Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 27/08/2010, in Lavoro, linkato 1088 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 27 agosto 2010
 
Un pregio questo profondo agosto l’ha avuto, con i suoi meeting e i suoi dibattiti. Ha aiutato a fare un po’ di chiarezza, ad esplicitare, al di là di ogni ragionevole dubbio, di che cosa stiamo parlando, quando diciamo Pomigliano, Melfi o Fiat.
Non a caso, infatti, nessuno parla più di fannulloni, assenteismo o finti malati, come invece si faceva senza ritegno ai tempi del referendum di Pomigliano. E assume senso compiuto anche quell’irriducibile opposizione della Fiat al reintegro “nel proprio posto di lavoro” –e non nella saletta sindacale- dei tre operai di Melfi.
No, tutte queste cazzate, ci si permetta il termine, sono state spazzate via dai dotti discorsi di Ministri, capi confidustriali e amministratori delegati. Dobbiamo essere grati, in particolare, al Ministro Tremonti e all’Ad Marchionne, per avere autorevolmente attestato che le cose stanno esattamente come pensavamo che stessero.
Il primo, tra Rimini e Bergamo, ha in sostanza detto che viviamo in un mondo difficile, che siamo noi che dobbiamo adeguarci a questo e non questo noi e che, quindi, certi lussi non possiamo più permetterceli. Si riferiva soprattutto a due “lussi”: i diritti e la sicurezza sui luoghi di lavoro, comprese “robe come la 626”.
Il secondo, nel suo intervento di ieri a Rimini, non ha nemmeno fatto finta di citare l’assenteismo e si è dedicato invece a un discorso più generale. Secondo lui, ci vuole un nuovo patto sociale, un nuovo modello e questo significa, ovviamente, che bisogna buttare a mare quello vecchio. Ed è quello che sta avvenendo ora in Fiat: “la contrapposizione tra due modelli”.
Marchionne non perde tempo a spiegare in dettaglio questo nuovo modello, vi allude soltanto, parlando di “responsabilità e i sacrifici” e di competizione nel mondo. In cambio, però, è molto chiaro nell’individuare il modello da distruggere: “Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra ‘capitale’ e ‘lavoro’, tra ‘padroni’ e ‘operai’… Erigere barricate all’interno del nostro sistema alimenta solo la guerra in famiglia.”.
Potremmo fermarci qui con le citazioni di Marchionne, se non fosse che è stato anche protagonista di due cadute di stile, sebbene la platea ciellina non ci abbia fatto caso. Con la prima, ha attaccato gratuitamente i tre licenziati politici di Melfi, rinfacciandogli che “la dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone”.
Con la seconda, invece, si è esercitato in una clamorosa, ma significativa omissione. E così, dopo aver rivendicato con forza il progetto “Fabbrica Italia” e affermato che “rispettare un accordo è un principio sacrosanto di civiltà”, si è completamente dimenticato di accennare al caso delle produzioni assegnate quattro mesi a Mirafiori, poi sparite e, infine, riapparse in Serbia.
Ma che ci vuoi fare, dall’altra parte non si è nemmeno ricordato della parolina “cassa integrazione”, che a breve arriverà anche per gli operai di Melfi.
Comunque, inutile scandalizzarci per qualche scorrettezza o bugia. Questo non è un gioco pulito, è un gioco pesante e non si prevedono prigionieri. Ma in cambio è trasparente. Non si tratta di avere meno assenteismo, più produttività eccetera. Tutto questo si potrebbe ottenere anche nel quadro normativo e contrattuale esistente (peraltro tutt’altro che generoso con i lavoratori). No, il problema non è quantitativo, è qualitativo. Ed è generale.
Sacconi, Tremonti e Marchionne dicono e vogliono la stessa cosa, non cose diverse. E non sono nemmeno cose tanto nuove. Quasi nessuno si ricorda ormai, ma nel lontano ottobre 2001 l’allora Ministro del Welfare, il leghista Roberto Maroni, presentò il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Riga in più, riga in meno, c’era già tutto scritto, compreso l’obiettivo di abrogare lo Statuto dei Lavoratori, cioè il pacchetto fondamentale dei diritti, per sostituirlo con lo “Statuto dei Lavori”.
L’anno scorso a Milano l’81,6% dei nuovi contratti di lavoro stipulati aveva carattere precario. Evidentemente vogliono il 100%, dappertutto e subito. È l’assalto al cielo dei padroni.
Insomma, dopo le illuminanti chiacchiere agostane, non ci sono più alibi per nessuno. Non ci riferiamo ovviamente ai vari Bonanni, che di alibi non ne hanno più da tempo, ma a tutti gli altri.
A questo punto bisogna scegliere da che parte stare. Con Marchionne e Tremonti o con la Fiom, i sindacati di base e tutti quelli che si battono per la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. Suona brutale, lo so, ma questa è l’ora di schierarsi.
 
 
Tutti contro la Fiom, tutti con Marchionne. Sembra sia questa la parola d’ordine, sancita oggi dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, con un perentorio “il vero problema è la Fiom”.
Ora, che Marchionne e i capi confindustriali si facciano i propri interessi senza troppi fronzoli, possiamo anche considerarlo normale, ma che essi trovino con tanta facilità consenso e complicità nella politica, non possiamo e non vogliamo considerarlo normale.
Insomma, il vero problema da debellare ci pare sia la condiscendenza della politica. E non è questione di partigianeria sindacale, poiché qui, in tutta evidenza, si sta giocando una partita fondamentale per il futuro di tutto il mondo del lavoro italiano.
Federmeccanica non si è semplicemente piegata all’arroganza di Marchionne, ma ha colto la palla al balzo, visto che con la disdetta unilaterale del contratto nazionale dei metalmeccanici punta ad imporre condizioni salariali e di lavoro peggiorativi in tutte le aziende.
Che le cose stiano così, in fondo ce lo conferma proprio un quotidiano non ostile agli imprenditori, cioè il Corriere della Sera, che nell’edizione in edicola oggi ipotizza i primi effetti concreti sui lavoratori metalmeccanici della disdetta, spaziando dagli stipendi più bassi per i giovani (cioè, il salario d’ingresso) fino all’aumento del numero di straordinari obbligatori.
Altro che “non cambia niente per i lavoratori”, come aveva esclamato ieri il Ministro Sacconi. Era soltanto una bugia, il cui unico scopo è quello di fiancheggiare Confindustria. Del resto, la stessa cosa la fanno tutti i componenti del Governo, ognuno nel suo stile: dalle rozze provocazioni della Gelmini fino agli applausi leghisti alle proposte di Tremonti di spazzare via mezza legislazione sul lavoro, passando attraverso le campagne denigratorie della stampa di proprietà di Berlusconi, in primis Panorama.
Ma il problema non si limita al Pdl e alla Lega. Pesano in maniera determinante, ovviamente, le parole e gli atti di chi governa, ma non sono indifferenti neanche i silenzi o le voci troppo flebili nel campo dell’opposizione, per non parlare dello spettacolo sempre più offensivo offerto da alcuni leader sindacali, a partire da Bonanni, che sono disposti ad ogni servilismo pur di ottenere qualche rendita di posizione per la propria casta di funzionari.
Tutto questo facilita i ricatti e le forzature, perché consente di distorcere la realtà. Quindi, con la massima disinvoltura, si passa dalla santificazione dell’istituto referendario, nel caso di Pomigliano, alla sua fucilazione sommaria, nel caso del contratto nazionale. Ebbene sì, perché quello disdetto era stato approvato dagli operai con referendum, mentre quello separato che dovrebbe sostituirlo non è stato mai sottoposto a referendum.
Ma appunto, la partita è generale, tra chi ritiene che il futuro dell’economia italiana stia nel dumping sociale fatto in casa e chi invece pensa che tentare di assomigliare alle fabbriche cinesi sia un suicidio e che occorra investire sull’innovazione e sulla qualità del prodotto e del lavoro.
Per questo bisogna schierarsi. E se non si sta con i teorici della nuova servitù della gleba, allora bisogna contrastare i tentativi di isolare la Fiom e lavorare perché la manifestazione nazionale del 16 ottobre sia un fiume di popolo.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
 
“Senza diritti siamo tutti ricattabili” è il titolo del confronto pubblico organizzato dal quotidiano il Manifesto a Milano per il 21 settembre prossimo, alle ore 18.00. Parteciperà anche Maurizio Landini, il nuovo segretario generale della Fiom.
L’iniziativa si svolge in vista della manifestazione nazionale per i diritti del 16 ottobre, indetta dalla Fiom e proposta a tutte le forze sociali e politiche, e intende offrire alla città capitale della precarietà (l’anno scorso a Milano l’81% delle nuove assunzioni aveva carattere precario!) un momento di discussione più ampio sulla posta in gioco nello scontro in Fiat.
 
Ecco le coordinate dell’iniziativa, alla quale è stato invitato a partecipare anche il sottoscritto (in fondo, cliccando sull’icona, puoi inoltre scaricare volantino e spot):
 
SENZA DIRITTI SIAMO TUTTI RICATTABILI
Sono partiti da Pomigliano, ma sono di casa anche a Milano, riscrivono regole, licenziano, dicono che la sicurezza sul lavoro è un “lusso”, lo Statuto dei Lavoratori da abrogare e gli stipendi da moderare, ci vorrebbero tutti e tutte precari e imbavagliati, senza diritti e senza voce, vogliono tutto.
 
Martedì 21 settembre - ore 18:00
Casa della Cultura - via Borgogna 3
Milano
 
Intervengono:
Maurizio LANDINI - segretario generale Fiom
Loris CAMPETTI - giornalista de il Manifesto
Alex FOTI - attivista EuroMayDay, editor MilanoX
Paolo LIMONTA – insegnante, Comitati Buona Scuola Milano
Luciano MUHLBAUER - già consigliere regionale Prc
Emanuele PATTI - presidente Arci Milano
 
organizza: il Manifesto
 
per info sulla manifestazione nazionale del 16 ottobre clicca qui
 
per scaricare volantino da riprodurre e spot dell’assemblea del 21 settembre clicca sull’icona qui sotto
 

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Uno schiaffo ai giovani della nostra regione. Questo e non altro è l’accordo sull’apprendistato, siglato ieri tra Formigoni, il Ministro del Lavoro, Sacconi, e il Ministro dell’istruzione, Gelmini.
Uno schiaffo, perché anticipa in un accordo Regione-Governo quello che la legge nemmeno ancora consente: cioè l’abbassamento dell’obbligo scolastico da 16 a 15 anni. Infatti, l’abbassamento è contenuto in un disegno di legge, il cosiddetto “collegato lavoro”, tornato in discussione in parlamento proprio in questi giorni, dopo essere stato rinviato alla Camere dal Presidente Napolitano, a causa della scandalosa norma sull’arbitrato.
Certo, tecnicamente non viene meno l’obbligo fino a 16 anni, ma semplicemente sarà possibile assolvere l’ultimo anno fuori dalla scuola, stando al lavoro. E tutto questo, ovviamente, nel nome della lotta contro la dispersione scolastica, che peraltro in Lombardia è molto consistente.
In altre parole, se la scuola pubblica non ce la fa a trattenere dei ragazzi e delle ragazze, magari nelle zone popolari, allora questo non è un problema della scuola, ma dei ragazzi e delle loro famiglie. Insomma: hai dei problemi a scuola? Allora, va a lavurà! Con un contratto di apprendistato e sottopagato, beninteso.
E non deve ingannare nemmeno il tanto sbandierato aumento del tempo di formazione obbligatoria fino a 400 ore all’anno, perché l’accordo prevede che la formazione possa essere sia “esterna” che “interna” all’azienda. Chiaro?
Ma uno schiaffo tira l’altro, e così si aggiunge pure, con il plauso di qualche sindacalista in evidente crisi di identità, come quelli della Uil Lombardia, che questa norma servirebbe a combattere la disoccupazione giovanile. Ma come funzionerebbe questo miracolo nella realtà, per giunta in piena crisi occupazionale e dilagante precarietà, nessuno si è degnato di spiegarlo.
Questo accordo non fa bene ai giovani della Lombardia, non migliora la scuola e non fornisce occupazione. Anzi, scarica i giovani, specie quelli che avrebbero bisogno di qualche attenzione e stimolo in più, e li butta in pasto al dumping sociale.
Per un raggiante Formigoni, in mezzo degli altrettanto raggianti Sacconi e Gelmini, tutto questo è una “riforma di altissimo valore culturale”. Per noi è un vergogna, da fermare prima che si traduca in fatti.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
 
Editoriale di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 2 ottobre 2010
 
È stata una settimana densa, segnata da un frenetico susseguirsi di atti, fatti e strappi, che ben rappresentano il momento delicato e decisivo che la questione lavoro vive nel nostro paese.
Prima, è arrivata la tripletta del mercoledì. In una sola giornata è stato approvato in Senato il famigerato “collegato lavoro”, concluso l’accordo sulle deroghe tra Fim, Uilm e Federmeccanica e inviata dal Ministro Sacconi una missiva alle parti sociali con il sollecito di procedere verso il superamento dello Statuto dei Lavoratori. Poi, sono arrivati il giovedì e venerdì di polemiche e linciaggi morali contro gli operai Fiom, che in alcuni luoghi hanno protestato e lanciato uova contro sedi della Cisl.
Non c’è dubbio, il gioco è duro e neanche troppo pulito. Ed è un gioco ai massimi livelli, quindi bisogna fare squadra. L’hanno capito da tempo i Marchionne, Marcegaglia, Sacconi, Bonanni e altri.
Ma attenzione, non banalizziamo, la loro non è una squadra omogenea, sono un insieme di diversi, e non c’è alcun complotto in corso. Semplicemente, hanno annusato l’aria e realizzato una convergenza d’interessi attorno un obiettivo ritenuto praticabile: l’azzeramento del patto sociale, codificato nella Costituzione e perfezionato dalle lotte dei lavoratori degli anni ’60-’70.
La posta in gioco è generale, non si tratta più di tirare per la giacchetta l’esistente, bensì di rovesciarlo, di passare al salto di qualità, di ridefinire dall’alto un nuovo patto sociale, strutturalmente asimmetrico: il padrone comanda, il lavoratore obbedisce in silenzio e a buon mercato e il nuovo sindacato-istituzione fa il guardiano.
Più che un patto, sembra la resa imposta dal vincitore al vinto, in cambio della vita (pardon, del posto di lavoro). Per questo non interessa più lo scontro con l’anello debole o il compromesso, ma si cerca l’impatto frontale e la disintegrazione dell’anello forte, che oggi è individuato nei metalmeccanici e nella Fiom.
Avete dei dubbi che le cose stiano così? Ebbene, allora considerate soltanto quello che c’è scritto nell’accordo sulle deroghe, cioè il nuovo “Art. 4-bis – Intese modificative del CCNL”. Anzi, se avete due minuti, leggetelo!
Ebbene sì, perché in fondo dice due cose tanto semplici, quanto dirompenti: il contratto nazionale è finito e i lavoratori non potranno mai più votare. Cioè, un golpe sindacale o, per essere più gentili e nostrani, un ribaltone.
Il nuovo articolato dice, infatti, che il modello Pomigliano può essere applicato ovunque nella categoria, da Bergamo a Palermo. E se le deroghe al contratto diventano la regola, in nome della crisi, allora a che cosa serve il contratto?
Ma la cosa davvero grave in tutto questo è che i lavoratori sono stati ufficialmente imbavagliati ed espropriati del loro diritto di parola. Infatti, le deroghe nelle aziende vengono decise “con l’assistenza delle Associazioni industriali e delle strutture territoriali delle Organizzazioni sindacali stipulanti” e poi “validate” non dai diretti interessati, ma dalle “parti stipulanti il CCNL” a livello nazionale. Cioè, quelli che firmano le deroghe sono gli stessi che poi le approvano.
In altre parole, siccome gli operai non sono d’accordo con Bonanni, allora Bonanni gli toglie la parola. C’è da meravigliarsi, se alcuni operai hanno dato sfogo alla loro rabbia davanti alle sedi della Cisl? Certo, aggiungiamo subito, è meglio non farsi trascinare nelle provocazioni, perché qui il gioco è truccato, per concentrarsi invece sulla costruzione della manifestazione del 16 ottobre.
Ma detto questo, va detta anche un’altra cosa: è assolutamente indecente e irricevibile il coro di ministri, presidenti, industriali, segretari e cortigiani vari che attacca il dissenso a suon di paroloni come “aggressione” e “squadrismo”, mentre invece tacciono di fronte alla negazione dei più elementari diritti democratici dei lavoratori.
Ma appunto, qui torniamo al nostro discorso iniziale. Loro hanno un obiettivo e fanno squadra. Ma noi? Se allarghiamo lo sguardo all’insieme del campo dell’opposizione a Berlusconi, viene da piangere. C’è pure chi dà ragione a chi imbavaglia i lavoratori.
Ma il problema risiede anche più a sinistra del centro ed è figlio di quella calamità culturale che ha estromesso il lavoro e la questione sociale dalla bussola della politica. La sinistra, politica e sociale, di partito o di movimento, semplicemente non esiste e non ha futuro se non mette al centro la questione sociale, se non riparte da qui, dai lavoratori e dalle lavoratrici, per disegnare un progetto, un programma e un sogno per uscire dalla crisi.
Il 16 ottobre non c’è semplicemente una manifestazione nazionale, ma un’occasione per ritrovarsi tra diversi, produrre convergenza di interessi e costruire discorsi e percorsi comuni. Questo è il punto, questa è l’urgenza e per questo la risposta al loro gioco sporco è l’investimento sull’unità attorno al 16 ottobre.
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo dell’accordo sulle deroghe (nuovo art. 4-bis del Ccnl metalmeccanico separato del 2009) firmato da Fim, Uilm e Federmeccanica il 29 settembre 2010
 

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“Labor Blues”, rubrica a cura di Luciano Muhlbauer, su MilanoX n° xvi del 14 ottobre 2010, la free press eretica tornata nelle strade milanesi in cartaceo.
 
Si parla molto di lavoro, ma poco di lavoratori e lavoratrici. E non importa se stai in fabbrica o nel centro commerciale, in ufficio o nel call center e nemmeno se sei precario, fisso o cassintegrato, perché comunque sei invisibile. A meno che, ovviamente, tu non salga su una gru, non tiri un uovo contro una sede Cisl o non vada ad ingrossare le statistiche sugli incidenti sul lavoro, perché in quel caso ti viene concessa una fugace apparizione al Tg.
Ne sanno qualcosa i dipendenti della Wagner Colora di Gessate e Burago Molgora, che dal 6 ottobre scorso occupano l’azienda, in mezzo al più totale menefreghismo mediatico, contro 37 licenziamenti.
Eppure, la loro vicenda avrebbe tutti i requisiti per finire su qualche giornale che conta. Infatti, la Wagner Colora, azienda che produce impianti per la verniciatura, è una multinazionale tedesca che ha deciso di delocalizzare, non in Cina, ma in Svizzera! E poi, ci sarebbe pure quell’infame ricatto della proprietà, che si oppone alla cassa integrazione in deroga, pagata dai bilanci pubblici, perché pretende di liberarsi dai lavoratori subito.
Ma quelli e quelle della Wagner Colora non fanno notizia. Sulle prime pagine nazionali il 6 ottobre loro non c’erano. C’erano, invece, altri operai, che stavano 15 chilometri più a nord, a Merate (Lc) per la precisione, grazie all’immaginario “assalto Fiom alla sede Cisl”. Non era vero niente, perché in realtà si trattava soltanto di due (2) operai, entrati nella sede Cisl per consegnare un volantino e mandare a quel paese i contratti separati. Ma chi se ne frega, perché la fandonia di Merate serviva per dire che quelli della Fiom sono violenti e cattivi, mentre la storia vera di Burago ricordava piuttosto le miserie dell’imprenditoria contemporanea.
E così, nessuno saprà mai di Ombretta, impiegata di 45 anni, che dopo 21 anni di lavoro alla Wagner si ritrova con un calcio nel sedere, oppure di Luigi, operaio di 49 anni, due figli piccoli e il solito mutuo da pagare, che sperava almeno nei due denari della cassa integrazione.
Insomma, se non avete ancora trovato un motivo valido per manifestare insieme alla Fiom a Roma, sabato 16 ottobre, allora cercatelo tra Burago e Merate.
 
Il sito di MilanoX: www.milanox.eu
 
 
 
di lucmu (del 14/10/2010, in Lavoro, linkato 966 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 14 ottobre 2010, con il titolo “Con la Fiom contro la diffamazione”
 
La manifestazione nazionale della Fiom del 16 ottobre sarà molto partecipata, non c’è dubbio. E questo nonostante l’incessante lavorio della collaudata macchina della tensione e della diffamazione, per cui anche un uovo si trasforma in un atto di terrorismo, e i troppi bastoni tra le ruote messi da chi nel nostro paese si occupa di trasporto pubblico.
Anzi, è proprio l’intensità e l’aggressività di quella azione di contrasto a confermarci che l’appuntamento di sabato prossimo sta crescendo. Ma attenzione, questo non significa affatto che ora possiamo rilassarci, perché l’esperienza insegna che non c’è limite alle bassezze che sono disposti a mettere in campo.
Fate un piccolo sforzo di memoria e ripensate alle mobilitazioni degli anni passati. E non ci riferiamo al classico nostrano dell’allarme bomba e dei proiettili in busta, ma a quelle operazioni meno rozze, ma più insidiose sul piano comunicativo, che prendono qualche fatto marginale, per farlo diventare mediaticamente il fatto principale che oscura tutto il resto.
Il parallelo con eventi di qualche anno fa ci pare peraltro pertinente anche da un altro punto vista: la totale asimmetria tra l’isolamento della Fiom a livello ufficiale ed istituzionale e, invece, il significativo potenziale di consenso ed alleanza a livello sociale. Insomma, il mondo che sta in alto è una rappresentazione infedele del mondo che sta in basso.
Infatti, sono apertamente ostili ai temi e agli obiettivi della mobilitazione non solo la Fiat, la Confindustria, l’intero Governo e le oligarchie di Cisl e Uil, ma anche parte importante dell’opposizione parlamentare, mentre nella Cgil le ambiguità abbondano.
Ecco perché fa paura la riuscita della manifestazione del 16 ottobre, perché potrebbe svelare l’inganno e rimettere in gioco un’opzione diversa da quella del dumping salariale, della precarietà per tutti e tutte e del ricatto sociale ed esistenziale generalizzato.
E non è soltanto una questione di tattica, ma anche di sostanza politica. La prospettiva iperliberista, indicata come via d’uscita dalla crisi della globalizzazione liberista, è infatti incompatibile con la democrazia e la partecipazione.
Lo sanno bene i milioni di precari del nostro paese, che non hanno mai potuto sapere cosa significasse esigere un diritto o praticare la democrazia sul posto di lavoro, lo sanno i tanti e le tante costretti al lavoro nero, migranti o nativi che siano, e lo sanno i lavoratori e le lavoratrici di categorie, come quella del commercio, che hanno già sperimentato le magnifiche sorti dei contratti “innovativi”.
Non siamo dunque di fronte a una novità, bensì al tentativo di tradurre la quantità accumulata in un salto di qualità strutturale. I “10, 100, 1000 Pomigliano”, evocati da Bonanni, altro non sono che l’enunciazione di un progetto generale, socialmente e culturalmente regressivo, che include l’abolizione della democrazia nei luoghi di lavoro.
Non che nel nostro paese la democrazia nei luoghi di lavoro sia un granché, anzi, ma ora c’è qualcosa in più. Cioè, Bonanni e Angeletti non solo pretendono di sostituire un contratto nazionale approvato con referendum con uno nuovo, separato e mai sottoposto al voto dei lavoratori, ma ora firmano persino un accordo che dice che Fim e Uilm possono concordare nelle aziende delle deroghe al contratto nazionale separato e che quelle deroghe verranno “validate” non da chi lavora in quelle aziende, bensì da Fim, Uilm e Federmeccanica a livello nazionale.
Tutto chiaro? Persino il referendum-ricatto di Pomigliano non si potrà più fare. I lavoratori e le lavoratrici semplicemente non potranno più dire la loro sui contratti firmati a nome loro. E poi non potranno neanche più scioperare, perché altrimenti sabotano la produzione o il diritto al lavoro dei colleghi che non scioperano.
Insomma, non è possibile mediare o fare compromessi con chi imbavaglia i lavoratori, negandogli il diritto di votare, decidere e scioperare. Per questo, parlando del lato sinistro del mondo, i distinguo, le ambiguità o peggio sulla partita che si è aperta a Pomigliano sono inaccettabili e dannosi.
Sabato sarà una buona giornata a Roma, partecipata ed intensa. Sarà la miglior risposta a chi in questi giorni tenta di occultare i propri peccati dietro il rumore degli insulti. Anche per questo dobbiamo avere cura della manifestazione, non certo invocando servizi d’ordine “generalizzati”, bensì mobilitando le nostre intelligenze e consapevolezze.
Poi arriveranno i giorni successivi, forse quelli più importanti, in cui dovremo costruire il percorso, perché la battaglia sarà lunga e dura. Lo dovremo fare insieme, nella pluralità di soggetti e pratiche, centralmente e sui territori, e cercando anche chi questa volta non è venuto a Roma, ma con la consapevolezza che c’è un’occasione per ricominciare, mettendo al centro la questione sociale e la democrazia.
 
 
“Labor Blues”, rubrica a cura di Luciano Muhlbauer, su MilanoX n° xvii del 21 ottobre 2010
 
Non possiamo che ripartire dalla grande, straordinaria manifestazione di sabato 16 ottobre. Un fatto eccezionale, un fiume di uomini e donne, metalmeccanici anzitutto, ma anche lavoratrici e lavoratori di altre categorie, precari, studenti, migranti, centri sociali, associazioni, partiti di sinistra eccetera. Insomma, troppi per cercare di rinchiuderli in una piccola rubrica, ma più che sufficienti per dare una bella boccata d’ossigeno alle nostre esauste speranze.
A Roma gli operai della Fiom, quelli additati da capi e cortigiani come violenti e mezzi terroristi, hanno dato una lezione di alta politica. Lo hanno fatto con i numeri e con le parole. Già, perché di fronte a una piazza San Giovanni che non riusciva a contenere i manifestanti, il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, non ha parlato soltanto di Fiat e metalmeccanici, ma di quella questione generale che, alla fine della fiera, spiega l’accanimento confindustrial-governativo-cislino e i balbettii in casa Pd e Cgil.
Landini ha parlato dei precari e delle precarie e, significativamente, di reddito di cittadinanza. Ha parlato della crisi, della Costituzione e della democrazia, dei diritti e delle libertà, di scuola e università, di lavoratori migranti e della Bossi-Fini da cancellare, della pace e dell’urgenza del ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Insomma, ha detto quello dovrebbe dire una sinistra degna di quel nome e, soprattutto, ha riconosciuto e rilanciato quel potenziale di alleanza sociale e di movimento che la piazza esprimeva.
Certo, le cose non si cambiano con una manifestazione, per imponente che sia. Magari fosse così semplice! Ma quella manifestazione, riuscita nonostante la solita strategia della tensione, alimentata anche dal Ministro Maroni, ci consegna una possibilità. Non capirlo sarebbe un delitto.
Domenica a Roma c’è stata un’assemblea, quella di “Uniti contro la crisi”. È stata una buona assemblea, un primo passo, sebbene ancora parziale. Ora sta a noi tutti e tutte proseguire il lavoro, allargando il campo e costruendo sui territori. E questo vale anche, e forse soprattutto, per Milano, la città degli operai dell’Innse e della precarietà che divora le nostre vite.
 
 
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua (ex Aprileonline) il 3 novembre 2010
 
Marchionne è un uomo esigente, pretende serietà, parole chiare e impegni precisi. E chi sgarra, chi non rispetta i patti, deve subire le sanzioni. Beninteso, questo mister Marchionne lo pretende dagli altri, dai suoi dipendenti anzitutto, perché per quanto riguarda lui, vabbè, è tutta un’altra storia.
E così, oggi pomeriggio, presso il Ministero del Lavoro, cioè in casa dell’amico Sacconi, l’amministratore delegato della Fiat ha iniziato a violare addirittura l’accordo separato su Pomigliano, scritto da lui stesso e fatto approvare solo cinque mesi fa con il famigerato referendum-ricatto. Infatti, quell’accordo diceva chiaro e tondo che l’azienda avrebbe richiesto la cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs) “per ristrutturazione per due anni dall’avvio degli investimenti”.
Invece no, tutta carta straccia, e oggi Marchionne, peraltro in assenza di ogni garanzia sugli investimenti, ha chiesto e ottenuto la cassa integrazione in deroga per otto mesi per 4.812 lavoratori degli stabilimenti di Pomigliano e Nola. Il Ministro ha dato la sua benedizione e Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato senza battere ciglio di fronte alla cestinazione del punto 9 dell’accordo separato di Pomigliano.
Ma che bravi! Marchionne cambia le carte in tavola quando e come gli pare e tutto va benissimo, ma se ci dovesse provare un lavoratore, allora sarebbero guai. Infatti, secondo la “clausola di responsabilità”, introdotta dall’accordo separato di Pomigliano -e poi generalizzata dall’accordo separato sulle deroghe al contratto nazionale-, se un operaio non rispetta uno qualsiasi degli impegni fissati nel contratto in deroga, tipo fa lo sciopero degli straordinari, può essere punito immediatamente dall’azienda, visto che il contratto è “un insieme integrato, sicché tutte le sue clausole sono correlate e inscindibili tra di loro” (punto 14).
Comunque, non divaghiamo, perché l’odierna mossa di sostituire la Cig “straordinaria” con quella “in deroga” nasconde qualcosa di più grave. Infatti, il quadro già di per sé fumoso per il futuro dei lavoratori di Pomigliano, checché ne dicessero i numerosi cortigiani di Marchionne, è ora ancora più incerto.
In primo luogo, perché la cassa “straordinaria” in caso di ristrutturazione viene concessa fino a due anni, cioè il periodo minimo prospettato dalla Fiat per la ripresa produttiva nello stabilimento di Pomigliano, mentre quella “in deroga” concessa oggi dura soltanto otto mesi.
In secondo luogo, perché quella “straordinaria” presuppone una continuità degli assetti proprietari, mentre quella “in deroga” no.
In altre parole, gli otto mesi rappresentano semplicemente i tempi necessari per passare la proprietà della fabbrica a una newco, cioè una nuova società, la Fabbrica Italia Pomigliano, il cui amministratore delegato si chiama sempre Marchionne.
E i quasi 5mila dipendenti della Fiat di Pomigliano che vengono messi in cassa in deroga? Ebbene, questo oggi non si è detto. Anzi, è proprio l’incertezza sull’occupazione il motivo principale per cui la Fiom non ha (giustamente) firmato l’odierno accordo. Ma tecnicamente le cose stanno più o meno così: alla fine degli otto mesi ci sono soltanto due opzioni, la disoccupazione o l’assunzione da parte della nuova società, con un nuovo contratto, cioè quello di Marchionne e Bonanni.
A proposito, questi otto mesi li pagano integralmente i bilanci pubblici: il 70% lo Stato e il 30% la Regione Campania. La Fiat non ci mette nulla, nemmeno quel “contributo addizionale” che le aziende devono invece sborsare in caso di Cig “straordinaria”.
Insomma, siamo al ricatto istituzionalizzato, a spese del contribuente. O accetti le mie condizioni senza fiatare oppure ti licenzio; cioè non ti riassumo.
Comunque, quello che colpisce e disturba di più non è l’arroganza e il doppiopesismo di Marchionne, ma la facilità con cui trova complicità non soltanto nel Governo, ma anche nel mondo sindacale e in pezzi dell’opposizione.
Oggi Marchionne, Sacconi e Bonanni hanno risposto a modo loro alla grande mobilitazione del 16 ottobre scorso. Una risposta che assomiglia a una dichiarazione di guerra. Sta a noi, a quanti e quante quel giorno erano a Roma, riprendere il nostro cammino.
 
 
Il “collegato lavoro”, approvato in via definitiva dalla Camera dei Deputati il 19 ottobre scorso e promulgato dal Presidente della Repubblica il 4 novembre, è stato pubblicato oggi sulla Gazzetta Ufficiale. Il collegato è dunque legge dello Stato (legge 4 novembre 2010, n. 183) e le sue norme entreranno in vigore tra 15 giorni.
Il provvedimento ci ha messo due anni a diventare legge, si è man mano ingrossato fino ai suoi attuali 50 articoli e aveva subito anche un rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica il 31 marzo 2010, a causa della norma incostituzionale volta ad impedire a un lavoratore licenziato di ricorrere al giudice. Quest’ultima norma è stata ovviamente eliminata, ma tutto il resto è rimasto e, anzi, si è aggiunto qualche ulteriore peggioramento.
Insomma, il risultato finale è un ulteriore e pesante atto di destrutturazione del diritto del lavoro e di privazione di tutele e diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Governo e maggioranza (Fini compreso) esultano, Confindustria è felice, e subito chiede di più, e Bonanni, seguito a ruota da Uil e Ugl, applaude compiaciuto.
Comunque, è una legge che avrà un forte impatto su un’ampia fascia di lavoratori, specie i neoassunti e i precari, e che dunque avrebbe meritato perlomeno un intenso dibattito pubblico, delle accese polemiche televisive e anche qualche rumorosa manifestazione di piazza. Invece, nulla di tutto ciò è successo. Anzi, il provvedimento è passato in sostanziale silenzio. E così, quasi nessuno conosce le conseguenze perverse del “collegato lavoro”.
Nel nostro piccolo, quindi, vogliamo contribuire a disturbare il silenzio e a far conoscere la legge n. 183/2010, invitando quanti e quante ne hanno la possibilità e la voglia di fare altrettanto.
Oltre a diffondere il testo di legge, che puoi scaricare in fondo a questo articolo, vi consiglio, anzitutto, di dare un’occhiata alla guida alla lettura che ha pubblicato il Sole 24 Ore (Il collegato lavoro dalla A alla Z), che è utile per avere una visione generale dei temi affrontati dal “collegato”.
Poi, senza la pretesa di essere esaustivo, vi segnalo quelle che a mio modo di vedere sono le innovazioni normative più deleterie e pericolose per i lavoratori e le lavoratrici e che, quindi, conviene conoscere bene:
  1. si tenta di limitare la possibilità del lavoratore di far valere le sue ragioni e i suoi diritti in sede giudiziaria. Anzitutto, con il rafforzamento dell’istituto della “certificazione dei contratti” (art. 30), che “certifica” preventivamente che il contenuto del contratto corrisponde alla natura effettiva del rapporto di lavoro. E di tale certificazione dovrà tenere conto anche il giudice del lavoro, in caso di controversia. Ovviamente, c’è bisogno dell’accordo e della firma del lavoratore sulla certificazione, ma considerato che questi vengono chiesti preventivamente, al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro, fate voi…
  2. La stessa finalità di limitare il potere del giudice e della legge viene perseguita anche con un altro istituto, quello dell’arbitrato (art. 31). Anche in questo caso ci vuole l’accordo del lavoratore, ma sempre preventivo, cioè in un momento antecedente al verificarsi di un eventuale controversia, e consiste essenzialmente nella rinuncia preventiva (“clausola compromissoria”) a ricorrere al giudice del lavoro in caso di controversia (escluso il licenziamento, dopo l’intervento del Presidente della Repubblica). Inoltre, l’arbitro non dovrà giudicare in base alla legge, ma in base al principio di “equità”.
  3. Vengono modificati i termini per l’impugnazione dei licenziamenti per i lavoratori precari (a termine, interinale, a progetto) (art. 32). È la norma più micidiale, perché immediatamente operativa. In estrema sintesi, il licenziamento va impugnato entro 60 giorni e, poi, entro altri 270 giorni va depositato in tribunale il ricorso, pena la decadenza della possibilità di contestare. Siccome la tempestività delle impugnazioni non è tra le caratteristiche principali dei precari, magari perché non conosce la normativa oppure perché tenta di farsi riassumere più avanti con un altro contratto precario, questa norma equivale a una mezza sanatoria preventiva. Infine, come se non bastasse, l’articolo 32 introduce anche un tetto massimo al valore di indennità che il datore di lavoro dovrà pagare, qualora venga accertata l’illegittimità del licenziamento.
  4. Infine, va segnalata l’introduzione della possibilità di assolvere l’ultimo anno di obbligo scolastico non a scuola, bensì lavorando. Cioè, puoi fare l’apprendista a 15 anni (art. 48, comma 8) e tanti saluti all’obbligo scolastico fino a 16 anni.
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo integrale della legge n. 183/2010
 

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