si è dedicato invece a un discorso più generale. Secondo lui, ci vuole un nuovo patto sociale, un nuovo modello e questo significa, ovviamente, che bisogna buttare a mare quello vecchio. Ed è quello che sta avvenendo ora in Fiat: “la contrapposizione tra due modelli”.
Marchionne non perde tempo a spiegare in dettaglio questo nuovo modello, vi allude soltanto, parlando di “responsabilità e i sacrifici” e di competizione nel mondo. In cambio, però, è molto chiaro nell’individuare il modello da distruggere: “Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra ‘capitale’ e ‘lavoro’, tra ‘padroni’ e ‘operai’… Erigere barricate all’interno del nostro sistema alimenta solo la guerra in famiglia.”.
Potremmo fermarci qui con le citazioni di Marchionne, se non fosse che è stato anche protagonista di due cadute di stile, sebbene la platea ciellina non ci abbia fatto caso. Con la prima, ha attaccato gratuitamente i tre licenziati politici di Melfi, rinfacciandogli che “la dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone”.
Con la seconda, invece, si è esercitato in una clamorosa, ma significativa omissione. E così, dopo aver rivendicato con forza il progetto “Fabbrica Italia” e affermato che “rispettare un accordo è un principio sacrosanto di civiltà”, si è completamente dimenticato di accennare al caso delle produzioni assegnate quattro mesi a Mirafiori, poi sparite e, infine, riapparse in Serbia.
Ma che ci vuoi fare, dall’altra parte non si è nemmeno ricordato della parolina “cassa integrazione”, che a breve arriverà anche per gli operai di Melfi.
Comunque, inutile scandalizzarci per qualche scorrettezza o bugia. Questo non è un gioco pulito, è un gioco pesante e non si prevedono prigionieri. Ma in cambio è trasparente. Non si tratta di avere meno assenteismo, più produttività eccetera. Tutto questo si potrebbe ottenere anche nel quadro normativo e contrattuale esistente (peraltro tutt’altro che generoso con i lavoratori). No, il problema non è quantitativo, è qualitativo. Ed è generale.
Sacconi, Tremonti e Marchionne dicono e vogliono la stessa cosa, non cose diverse. E non sono nemmeno cose tanto nuove. Quasi nessuno si ricorda ormai, ma nel lontano ottobre 2001 l’allora Ministro del Welfare, il leghista Roberto Maroni, presentò il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Riga in più, riga in meno, c’era già tutto scritto, compreso l’obiettivo di abrogare lo Statuto dei Lavoratori, cioè il pacchetto fondamentale dei diritti, per sostituirlo con lo “Statuto dei Lavori”.
L’anno scorso a Milano l’81,6% dei nuovi contratti di lavoro stipulati aveva carattere precario. Evidentemente vogliono il 100%, dappertutto e subito. È l’assalto al cielo dei padroni.
Insomma, dopo le illuminanti chiacchiere agostane, non ci sono più alibi per nessuno. Non ci riferiamo ovviamente ai vari Bonanni, che di alibi non ne hanno più da tempo, ma a tutti gli altri.
A questo punto bisogna scegliere da che parte stare. Con Marchionne e Tremonti o con la Fiom, i sindacati di base e tutti quelli che si battono per la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. Suona brutale, lo so, ma questa è l’ora di schierarsi.
 
 
di lucmu (del 10/08/2010, in Lavoro, linkato 1360 volte)
Il giudice del lavoro ha dato ragione ai lavoratori, disponendo il reintegro immediato al lavoro dei tre operai della Fiat-Sata di Melfi, di cui due delegati sindacali della Fiom, licenziati da Marchionne a metà luglio.
Un mese fa fu tutto un coro, dalla Marcegaglia al Ministro Sacconi, passando per i balbettii di sindacalisti collaborazionisti e oppositori confusi, per dare manforte all’incredibile teorema di Marchionne, che accusava i tre operai di sabotaggio.
In realtà, non avevano fatto altro che partecipare a uno sciopero e, come sempre accade durante gli scioperi, capita anche che qualche carrello robotizzato venga disattivato. Lo prevedono peraltro le misure di sicurezza.
Insomma, il loro licenziamento si configurava come rappresaglia ed eravamo, dunque, di fronte al più classico dei licenziamenti politici. E ora lo ha confermato anche il giudice, condannando la Fiat per comportamento antisindacale.
I tre operai -Antonio Lamorte, Giovanni Barozzino e Marco Pignatelli- tornano dunque al loro posto di lavoro, dal quale erano stati cacciati illegittimamente, e il tribunale ha detto che gli operai stavano nella legge, mentre Marchionne stava fuori dalla legge.
Bene. Che tutti prendano nota!
Tuttavia, questo non significa affatto che ora la Fiat cambierà linea o che lo faccia il Governo, che aveva già annunciato, per bocca del solito Sacconi, di voler eliminare lo Statuto dei Lavoratori, per sostituirlo con uno “statuto dei lavori”. E, supponiamo, non cambierà idea nemmeno Bonanni, il miglior amico di Marchionne e del Governo.
Anzi, andranno avanti come prima e più di prima. E quindi anche noi dovremo andare avanti, come e più di prima, a partire dalla manifestazione nazionale del 16 ottobre, proposta dalla Fiom.
 
cliccando sull’icona qui sotto, puoi scaricare il testo integrale della sentenza del tribunale di Melfi
 

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Se non intervengono fatti nuovi, nel giro di due-tre mesi alla Maflow di Trezzano s/N (MI) oltre 250 lavoratori e lavoratrici finiranno sul lastrico, senza più posto di lavoro, disoccupati. Ecco perché oggi non è più tempo di chiacchiere, ma di fatti concreti.
E lo diciamo al governo regionale e, in particolare, all’Assessore al Lavoro, Rossoni (Pdl), che stamattina ha ricevuto una delegazione di lavoratori della Maflow, e all’Assessore all’Industria, nonché Vicepresidente regionale, Gibelli (Lega), che invece non ha partecipato all’incontro.
Ci permettiamo di dirlo perché non è certo la prima volta che si parla di Maflow in Regione Lombardia, anzi. L’assessore Rossoni aveva incontrato diverse volte lavoratori e sindacati, prendendo anche degli impegni, come quello, dell’8 marzo scorso, di intervenire non soltanto sull’allora Ministro Scajola, ma persino sul Commissario europeo all’industria,Tajani.
Ma belle parole e solenni impegni erano arrivati anche da un importante esponente della Lega, Salvini, che chiamò persino al boicottaggio della Bmw, visto che la Maflow di Trezzano è in crisi a causa del taglio delle commesse da parte della società tedesca, in seguito alle pressioni politiche da parte del governo Merkel.
Peccato però che alle parole di Salvini non siano mai seguiti i fatti e che i componenti della Giunta regionale, compreso il Presidente, continuino a girare tranquillamente con le autoblu fornite proprio dalla Bmw. Anzi, in occasione della question time del 3 febbraio scorso, quando noi sollevammo il problema dei rapporti privilegiati con la Bmw, il rappresentante della Giunta ci ripose con un imbarazzante silenzio.
Comunque sia, ora siamo arrivati al dunque. Dopo un anno di amministrazione straordinaria tutto il gruppo Maflow, presente in diversi paesi, è stato messo all’asta e ora sta per essere venduto alla società polacca Boryszew S.A.. Secondo le previsioni dei commissari straordinari, la procedura di vendita di concluderà entro la fine del mese di settembre.
Ebbene, sui 330 lavoratori e lavoratrici dello stabilimento di Trezzano, in gran parte lontanissimi dall’età pensionabile, l’acquirente polacco è disposto a tenerne soltanto 58, garantendone il posto di lavoro per due anni. Poi si vedrà.
Insomma, un livello occupazionale bassissimo e un piano industriale alquanto fumoso.
In altre parole, se non c’è un’attivazione reale delle istituzioni, rimaste finora alla finestra, tesa a favorire il rientro di almeno una parte delle commesse della Bmw, marciamo diritti verso un disastro occupazionale.
E questo, per quanto riguarda Regione Lombardia, significa non disertare gli incontri che si tengono al Ministero dello Sviluppo Economico, com’è avvenuto martedì scorso, e soprattutto utilizzare finalmente i ben consolidati rapporti con Bmw Italia.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare la comunicazione ufficiale relativa alla vendita alla Boryszew S.A., inviata il 20 luglio scorso dai Commissari straordinari alle rappresentanze sindacali dei lavoratori e delle lavoratrici degli stabilimenti Maflow di Trezzano s/N e di Ascoli Piceno
 

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di lucmu (del 23/07/2010, in Lavoro, linkato 1136 volte)
A me avevano insegnato che le bugie non si dicono. Il signore Marchionne, invece, di bugie ne dice parecchie. L’ultima suona più o meno così: la nuova monovolume della Fiat non verrà più prodotta a Mirafiori, ma in Serbia, perché in Italia i sindacati sono “poco seri” e perché c’è stato “il problema Pomigliano”.
La panzana è palese e soltanto l’ipocrisia e la complicità di tanti, troppi può farla apparire come una cosa reale. Mica si improvvisa uno stabilimento con tanto di accordi con uno Stato sovrano nel giro di qualche settimana. Costruire fabbriche e produrre automobili è cosa ben diversa dallo spostare una bancarella da un mercato rionale all’altro.
No, quella decisione era maturata assai prima di Pomigliano e la Fiom e i Cobas c’entrano nulla. C’entra invece il fatto che in Serbia un operaio prende soltanto 400 euro mensili e, soprattutto, che la Fiat viene letteralmente inondata da favori e denari pubblici per lo stabilimento di Kragujevac: 400 mln di euro di finanziamento vengono dalla Banca europea per gli investimenti (Bei), 250 mln di euro li ha messi il governo serbo e la Fiat non pagherà le tasse per dieci anni.
In altre parole, Marchionne aveva detto delle bugie anche prima, quando diceva che i nuovi modelli sarebbero andati a Mirafiori, mentre aveva già in tasca gli accordi con il governo serbo.
Insomma, il lupo perde il pelo, ma non il vizio. E il vizio della Fiat si chiama finanziamento pubblico, oggi come ai bei tempi andati, quando lo Stato italiano le regalò persino l’Alfa. Vuoi vedere che anche tutte le chiacchiere sul mercato sono una bugia?
A difesa di Marchionne, va tuttavia detto che lui non è l’unico a comportarsi così. Quello di portare la produzione all’estero è, infatti, un abitudine piuttosto diffusa, così come la tendenza dei paesi economicamente più deboli di concedere agevolazioni di ogni tipo pur di attirare investimenti esteri.
Non succede soltanto in Serbia, ma un po’ dappertutto. Per esempio, nella vicina Tunisia, dove il salario mensile medio si colloca tra 125 e 200 euro, il governo offre alle imprese che producono per l’export l’esenzione totale dal pagamento delle tasse e dell’Iva per dieci anni. Risultato? L’Italia è il secondo investitore dopo la Francia e attualmente oltre 700 aziende italiane producono in Tunisia, dal tessile fino alla meccanica.
Avrà pensato a questo il nostro caro Ministro Sacconi, quando teorizzava sul Mediterraneo come nuova economia emergente su cui puntare?
Insomma, è la globalizzazione bellezza, l’altra grande bugia del nostro tempo. Dicevano che avrebbe diffuso il benessere, invece sta generalizzando il ricatto sociale. Vuoi lavorare? Allora accetta le mie condizioni e senza fiatare.
Marchionne dice che i sindacati in Italia sono poco seri. Callieri, ex capo del personale della Fiat, oggi sul Corsera aggiunge: “Il modello va cambiato. Confido nei nuovi vertici sindacali (della Cgil, nda) e in particolare in Susanna Camusso”.
Insomma, dicono: eliminate la Fiom e così salverete i posti di lavoro in Italia. È una bugia grossa come una casa anche questa, come le altre, perché i nuovi modelli li fanno in Serbia a prescindere e la chiusura di Termini Imerese è in programma comunque.
Anzi, vogliono il silenzio dei lavoratori per potersi fare gli affari loro più in fretta e senza che qualcuno sveli le loro bugie.
 
 
Esprimo la mia totale ed incondizionata solidarietà alla Fiom e agli operai della Fiat che oggi scioperano per quattro ore in tutti gli stabilimenti del gruppo Fiat, per esigere il ritiro dei quattro licenziamenti politici, tre a Melfi e uno a Torino, e il rispetto degli accordi aziendali.
Quanto sta avvenendo in Fiat, da Pomigliano in poi, non è una questione aziendale, bensì una questione generale. E se qualcuno avesse ancora dei dubbi a riguardo, sarebbe sufficiente guardare al tifo da stadio che si è scatenato a favore della guerra di Marchionne da parte del Governo, di Confindustria e finanche dei lacchè delle segreterie di Cisl e Uil.
Oggi, come fu una volta, quello che accade in Fiat è destinato a fare scuola nel paese. Peraltro, anche Marchionne fa come una volta e, dismesso l’elegante abito liberal, ripropone il più antico e solido dei principi padronali: cioè, “qui comando io e se non ti piace ti licenzio”.
Nei quattro licenziamenti imposti dalla Fiat non c’è nemmeno l’ombra della giusta causa. L’impiegato di Mirafiori ha fatto quello che qualsiasi impiegato in giro per l’Italia e il mondo fa abitualmente, cioè ha mandato un po’ di mail ai colleghi di lavoro per mezzo della rete aziendale. Ma lo ha fatto con il testo degli operai dello stabilimento polacco della Fiat.
I tre licenziati di Melfi, invece, sono accusati di sabotaggio, semplicemente perché avevano scioperato. Insomma, se scioperi sei un sabotatore e quindi vai licenziato. In fondo, lo stesso principio introdotto nel contratto della vergogna di Pomigliano.
Quattro classici licenziamenti politici, come si faceva una volta, che non sembrano scandalizzare i tifosi di Marchionne. Così come non scandalizzano nemmeno altre cose che succedono contestualmente in Fiat, come il taglio del salario accessorio o il fatto che si manda una parte degli operai in cassa integrazione, mentre a quelli rimasti si chiede un aumento dei ritmi di lavoro, affinché non diminuisca il volume di produzione.
No, la partita è generale. Si tratta di ristabilire il comando assoluto del padrone, in Fiat e dappertutto. E quindi bisogna anzitutto spezzare e disarticolare quei sindacati, in primis la Fiom, che fanno ancora il loro mestiere, che sarebbe quello di rappresentare gli interessi dei lavoratori e non di compartecipare ai buffet nel sottobosco governativo e confindustriale.
A maggior ragione, non sono giustificati e giustificabili i troppi silenzi e balbettii che accompagnano il tifo attivo di centrodestri, leghisti, confindustriali e collaborazionisti.
E per questo, proprio oggi, occorre schierarsi e dire chiaro e tondo che si sta dalla parte della Fiom e degli operai che non si piegano e che Marchionne deve ritirare i licenziamenti politici.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
 
L’atteggiamento delle istituzioni locali nei confronti degli operai della fabbrica milanese Mangiarotti Nuclear Spa sta diventando sempre più intollerabile. Per la seconda volta nel giro di soli 30 giorni i lavoratori hanno ottenuto come unica risposta alle loro richieste l’intervento dei reparti antisommossa, con la differenza che l’11 giugno scorso nessuno si era fatto male, mentre oggi un operaio è finito in ospedale.
Gli operai hanno manifestato davanti alla Prefettura di Milano per chiedere ancora una volta un ruolo attivo alle istituzioni locali. Infatti, senza un’assunzione di responsabilità diretta da parte di Regione, Provincia, Comune e Prefettura, semplicemente non ci sarà mai un tavolo di trattativa serio con la proprietà.
E ancora più grave appaiono il silenzio e l’indifferenza delle istituzioni locali, se consideriamo che la direzione della Mangiarotti è protagonista di una sistematica, prolungata e provocatoria violazione degli accordi, delle leggi e delle sentenze dei tribunali.
Ma com’è possibile che gli operai, colpevoli unicamente di non voler finire disoccupati, si becchino la polizia non appena fanno due passi, mentre la proprietà è di fatto libera di violare ogni regola?
Chiediamo ancora una volta che le istituzioni entrino in campo, al fine di impedire che la proprietà disponga dell’ausilio della polizia per asportare con la forza dei pezzi dallo stabilimento e di imporre, invece, che questa si sieda al tavolo di trattativa, per trovare una soluzione rispettosa degli accordi sottoscritti e capace di garantire attività produttiva e lavoro.
Ed è una questione molto urgente, perché in assenza di un’iniziativa forte c’è il rischio concreto che la proprietà imponga una soluzione violenta già nelle prossime settimane.
E che nessuno dica che non lo sapeva, perché lo sanno tutti.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
 
Dopo lo sciopero generale del pubblico impiego del 14 giugno scorso, proclamato dal sindacato di base Usb, venerdì 25 giugno c’è il prossimo appuntamento di mobilitazione contro la manovra economica del governo, con lo sciopero generale dei lavoratori e delle lavoratrici di tutti i settori pubblici e privati, proclamato nella stessa giornata sia dalla Cub, che dalla Cgil, ma separatamente.
Non ripetiamo qui quanto già scritto in occasione dello sciopero del 14 giugno scorso a proposito della dispersione e divisione delle azioni di lotta sindacali, poiché oggi e qui non ci rimane che prendere atto che le cose stanno così.
Segnaliamo tuttavia che a Milano qualche piccolo, ma generoso tentativo di produrre unità dal basso c’è, grazie all’iniziativa avviata dai lavoratori, iscritti a diverse sigle sindacali, di alcune aziende in crisi, che si erano riuniti in assemblea il 18 giugno scorso, ospiti dei lavoratori della Maflow di Trezzano s/N. Hanno deciso di essere presenti in ambedue i cortei milanesi con lo stesso striscione -“Uniti per Resistere”- e di proporre a tutti, al termine dei cortei, di recarsi unitariamente davanti alla sede dell’Assolombarda.
Inoltre, va sottolineato che lo sciopero generale è fortemente segnato dalla vicenda di Pomigliano -alla quale abbiamo dedicato molta attenzione su questo blog e quindi non ci ripetiamo in questa sede- e che ci sarà la presenza caratterizzata nel corteo della Cgil da parte degli operai della Fiom, il cui spezzone si aprirà con uno striscione che dice: “IN FABBRICA, IN UFFICIO, A SCUOLA, A CASA: SENZA DIRITTI SIAMO SOLO SCHIAVI”.
Comunque sia, non vi vogliamo dare dei consigli su dove e come “collocarvi” nella giornata milanese di domani, perché pensiamo che siate perfettamente in grado di farlo da soli.
Ci limitiamo quindi a segnalarvi l’elenco degli appuntamenti milanesi e ad invitarvi, questo sì, a partecipare e a scioperare, contro una manovra che colpisce pesantemente, in maniera diretta e indiretta, i lavoratori e le lavoratrici. E, ovviamente, per ribadire che la crisi non può giustificare i ricatti padronali e che non ci può e non ci deve essere uno scambio tra diritti e lavoro.
 
Ecco dunque gli appuntamenti a Milano per venerdì 25 giugno:
 
- ore 9.00, P.ta Venezia, concentramento della manifestazione regionale della Cgil, che seguirà il percorso tradizionale fino in p.zza Duomo, dove si terrà il comizio finale. La Fiom sarà presente a questo corteo con un spezzone caratterizzato;
- ore 9.30, L.go Cairoli, concentramento della manifestazione della Cub. Il corteo svilupperà un percorso in centro e si concluderà in piazza Cordusio. Va segnalato che la Questura ha vietato il luogo inizialmente previsto per la chiusura, cioè Piazza della Scala…;
- al termine dei due cortei, i lavoratori autoorganizzati proporranno a tutti di proseguire unitariamente con una manifestazione fino alla sede dell’Assolombarda, in via Pantano.
 
P.S. per i trasporti a Milano, tenete conto che lo sciopero riguarda ovviamente anche l’Atm. Questa è l’articolazione comunicata dalle organizzazioni sindacali per lo sciopero del trasporto pubblico milanese:
Filt-Cgil – dalle 18.00 alle 22.00
Cub Trasporti – dalle 8.45 alle 15.00 e dalle 18.00 a fine servizio.
 
 
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua (ex Aprileonline)
 
Ci vuole del fegato a dire di no quando ti ricattano brutalmente, dicendoti che devi applaudire il diktat del padrone, se non vuoi finire disoccupato in una terra dove un posto di lavoro vale oro.
E ci vuole una grande forza d’animo per non soccombere alle minacce e alle pressioni di mezzo mondo, che ti piombano addosso sotto forma di dvd aziendali, inviti televisivi alla responsabilità e volantini sindacali.
Hanno fatto di tutto e di più per drammatizzare, dalle marce del centrodestra locale e dei capi Fiat fino alla mobilitazione dei Ministri e del gotha dell’imprenditoria italica, liberista quando si tratta dei diritti e delle paghe dei lavoratori, statalista quando si tratta di reclamare e intascare denaro e favori pubblici.
E l’hanno fatto con la collaborazione attiva e volontaria di buona parte di quelli che, almeno per i ruoli formalmente ricoperti, avrebbero dovuto fare un po’ di opposizione e delineare qualche alternativa. Invece no, anche da Pd e IdV si levavano voci che dicevano che bisognava bere l’amaro calice, aggiungendo poi, con insopportabile ipocrisia e in aperta sfida alla realtà, che tanto quel contratto sarebbe rimasto un’eccezione.
Non diversamente sono andate le cose nel mondo sindacale. Lasciamo stare la Cisl di Bonanni, che ormai ha quasi completato la sua metamorfosi in organizzazione collaterale del Governo e di Confindustria, ma che dire della maggioranza della Cgil che platealmente ha preso le distanze dalla Fiom?
Insomma, una canea da pensiero unico che lasciava poco scampo e che preannunciava un plebiscito. Cioè, esattamente quello che Marchionne e tutto il coro volevano, non tanto per Pomigliano in sé, ma perché, appunto, in gioco c’erano e ci sono le relazioni tra lavoratori e imprenditori in generale nel nostro paese.
Per capire che questa fosse la posta in gioco, in fondo, era sufficiente guardare alla vicenda dell’Indesit che viene al pettine proprio in questi giorni. Il gruppo, replicando apertamente le modalità di Marchionne, intende chiudere gli stabilimenti bergamaschi, gettando sul lastrico oltre 500 operai, e trasferire la produzione a Caserta, cioè in quella regione italiana dove, secondo le parole della Marcegaglia, nessun imprenditore vorrebbe andare, salvo l’eroico e patriottico Marchionne.
Eppure, a Pomigliano il plebiscito non c’è stato, anzi. Una partecipazione al voto altissima, 4.642 su 4.881, ma i “sì” sono stati 2.888 (62,2%) e i “no” 1.673 (36%). Inoltre, va sottolineato, se da quelle cifre sottraiamo il voto dei capi e degli impiegati, cioè di quel seggio che ieri sera aveva fatto gridare al trionfo qualche incauto funzionario della Cisl, i “sì” superano di poco il 50%.
Dagli operai di Pomigliano viene una grande lezione di dignità a tutto il paese e un messaggio chiaro: non ci può e non ci deve essere nessuno scambio tra lavoro e diritti.
E per questo li ringraziamo.
Ora la Fiat cercherà di fare la furba, aggiungendo ricatti a ricatti e minacce a minacce. Che i no sono troppi, che a questo punto se ne andrà dall’Italia, che farà una newco eccetera. Dall’altra parte, stando a quanto firmato nell’accordo, l’investimento a Pomigliano non era sicuro nemmeno con il sì al 99%, visto che è condizionato da molti se e ma.
Tuttavia, se la Fiat riuscirà a ricattare ulteriormente oppure se riuscirà a trasformare questa vicenda in un pretesto per una decisione già presa, tutto questo dipende ora anche dalle scelte degli attori politici e sociali del nostro paese. Marchionne ha potuto fare quello che voleva perché aveva il tifo e il sostegno del Governo, di una parte considerevole del mondo sindacale e persino di parti significative dell’opposizione.
 
 
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 19 giugno 2010 e sui giornali online MilanoX e Paneacqua (ex Aprileonline)
 
Ma che cavolo ha l’articolo 41 della Costituzione che non va? Insomma, è rimasto lì per 60 anni, non lo toccavano nemmeno ai tempi di Scelba, quando la polizia sparava sugli operai in sciopero, e ora, all’improvviso, è diventato un insopportabile ostacolo alla libertà d’impresa, un freno alla libera concorrenza e un rimasuglio di quel socialismo reale che in Italia non c’è mai stato (a differenza di Scelba, delle stragi di Stato e del regime democristiano, beninteso).
L’articolo 41 va riscritto. L’hanno detto Berlusconi e Tremonti e l’ha confermato un “tecnico” d’eccellenza, come il presidente dell’antitrust. I capi di Confindustria, da papà e mamma fino ai figli, si sono messi a sbraitare come ossessi: ci vuole la “deforestazione normativa”.
E allora, siccome la memoria potrebbe anche ingannarmi, sono andato a rileggermi l’articolo dello scandalo. Chissà, magari mi era sfuggito qualcosa in tutti questi anni.
Inizio a leggere. Il primo capoverso recita così: “L'iniziativa economica privata è libera.” Non mi pare roba da Carlo Marx, anzi, potrebbe averlo scritto Adam Smith in persona.
Passo quindi al secondo capoverso: “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” E questo mi pare persino ovvio. Mica può essere considerato lecito ridurre un cittadino in schiavitù o mutilarlo pur di ricavarne un guadagno. Insomma, ci vuole pure un confine tra l’imprenditoria e il crimine organizzato.
E poi, a pensarci bene, cose del genere si sentono dire e ridire anche da banchieri, imprenditori e manager, almeno nei convegni e nei seminari dedicati alla responsabilità sociale dell’impresa, o Corporate Social Responsibility, se preferite.
Mi leggo allora il terzo e ultimo capoverso: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” Nulla di strano neanche qui, mi pare. In fondo dice soltanto che le cose affermate al punto secondo non sono semplici auspici, bensì prescrizioni obbligatorie da tradurre in pratica con apposite leggi. Certo, questo rappresenta sicuramente una differenza con la storia della responsabilità sociale dell’impresa, che è un atto soggettivo e volontario, ma dall’altra parte è anche vero che lo stato di diritto è cosa diversa da un convegno di Bill Gates.
A questo punto, però, continuo a non capire dove stanno tutti questi impedimenti alla libertà d’impresa che frenano la ripresa economica. E così, per cercare di capire meglio, mi armo delle sagge parole del mio prof di Istituzioni di Diritto Pubblico di tanti anni fa -“quando c’è contrasto tra realtà materiale e realtà normativa, allora la prima tende a prevalere sulla seconda”- e volgo lo sguardo verso Sud, a Pomigliano d’Arco per la precisione.
Lì c’è uno stabilimento Fiat, ex-Alfa, con oltre 5.000 dipendenti, ai quali andrebbero aggiunti quelli generati dall’indotto. A dire la verità, in quella fabbrica c’è stato ultimamente un tasso di assenteismo un po’ altino, visto che i lavoratori hanno passato più tempo in cassa integrazione che al lavoro.
Comunque sia, gli operai di Pomigliano sono fortunati, perché la Fiat gli offre l’opportunità di non fare la fine dei loro colleghi siciliani dello stabilimento di Termini Imerese, destinato alla chiusura per fine 2011. No, per loro c’è sul tavolo l’offerta di 700 milioni di euro di investimenti e la produzione della nuova Panda a partire dal 2012.
Come si fa a non esultare, a non ringraziare la Fiat per la sua generosità? Invece di spostare anche la produzione della nuova Panda all’estero, dove ormai viene prodotta la grande maggioranza delle automobili Fiat, alla faccia del tanto decantato Made in Italy e, soprattutto, del mare di miliardi girati dalle tasche del contribuente italiano a quelle della multinazionale, il signor Marchionne ha deciso di fare un patriottico sacrificio.
Tuttavia, c’è una condizione. I sacrifici devono farli anche gli operai. Insomma, c’è la crisi e la competizione internazionale e quindi bisogna rinunciare a qualche piccolo privilegio italiano, per avvicinarsi maggiormente alle situazioni di avanguardia in termini di condizioni di lavoro, tipo la Polonia. Quindi, riduzione delle pause da 40 a 30 minuti giornalieri, aumento degli straordinari comandati da 40 a 120 ore a testa per anno, da fare anche durante la pausa mensa – peraltro spostata a fine turno-, deroga all’obbligo di riposo di almeno 11 ore tra un turno e l’altro, possibilità per l’azienda di non pagare la malattia al singolo lavoratore se l’assenteismo medio in fabbrica supera una certa soglia eccetera eccetera.
Ovviamente, questo accordo deve essere roba seria e, quindi, entrerà a far parte del contratto di lavoro individuale di ogni lavoratore. In altre parole, se a un operaio dovesse saltare in mente di partecipare a uno sciopero degli straordinari, per esempio, questo rappresenterebbe una violazione del contratto di lavoro, punibile con le sanzioni disciplinari, fino al licenziamento.
Gli estremisti-ideologici-irresponsabili-conservatori della Fiom hanno presentato delle proposte alternative, in grado di garantire l’obiettivo produttivo della Fiat di 280mila vetture all’anno, ma senza violare le regole del contratto nazionale, le leggi e il diritto di sciopero, peraltro costituzionalmente tutelato e pertanto indisponibile.
Ma Marchionne ha detto niet e ha ribadito: mangiare la minestra o saltare la finestra, accettare il diktat o finire disoccupati, portare la Polonia a Pomigliano oppure portare il lavoro in Polonia.
I sindacalisti responsabili di Fim, Uilm e Fismic hanno responsabilmente detto di sì, ma questo a Marchionne non basta. Ci vuole anche il plauso degli operai e quindi va fatto il referendum, cioè quella cosa che venne negata ai lavoratori ai tempi del contratto separato dei metalmeccanici. Comunque, la Fiat ci tiene alla democrazia e quindi i suoi rappresentanti hanno già iniziato a contattare i singoli dipendenti, per informarsi se hanno intenzione di andare democraticamente al voto, per esprimere liberamente il loro alla generosità della Fiat.
Insomma, Marchionne non chiede un accordo sindacale che garantisca gli obiettivi produttivi, ma chiede molto di più. Chiede agli operai di nobilitare un volgare ricatto, di chinare la testa, di arrendersi. Non lo fa per cattiveria o ottusità, beninteso, perché Marchionne non è né un pazzo, né un estremista, ma lo fa perché la vicenda di Pomigliano è una vicenda che va oltre Pomigliano.
Dall’altra parte, che la produzione della Panda venga avviata effettivamente nel 2012 e nella dimensione annunciata è ancora tutto da vedere. A differenza degli impegni chiesti ai lavoratori, infatti, quelli assunti dalla Fiat sono corredati da diversi se e ma.
No, il punto è un altro. Pomigliano deve fare scuola, deve sfondare gli argini. Dopo Pomigliano arriveranno gli altri stabilimenti Fiat e non Fiat. E deroga dopo deroga toccherà all’istituto del contratto nazionale e alla legislazione, Statuto dei Lavoratori compreso.
Vi ricordate della Thatcher e della sua guerra contro i minatori? Ebbene, è la stessa cosa. Non si aggredisce più l’anello debole della catena, ma si tenta lo sfondamento centrale. Insomma, si cerca di spezzare le reni ai metalmeccanici e alle loro organizzazioni ancora indipendenti, per avere campo libero dappertutto.
Si combatte a Pomigliano, ma la posta in gioca è nazionale e generale. Ecco perché in partita entra anche l’articolo 41 della Costituzione. Non perché impedisca la semplificazione burocratica o la velocizzazione delle pratiche per aprire una nuova impresa –ma quando mai!-, ma perché è necessario riscrivere il codice genetico della nazione, stabilendo anche simbolicamente che la libertà d’impresa, cioè la libertà dell’imprenditore, è un valore assoluto, mentre la libertà del lavoratore e della lavoratrice è soltanto una sua variabile dipendente.
E, last but not least, ecco perché oggi è giusto e necessario stare apertamente dalla parte di quelli come la Fiom. Perché i silenzi, le ambiguità e i balbettii equivalgono alla complicità.
 
 
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