Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
di lucmu (del 25/01/2011, in Lavoro, linkato 1040 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 25 gennaio 2011 con il titolo “L’Ilo smentisce Marchionne e Sacconi”.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) ha pubblicato in questi giorni il suo rapporto annuale sulle tendenze globali dell’occupazione. Si tratta ovviamente di un’analisi dei grandi numeri e degli andamenti di fondo, ma ciononostante ci pare legittimo e utile confrontare alcune sue conclusioni con il discorso ed i postulati del modello Marchionne. In fondo, anche quest’ultimo pretende di essere generale e globale.
Ci riferiamo in modo particolare alla promessa, ben presente nella discussione attorno al referendum sull’accordo di Mirafiori, di miglioramenti salariali per gli operai. Infatti, anche i più decisi fautori del “sì” si rendevano conto che in ultima analisi non era sufficiente, soprattutto nel dibattito pubblico fuori dalla fabbrica, il ricorso al ricatto del mangiare la minestra o saltare la finestra, ma che occorreva anche offrire, o perlomeno evocare, qualche contropartita. E così, a Mirafiori e dappertutto, si cominciava a raccontare che la strada indicata da Marchionne non solo avrebbe garantito l’occupazione, ma altresì aumenti salariali.
I più spregiudicati sono stati, per ovvi motivi, i capi di Cisl e Uil, che hanno sostenuto addirittura che l’accordo separato di Mirafiori, firmato il 23 dicembre scorso, avrebbe garantito già di per sé un miglioramento salariale. Una balla bella e buona, che sta in piedi soltanto ricorrendo a qualche disinvolta acrobazia matematica. Infatti, basta far finta che la contrattazione aziendale di secondo livello e le relative voci salariali integrative, tipo i premi risultato, non siano mai esistiti ed aggiungere al conto invece la monetizzazione dei 10 minuti di pausa cancellati e l’aumento degli straordinari obbligatori e, guarda un po’, il gioco è fatto.
Non a caso, il Ministro Sacconi e lo stesso Marchionne sono più cauti sul punto, collocando i promessi aumenti salariali (o “partecipazioni agli utili”) nel futuro, quando gli impianti saranno pienamente sfruttati, la produttività sarà al massimo e, ovviamente, le automobili prodotte verranno vendute sul mercato.
Ancora più cauti sono taluni economisti non proprio maldisposti nei confronti delle tesi di Marchionne, come il prof. Paolo Manasse, che nel suo intervento su Lavoce.info sostiene che il piano Fiat porterà nel breve periodo ad una riduzione del salario reale (“dovuta al peggioramento della posizione contrattuale dei lavoratori”), ma poi nel medio periodo, in virtù dell’accresciuta produttività del lavoro, ci potrà essere un aumento del salario reale.
Insomma, tralasciando qui Bonanni, che ricorda piuttosto il famoso venditore di automobili usate dei telefilm americani, tutti stanno riesumando la promessa che fu del principale antenato dell’attuale crisi, cioè del neoliberismo rampante degli ’80: accettate i sacrifici oggi e domani sarete ricompensati. Sappiamo tutti com’è andata a finire.
O, per dirla in termini più scientifici, fate aumentare all’azienda la produttività del lavoro, mediante l’allungamento dell’orario di lavoro (il taglio delle pause, aumento delle ore straordinarie obbligatorie ecc.) e ritmi più intensi (la nuova metrica del lavoro Ergo-Uas), e domani guadagnerete come tedeschi.
Ma quanto è credibile questa promessa? A nostro modo di vedere, molto poco. E non lo diciamo in virtù dei precedenti poco edificanti in tema di promesse, ma guardando ad alcuni dati empirici e facendo un ragionamento.
I dati empirici ce li fornisce proprio il rapporto 2011 dell’Ilo, che disegna un quadro tutt’altro che rassicurante, poiché conferma che i segni di ripresa che alcuni indicatori macroeconomici, come il Pil, hanno mostrato su scala globale nel 2010, non si sono affatto tradotti in una ripresa analoga dell’occupazione, così come il ritorno della produttività del lavoro a valori positivi non si è tradotto in aumenti salariali. E questo vale soprattutto per le economie più sviluppate, come quelle europee.
Per dirla con le parole del rapporto Ilo: “il ritardo della ripresa del mercato del lavoro è dimostrata non soltanto dallo scarto fra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione, ma anche dalla mancata corrispondenza, in numerosi paesi, fra gli aumenti di produttività e la crescita dei salari reali. Ciò può influire negativamente sulle future prospettive di ripresa a causa dei forti legami esistenti fra la crescita dei salari reali, i consumi e gli investimenti”.
Appunto. E c’è poco di cui meravigliarsi, aggiungiamo noi, poiché è assolutamente illusorio pensare che l’aumento della produttività del lavoro si traduca automaticamente, di per sé, in un vantaggio per il lavoratore, in termini salariali o di riduzione del tempo di lavoro. Perché questo accada, sul piano locale o globale, c’è infatti bisogno che i lavoratori possano organizzarsi, negoziare collettivamente e dunque contendere la destinazione del vantaggio.
In presenza di una polverizzazione estrema dei lavoratori in tante individualità solitarie, da un punto di vista negoziale, prevarrà ancora una volta e, anzi, in maniera più brutale rispetto al periodo pre-crisi la logica del livellamento al ribasso, tipica dell’era della globalizzazione.
Ed eccoci al punto vero, che i Sacconi e i Marchionne hanno sempre tenuto ben presente, anzi in primo piano. Per questo a Pomigliano e Mirafiori non si trattava di negoziare i ritmi, gli orari e la metrica, ma di eliminare il negoziato stesso. Per questo al Governo non interessa favorire una mediazione, ma piuttosto sconfiggere le organizzazioni sindacali indipendenti e tutte le leggi che in qualche modo tutelano il lavoratore, a partire dallo Statuto dei Lavoratori.
Ed ecco perché la resistenza della Fiom e dei sindacati di base non è un capriccio, né “estremismo conservatore”, bensì un punto di partenza necessario per poter guardare al futuro.
di lucmu (del 28/01/2011, in Lavoro, linkato 982 volte)
Venerdì 28 gennaio c’è lo sciopero generale dei metalmeccanici, proclamato dalla Fiom il 29 dicembre scorso, all’indomani dell’accordo separato di Mirafiori. Ci saranno manifestazioni regionali in tutta in Italia. In Lombardia, il corteo si terrà a Milano, con partenza alle ore 9.30 da Porta Venezia, per terminare in piazza Duomo, dove interverrà anche Maurizio Landini.
Ma venerdì in piazza non ci sarà soltanto la Fiom e neanche i soli metalmeccanici. Ahinoi, non è ancora lo sciopero generale e generalizzato che ci vorrebbe e che la Cgil –e tutte le sue categorie- non ha voluto e non intende tuttora promuovere, ma i metalmeccanici non saranno soli. Diversi soggetti, sindacali e di movimento, si sono infatti assunti la responsabilità di estendere e generalizzare la mobilitazione, perché di fronte a un attacco generale ci vuole una risposta generale.
Questa è in estrema sintesi la situazione (mi scuso in anticipo per eventuali dimenticanze):
Scioperi
Nella categoria dei metalmeccanici lo sciopero nazionale è stato proclamato anche da Usb e Cub. Lo Slai Cobas l’ha fatto in alcuni stabilimenti.
Inoltre, esistono specifiche proclamazioni di sciopero nei comparti Scuola e Università, da parte di Cobas Scuola e Cub (che ha proclamato lo sciopero anche tra i bancari).
Ma soprattutto ci sono le proclamazioni di sciopero generale di tutte le categorie (ad esclusione dei trasporti) di Confederazione Cobas, Usi-Ait e Cib-Unicobas (per maggiori dettagli, anche tecnici, rinviamo al nostro articolo del 13 gennaio scorso), che hanno dunque fornito la “copertura” necessaria affinché anche altre strutture sindacali e singoli delegati o lavoratori potessero promuovere lo sciopero sul proprio posto di lavoro e/o territorio. Cosa che è avvenuta, anche a Milano, sebbene non siamo ovviamente in grado, data la frammentarietà della situazione, di poter fornire un quadro dettagliato.
Mobilitazione – la piazza milanese
La mobilitazione per la giornata del 28 va ben oltre i metalmeccanici, come aveva peraltro proposto la stessa Fiom sin dal 29 dicembre, coinvolgendo settori del sindacalismo di base (ovviamente, ci sono anche lavoratori e delegati della Cgil, ma nessuna categoria della Cgil ha invitato a scioperare!) e, soprattutto, dei movimenti (Uniti contro la crisi, studenti, centri sociali, associazioni, singoli cittadini).
Per quanto riguarda la piazza milanese, l’appuntamento principale, anche se non unico, è il corteo che partirà alle 9.30 da P.ta Venezia, per concludersi poi in piazza Duomo con un comizio finale, che prevede diversi interventi, compreso quello di Landini.
In P.ta Venezia ci saranno ovviamente gli operai della Fiom da tutta la Lombardia e ci sarà la maggioranza dei lavoratori del sindacalismo di base che domani scioperano (diversi luoghi di lavoro di Usb, Conf. Cobas, Slai Cobas, SiCobas), in buona parte presenti nello spezzone degli autoconvocati deciso nell’assemblea tenutasi al liceo Carducci il 25 gennaio, che al termine del comizio proseguirà fino a p.zza Santo Stefano. Ci saranno, inoltre, la Rete Studenti di Milano, San Precario, diversi centri sociali, gruppi di precari e insegnanti ecc.
Per completezza di informazione, vi segnaliamo altri due appuntamenti per la mattinata del 28 gennaio, convocati in luogo diverso dalla manifestazione di P.ta Venezia:
- la Cub organizza un presidio ad Arcore, davanti alla Villa S. Martino, a partire dalle ore 10.00;
- il Coordinamento dei Collettivi Studenteschi ha organizzato un corteo con appuntamento alle ore 9.30 in L.go Cairoli.
Ci vediamo in piazza domani!
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 15/02/2011, in Lavoro, linkato 1200 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 15 febbraio 2011
In casa Bonanni c’è un po’ di nervosismo a proposito dell’intesa separata sul pubblico impiego, firmata il 4 febbraio scorso da Cisl, Uil, Ugl e alcune sigle autonome con il Governo Berlusconi. Infatti, in questi giorni le postazioni di lavoro dei dipendenti pubblici vengono letteralmente inondate da comunicati, in cui la Cisl lamenta che “si sta facendo un gran polverone” invece di apprezzare il “grande risultato”.
La colpa di tutto questo trambusto sarebbe, ovviamente, di quelle organizzazioni sindacali (Cgil, Usb, Cisal ed altre) che non hanno firmato il testo predisposto da Brunetta e non certo di un accordo di cui praticamente nessuno ha capito la presunta bontà, tranne un Presidente del Consiglio in piena crisi bunga bunga.
Dall’altra parte, mettetevi nei panni di uno dei 3,5 milioni di dipendenti pubblici, al quale era stato spiegato poco più di sei mesi fa che il suo stipendio (base ed accessorio) sarebbe rimasto bloccato per tre anni (in realtà, quattro), senza che Cisl e Uil abbiano mosso anche solo mezzo dito, e ora si sente dire che Cisl e Uil hanno realizzato una grande conquista, firmando un accordo che “impedisce la diminuzione dello stipendio”. Ammetterete che quel lavoratore, per lo meno, rimane un po’ perplesso e disorientato.
Ma cosa c’è scritto -e cosa non c’è scritto- in quella paginetta di accordo? Anzitutto, c’è una dichiarazione di condivisione piena da parte dei firmatari del decreto legislativo n. 150/2009, meglio conosciuto come “riforma Brunetta”, compreso il suo famigerato articolo 19, secondo il quale in ogni ente il 25% dei dipendenti è da considerarsi a priori e a prescindere come di “merito basso” e dunque da privare completamente del salario accessorio.
Ma subito dopo aver affermato questo, si passa al comma 2. e 3., dove si dice che l’applicazione dell’articolo 19 non deve portare ad una diminuzione della retribuzione complessiva e pertanto dovrà essere finanziato “esclusivamente” da risorse aggiuntive (che però Tremonti allo stato non mette a disposizione).
Chiaro? La storiella dello stipendio bloccato, ma che non si riduce, sparso a piene mani da Governo e sindacati complici fino a ieri, non era affatto vera. Anzi, applicando la riforma Brunetta in tutte le sue parti subito, come avevano detto da sempre i sindacati indipendenti dal governo, ci sarebbero stati dei tagli drastici per una parte significativa di lavoratori pubblici, a prescindere dal merito, beninteso. E questo in pieno clima pre-elettorale. Ecco quindi la ragione per cui Bonanni e Brunetta si sono dati una mano.
Tuttavia, non è vero comunque che non ci saranno perdite salariali in questi anni di blocco delle retribuzioni e della contrattazione, alla faccia di quello che raccontano i sindacati complici. Anzitutto, la riforma Brunetta, con l’attiva collaborazione di Cisl e Uil e, molte volte, anche della Cgil, ha già provocato nel 2010 la ridefinizione in senso peggiorativo dei sistemi premianti in molti enti. E, soprattutto, per il solo effetto del blocco delle retribuzioni ci sarà mediamente un perdita in termini di potere d’acquisto di circa 1.600 euro per dipendente, secondo le stime più caute della Cgil.
A quanto c’è scritto nell’intesa del 4 febbraio va però aggiunto anche quello che non c’è scritto, quello che drammaticamente manca. Anzitutto manca un qualsiasi accenno ai tanti precari e alle tante precarie che popolano la pubblica amministrazione e che spesso garantiscono il funzionamento dei servizi, ma ai quali viene negata una prospettiva di stabilizzazione e che ora rischiano il posto di lavoro. E non è soltanto questione di equità e giustizia, ma anche di efficienza dei servizi, considerato che la stretta sul pubblico impiego, contenuta nella legge n. 122 del 30 luglio 2010 (ex dl 78/2010), prevede altresì il blocco del turn over, per cui nei prossimi due anni su 300mila uscite potranno essere fatte al massimo 60mila assunzioni.
Infine, arriviamo al silenzio più assordante in quella intesa: nemmeno una parola sulle elezioni dei rappresentanti sindacali (Rsu)! Infatti, in tutto il pubblico impiego le Rsu sono scadute a novembre dell’anno scorso, ma non state convocate ancora nuove elezioni, a causa principalmente del veto di Bonanni. Alla luce di questo fatto le considerazioni della Cisl, per cui l’accordo “dà più voce ai rappresentanti dei lavoratori”, suonano davvero come una presa per i fondelli.
Ma proprio con la vicenda del mancato rinnovo delle Rsu si chiude il cerchio con quanto Cisl e Uil fanno nel resto del mondo del lavoro. A Mirafiori l’accordo separato tra Marchionne e Bonanni & Co., infatti, ha abolito tout court le elezioni dei rappresentanti dei lavoratori.
In altre parole, non siamo di fronte a tante storie diverse, ma a diversi episodi della medesima storia. Ecco perché non è giustificabile che si continui, da parte della Cgil, ad eludere il tema dello sciopero generale e che si punti invece, ancora una volta, a un semplice sciopero di categoria, come quello del pubblico impiego proclamato per il 25 marzo prossimo.
P.S. segnalo inoltre che per l’11 marzo prossimo è già stato proclamato lo sciopero generale di tutte le categorie da parte dell’Usb, che avrà come una delle questioni centrali proprio il pubblico impiego.
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare l’intesa separata del 4 febbraio scorso, la legge 122/2010 e il d.lgs 150/2009
di lucmu (del 17/02/2011, in Lavoro, linkato 1097 volte)
I precari e le precarie potranno impugnare il loro licenziamento ancora per tutto il 2011. Quindi, quanti non lo avevano fatto entro il 23 gennaio u.s. avranno ora un’altra possibilità.
Infatti, nel maxiemendamento al decreto-legge n. 225 del 29 dicembre 2010 -meglio conosciuto come “Milleproroghe”-, approvato dal Senato il 16 febbraio, è contenuta anche la proroga del termine per l’impugnativa del licenziamento da parte dei lavoratori e delle lavoratrici il cui contratto a tempo determinato era cessato prima dell’entrato in vigore del “collegato lavoro” (legge 183 del 24 novembre 2010).
Quel collegato lavoro, fortemente voluto dal Ministro Sacconi, è un vero e proprio minestrone di fregature, ma la norma ammazza-ricorsi (art. 32), che di fatto sana tutti i licenziamenti illegittimi di precari, è senz’altro quella più vile e ignobile. Beninteso, quella norma contro i precari e le precarie rimane interamente in piedi, ma la sua entrata in vigore viene posticipata al 2012.
In altre parole, se prima c’erano soltanto 60 giorni, dal 24 novembre al 23 gennaio, per impugnare in sede legale un contratto a tempo determinato, prima che arrivasse il colpo di spugna, ora ci sarà tempo fino al 31 dicembre 2011. Insomma, non si tratta di una vittoria, ma sicuramente di un po’ di tempo guadagnato da utilizzare bene, anzitutto estendendo le campagne già in atto, da parte di diversi soggetti sindacali e di movimento, per far conoscere ai lavoratori e alle lavoratrici interessati la possibilità di ricorrere e offrire loro conseguentemente la necessaria assistenza legale.
Politicamente parlando, questa proroga, inserita nel maxiemendamento su proposta del Pd e con il consenso della maggioranza di destra, nonostante la pubblica opposizione da parte del solito Sacconi, è la definitiva dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogna, che quella norma è esattamente quello che avevamo detto che fosse: cioè, una porcheria.
Segnalo, infine, per chiarezza, che tecnicamente quella proroga non è ancora operativa, perché il Milleproroghe, così come modificato dal maxiemendamento, passa ora alla Camera, che dovrà approvarlo a sua volta. Teoricamente, dunque, ci potranno essere ancora delle modifiche e dei passi indietro, ma visto che ogni modifica comporterebbe un ritorno del testo al Senato e considerata la situazione politica, questa ci pare una prospettiva assai improbabile.
Luciano Muhlbauer
Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare la pagina del maxiemendamento approvato dal Senato, contenente la proroga (vedi comma 10. evidenziato in rosso)
di lucmu (del 24/02/2011, in Lavoro, linkato 1450 volte)
Tanto tuonò che… non successe nulla. Infatti, dopo i roboanti annunci del vicepresidente ed assessore regionale, il leghista Andrea Gibelli, e del presidente del Consiglio regionale, il leghista Davide Boni, che dicevano di voler costringere i circa 3mila dipendenti regionali a presentarsi al lavoro e a tenere aperti gli uffici il 17 marzo prossimo, giorno festivo causa 150° anniversario dell’unità d’Italia, il tutto finirà, forse, con l’apertura al pubblico dell’aula consiliare e con la conseguente presenza al lavoro di qualche pugno di lavoratori, retribuiti per l’occasione con la maggiorazione da straordinario festivo.
In realtà, era ovvio e giusto che finisse così, perché ogni altra soluzione sarebbe stata non solo illegale, ma anche un autentico furto ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici, tirati in ballo, loro malgrado, sin dalla prime avvisaglie di questa stucchevole polemica sul 17 marzo festivo.
Ma riepiloghiamo velocemente i contorni di questa assurda vicenda, tralasciando in questa sede ogni considerazione sull’opportunità o meno di scatenare una gazzarra secessionista nel 150° anniversario dell’unità d’Italia. E sorvoliamo pure sul piccolo particolare che è la Lega a tenere in vita quel Governo Berlusconi che ha deciso in autonomia di dichiarare il 17 marzo giornata festiva.
Orbene, nonostante le quisquilie di cui sopra e il fatto che a nessuno sia passato per la testa di chiedere un parere ai lavoratori, questi ultimi si sono ritrovati da subito in mezzo alla bufera politico-mediatica, facendo la figura di quelli che in piena crisi vogliono fare il ponte invece che lavorare.
A dare il via era stata l’immancabile presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che di fronte all’annuncio berlusconiano di proclamare festa il 17 marzo aveva gridato allo scandalo, sottolineando che in piena crisi non era possibile togliere giorni alla produzione (perché si sa che quei fannulloni di lavoratori avrebbero poi pure saltato il venerdì 18 marzo) e gravare le imprese con nuovi costi.
Una Marcegaglia in pieno stile Marchionne, insomma, improvvisamente dimentica dei tanti giorni di inattività a cui sono costretti moltitudini di lavoratori e lavoratrici a causa della disoccupazione giovanile e della cassaintegrazione oppure del fatto che quest’anno ben due festività, cioè il 25 aprile e il 1° Maggio, coincidono con dei giorni festivi e quindi sono “guadagnati” per la produzione.
Infine, va aggiunto che lo stesso decreto del Governo Berlusconi (vedi allegato) non regala un bel niente ai lavoratori, poiché prevede sì l’introduzione, limitatamente all’anno 2011, del giorno festivo del 17 marzo, ma eliminando contestualmente la “festività soppressa” del 4 novembre. In altre parole, nessun onere finanziario per gli imprenditori privati e la pubblica amministrazione e nessun guadagno per i lavoratori dipendenti.
Ciononostante, la Marcegaglia aveva da subito incassato l’appoggio del capo della Cisl, Bonanni, che nemmeno in questa occasione si era ricordato che sulla carta risulta ancora essere un sindacalista. Ma soprattutto ha suonato la carica la Lega, in primis Calderoli, alla quale non era sembrato vero di poter spostare l’attenzione dallo stato pietoso in cui versa il suo Governo e riproporre l’evergreen della secessione.
E con l’offensiva leghista sono finiti nel mirino in particolare i lavoratori pubblici, chiamati a festeggiare lavorando in un giorno festivo. Nel Consiglio regionale lombardo il presidente Boni, che da tempo pratica un’interpretazione tutta sua del ruolo di presidente dell’assemblea legislativa, grazie anche all’assenza di contrasto da parte di chi dovrebbe fare opposizione, ha fatto partire persino delle strampalate circolari interne con le quali intimava ai dipendenti di recarsi al lavoro il 17 marzo.
Alla fine, comunque, ha dovuto fare una poco gloriosa retromarcia, smentito pubblicamente da Formigoni e, soprattutto, dalla lettera del decreto-legge del Governo di cui la Lega fa parte.
Insomma, il tutto era iniziato come un triste teatrino ad uso e consumo di una Lega che sta al governo da una vita, ma fa finta di stare su Marte ed è finito come meritava di finire, cioè con una farsa. Tuttavia, chissà perché non riusciamo a ridere e perché abbiamo la sensazione che ancora una volta il prezzo della farsa, in termini di immagine, non la pagheranno i responsabili, ma quelli che l’hanno involontariamente subita, cioè i lavoratori.
Quindi, almeno proviamo a raccontare e diffondere la storia vera che si cela dietro la farsa, perché una volta tanto, finalmente, inizino a pagare i responsabili.
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il decreto-legge del Governo sulla festività del 17 marzo 2011
di lucmu (del 03/03/2011, in Lavoro, linkato 1008 volte)
“Labor Blues”, rubrica a cura di Luciano Muhlbauer, su MilanoX n° xxiv del 3 marzo 2011, la free press eretica in distribuzione a Milano.
Tutto il mondo è paese, specie in tempi di globalizzazione. E così, invece di parlare di Milano, Torino o Pomigliano, questa volta parliamo degli States, del Wisconsin per la precisione. Tanto, come vedrete, fa lo stesso.
Ebbene, succede che da due settimane Madison e le altre città del Wisconsin siano attraversate da un’ondata di scioperi e manifestazioni senza precedenti da parte dei dipendenti pubblici, dagli impiegati fino agli insegnanti. I lavoratori hanno persino occupato il campidoglio, mentre i deputati dei democrats sono scappati nel vicino Illinois per far mancare il numero legale nel parlamento locale e non farsi intercettare dalla polizia di Stato sguinzagliata dal Governatore.
La ragione di questo scontro sta nel fatto che il neo-eletto Governatore Scott Walker, i cui grandi sponsor sono gli straricchi fratelli Koch, tra i principali finanziatori dell’estrema destra repubblicana dei Tea-Party, cerca di far approvare una legge che sopprime senza troppi complimenti la contrattazione collettiva nel pubblico impiego, aumentando en passant brutalmente i contributi previdenziali.
Ma quanto sta avvenendo nel Wisconsin non è che la punta dell’iceberg, poiché disegni di legge simili sono sul tavolo in diversi altri Stati, in particolare dopo l’avanzata repubblicana nelle elezioni di metà mandato dell’anno scorso. Il denominatore comune è quello dell’assalto al salario, ai diritti e, soprattutto, alla contrattazione collettiva nel pubblico impiego, ma non mancano nemmeno le iniziative che puntano a rendere ancora più difficoltosa la sindacalizzazione nel settore privato, come nel caso dell’Indiana.
Per il movimento sindacale statunitense siamo di fronte a una “final offensive”, cioè al tentativo di liquidare definitivamente un sindacato già indebolito da anni di liberismo sfrenato.
Ebbene, vi ricordate i tempi di Pomigliano, quando ci raccontavano la frottola dell’eccezione? Dopo sono arrivate le favole delle deroghe e, infine, la cruda realtà del contratto aziendale in sostituzione di quello nazionale. Ma attenzione, non è finita qui, perché l’obiettivo finale è quello del contratto individuale: ogni lavoratore da solo di fronte al padrone. Insomma, Pomigliano è più vicina a Madison di quanto non si creda e forse dovremmo trarne le dovute conseguenze.
link consigliati:
di lucmu (del 10/03/2011, in Lavoro, linkato 875 volte)
“Labor Blues”, rubrica a cura di Luciano Muhlbauer, su MilanoX n° xxv del 10 marzo 2011, la free press eretica in distribuzione a Milano
Fa tristezza e rabbia vedere decine di lavoratori e lavoratrici trattati come un fastidio e spintonati da guardie private e poliziotti. È successo domenica scorsa agli ingressi della Fiera di Rho-Pero. Dentro c’era un’esposizione di calzature, pelletteria e… pellicce, fuori sono rimasti i 62 licenziati dall’Innova Service, una società di servizi, e chi sosteneva la loro protesta, a partire dal centro sociale Fornace.
62 uomini e donne, la cui sorte non sembra interessare più di tanto quanti avrebbero invece il compito istituzionale di interessarsene. Un disinteresse, beninteso, che non può essere attribuito all’ignoranza, perché il caso è noto.
Anzi, il Prefetto Lombardi, tanto per fare un esempio, un anno fa aveva persino incontrato i lavoratori. Era finita con la promessa di grandi impegni, ma dopo un inizio promettente, all’improvviso era calato il silenzio. Si dirà che il Prefetto è molto impegnato, ma poi si viene a sapere che aveva trovato il tempo per ricevere nel suo ufficio una delle ragazze del bunga bunga bisognosa di un aiutino o per stendere un ricorso a se stesso, pur di non dover pagare una multa di poco conto.
Ma, in fondo, per conoscere il caso non c’era bisogno di incontri specifici, visto che i capi dell’Innova Service sono vecchie conoscenze della giustizia. E poi, l’azienda è attiva sull’area dell’ex-Alfa Romeo, oggetto delle attenzioni molto particolari del Presidente della Regione, il capo ciellino Roberto Formigoni.
Insomma, tutti sanno tutto, compreso il fatto che i licenziamenti non trovano alcuna giustificazione nella crisi. O per dirla con lo Slai Cobas, il loro sindacato, all’ex Alfa “ci vorrà sempre qualcuno che sta alle portinerie, fa manutenzione e pulisce i cessi”.
Appunto, ci vorrà sempre qualcuno, ma evidentemente non quei lavoratori ex-operai cassintegrati dell’Alfa, che hanno il brutto vizio di non stare zitti quando ci sono delle cose che non vanno. Specie ora, con il “Piano Alfa” nuovo di zecca in arrivo, dove la reindustrializzazione è desaparecida, ma in cambio c’è un mega centro commerciale e tanta speculazione.
Insomma, quel silenzio delle istituzioni è poco innocente e questo fa ancora più rabbia. E quindi, se vi capita, sostenete la lotta dei lavoratori dell’Innova.
link consigliati:
di lucmu (del 17/03/2011, in Lavoro, linkato 1292 volte)
“Labor Blues”, rubrica a cura di Luciano Muhlbauer, sulla free press eretica MilanoX, n° xxvi del 17 marzo 2011.
Ma che fine hanno fatto la crisi, le aziende che chiudono e la piaga della precarietà? Domanda più che lecita, visto che il lavoro è letteralmente sparito dalle prime pagine di giornali e tv e che anche il governo individua ben altre priorità per il paese, tipo la “riforma della giustizia”.
Ci piacerebbe rispondere “è arrivata la ripresa!”, ma purtroppo le cose non stanno così e quella omissione assomiglia piuttosto al famoso tappeto che serve per nascondere la polvere. E quindi, proviamo noi a darvi tre notizie degli ultimi giorni che difficilmente troverete in prima pagina.
Primo, dalle dichiarazioni dei redditi del 2010 emerge che in un solo anno sono spariti 200mila contribuenti tra 15 e 24 anni. Ormai, i giovani con meno di 25 anni rappresentano soltanto il 4,34% del totale dei contribuenti, ma in cambio gli under 30 sono protagonisti nell’apertura di partite Iva, con un secco +22,5% tra il 2009 e il 2010.
Secondo, un’indagine di Datagiovani sulle buste paga dei giovani al loro primo impiego ha evidenziato che lo stipendio medio di un neoassunto si è ridotto del 3% rispetto a un anno fa, attestandosi su 823 euro netti mensili. Ovviamente, alcune categorie si collocano sotto quella media, come le donne, gli “atipici”, i lavoratori del commercio e quelli del Sud, ma la dinamica è generale. Infatti, a Nord la media è più alta, cioè di 876 euro, ma è più accentuato anche il calo rispetto all’anno precedente, che arriva addirittura al -6%.
Terzo, nel mese di febbraio sono aumentate di nuovo le ore di cassa integrazione, in particolare quella in deroga (+23% rispetto a gennaio). L’aumento relativo è più forte al Sud, ma in termini assoluti è la Lombardia che usa più ore di cassa in deroga. E l’aumento della cassa in deroga, specie in settori come l’industria o l’edilizia, è un pessimo segnale, poiché indica la presenza di un numero significative di aziende all’ultima spiaggia.
Morale? La crisi c’è e picchia duro dappertutto, ma colpisce in particolare e massicciamente i giovani, in termini di occupazione, reddito e precarietà. Forse sta qui la ragione di quell’irreale e ingiustificata omissione, cioè nella paura che i giovani di qui possano rompere il silenzio e seguire l’esempio dei giovani di Tunisi e del Cairo.
di lucmu (del 31/03/2011, in Lavoro, linkato 1634 volte)
“Labor Blues”, rubrica a cura di Luciano Muhlbauer, sulla free press eretica MilanoX, n° xxviii del 31 marzo 2011.
Telecomunicazioni e Information technology sono termini che evocano la modernità e che solitamente indicano uno di quei settori economici su cui puntare per uscire dalla crisi. Altro che tutte quelle industrie “vecchie” e ad alta intensità di manodopera che vengono allegramente delocalizzate verso la Cina, la Romania o la Tunisia.
Eppure, guardando alla realtà del settore nell’area milanese, si fatica terribilmente a distinguere il nuovo dal vecchio. Infatti, anche qui prevalgono chiusure, delocalizzazioni, cassa integrazione e licenziamenti. Nokia Siemens Network, Competence-Jabil, Agile-Eutelia, Italtel, Alcatel, Linkra, Gruppo Compel, Siae Microelettronica ecc., tutti a rischio.
Volete un esempio? Eccovi quello dei lavoratori dello stabilimento ex-Siemens di Cassina de’ Pecchi. Nel marzo 2007 finiscono nella joint venture Nokia Siemens Networks, ma alla fine dell’anno vengono già ceduti alla transnazionale statunitense Jabil. Questa annuncia grandi progetti, ma nel 2010 cede gli stabilimenti di Cassina e quello di Marcianise (CE) al fondo di investimento Usa Marcatech, che darà vita alla newco Competence. A questo punto la storia si fa sempre più torbida e l’unica cosa certa è che Competence accumula in pochi mesi un debito stratosferico, finendo in stato di insolvenza. Ma alla vigilia della decisiva udienza in tribunale del 23 febbraio scorso, eccoci all’ennesimo colpo di scena: Jabil rientra nuovamente in possesso di Competence. Dunque, niente commissariamento e incertezza totale per i 350 lavoratori di Cassina e gli 850 dello stabilimento casertano.
Potremmo fare altri esempi ancora, ma la nota stonata sarebbe sempre la medesima: la passività delle istituzioni e l’assenza totale di una politica industriale degna di questo nome. E questo vale anche per i casi manifestamente delinquenziali, come l’affaire Agile-Eutelia.
Un mese fa, Formigoni ha annunciato alla stampa un miliardo di euro per “sferzare” l’economia, investire sulla banda larga e creare nuovi posti di lavoro. La realtà è però un’altra e lunedì scorso l’assessore alle attività produttive, il leghista Gibelli, quello della “legge Harlem”, ha persino sconvocato un incontro con la Fiom, perché tanto di Competence se ne occuperà il Ministero a Roma…
di lucmu (del 07/04/2011, in Lavoro, linkato 1470 volte)
“Labor Blues”, rubrica a cura di Luciano Muhlbauer, sulla free press eretica MilanoX, n° xxix del 7 aprile 2011.
Quando in una categoria le adesioni agli scioperi crescono velocemente, a prescindere dalle sigle sindacali che li proclamano e nonostante i tempi di crisi e di portafogli magri, allora vuol dire che la misura è davvero colma. Ed è esattamente quello che ora sta accadendo nel trasporto pubblico locale.
Lo scorso venerdì, 1° aprile, a Milano ha scioperato l’80% degli autoferrotranvieri. Metro, tram e bus, quasi tutta l’Atm è rimasta ferma. Eppure non era la prima astensione dal lavoro in questo ancora giovane 2011, ma già la terza. E scioperare costa, perché quando scioperi non ti pagano.
Questa volta lo sciopero l’avevano proclamato le organizzazioni confederali e autonome, cioè Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugl, Orsa, Fiasa-Cisal e Fast. Lo sciopero precedente, di venerdì 11 marzo, si era invece realizzato nel quadro dello sciopero nazionale di tutte le categorie, indetto dai sindacati di base Usb e Slai-Cobas, e aveva sorpreso stampa e Comune per l’alta adesione: le tre linee della metropolitana e oltre il 40% dei mezzi di superficie bloccati. E ci sono già le prossime date: lo sciopero generale della Cub del 15 aprile e quello della Cgil del 6 maggio.
Insomma, l’Atm assomiglia sempre di più a una pentola a pressione. Non siamo ancora al clima dell’inverno 2003-2004, quando gli autoferro si videro costretti a passare ai cosiddetti “sciopero selvaggi”, ma nella sostanza non siamo molto lontani.
Non a caso, una delle ragioni di fondo del malessere di macchinisti, tranvieri, autisti ed operai è identica a quella di sette anni fa, cioè il non rinnovo del contratto nazionale, scaduto ormai da oltre tre anni. Ma questa volta ci sono anche altri due elementi che aggravano la situazione. Primo, i draconiani tagli governativi dei fondi per il trasporto locale e, secondo, gli effetti devastanti dei contratti di ingresso. Questi ultimi, infatti, stabiliscono per i nuovi assunti degli stipendi più bassi rispetto a quelli dei “vecchi” dipendenti e provocano un divario di retribuzione, a parità di mansione, fino a 7mila euro all’anno.
Saranno ovviamente i lavoratori dell’Atm a decidere i prossimi passi, ma sta a noi non lasciarli soli e sostenerli, ognuno e ognuna per quello che può. Anche quando ci capiterà di rimanere appiedati di fronte alla stazione del metro chiuso.
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