Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il Ministro Maroni ha annunciato a diverse riprese e formalmente che entro l’estate saranno aperti dieci nuovi Cie, ex-Cpt, cioè i centri di detenzione per immigrati privi di regolare permesso di soggiorno, tra cui almeno uno anche in Lombardia. E ripetutamente la stampa ha riportato notizie circa la loro possibile localizzazione, in particolare una caserma dismessa a Pavia e, secondo il Corriere della Sera di oggi, le aree di proprietà di Regione Lombardia nei pressi dell’aeroporto di Malpensa.
È risaputa la nostra opinione su tali strutture per la detenzione amministrativa, a causa della loro manifesta inutilità, dei costi astronomici che comportano e soprattutto del vero e proprio vulnus giuridico che rappresentano, visto che vengono imprigionate de facto delle persone che non hanno commesso alcun reato. E la possibilità che questa detenzione possa prolungarsi fino a 18 mesi non fa che rafforzare la nostra decisa contrarietà e opposizione politica e civile.
Ma, al di là delle diverse e contrastanti opinioni esistenti nella società, riteniamo doveroso e urgente che il governo regionale informi la cittadinanza e chiarisca cosa sta succedendo. È prevista o meno l’apertura di uno o più Cie sul territorio regionale? È prevista l’apertura di un Cie nei pressi di Malpensa su aree di proprietà della Regione nei comuni di Lonate Pozzolo, Somma Lombardo e Ferno? Di che strutture si tratta e come intende il governo lombardo intervenire affinché queste siano compatibili con un regime di detenzione fino a 18 mesi e il rispetto dei diritti umani?
Oggi in Consiglio regionale abbiamo depositato un’interrogazione con queste domande e siamo convinti che sia nell’interesse di tutti che si ponga subito fine alle voci di corridoio e alle indiscrezioni, evitando dunque di far trascorrere l’abituale tempo biblico prima di fornire una risposta. Insomma, la Giunta regionale chiarisca immediatamente.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
qui sotto puoi scaricare il testo dell’interrogazione
Quanto successo stamattina nel piccolo insediamento rom di via Impastato a Milano ci lascia sbigottiti e sconcertati e, soprattutto, getta un’ombra pesante sulle nostre istituzioni. Tanto per capirci, quello che è successo oggi a Milano sarebbe considerato totalmente illegale nella Francia di Sarkozy.
Infatti, in questi giorni è partito il “censimento” dei rom presenti nell’area metropolitana, come deciso dal Commissario straordinario per l’emergenza rom, il Prefetto Lombardi. E così, stamattina all’alba una cinquantina tra agenti della Questura e della Polizia Locale di Milano e Carabinieri ha bloccato il “campo” di via Impastato, impedendo ai presenti di allontanarsi e procedendo all’acquisizione e alla copiatura dei documenti di identità.
Vista la pessima aria che tira, si direbbe nulla di straordinario, se non fosse per alcuni particolari molto significanti. Cioè, il “campo” di via Impastato, autorizzato dal Comune di Milano e in piena regola, è abitato da circa 35 persone, appartenenti alla famiglia Bezzecchi. Sono tutti cittadini italiani da generazioni e residenti a Milano, i meno giovani tra loro da lunghi decenni. E, infatti, i documenti di identità copiati e schedati dalle forze dell’ordine altro non erano che le normalissime carte d’identità del Comune di Milano.
Quindi, tutti schedati, compreso l’anziano Bezzecchi che porta con sé una memoria greve. Quella del suo internamento, perché zingaro, nel campo di concentramento fascista di Tossicia nei primi anni Quaranta e quella dello sterminio di suo padre, sempre perché zingaro, nel campo di concentramento nazista di Birkenau.
Insomma, se la Prefettura e il Comune volevano sapere chi sono costoro che abitano in via Impastato, bastava consultare il computer dell’anagrafe. Che l’intervento di oggi non possa trovare giustificazione alcuna è peraltro confermato dal fatto che non risultano da nessuna parte denunce penali di alcun tipo, per il semplice motivo che i cittadini del “campo” lavorano e si guadagnano il pane con il sudore della fronte.
La verità è che ormai il clima di ostilità preconcetta nei confronti delle popolazioni sinti, rom e camminanti, in buona parte costruito ad arte da una politica senza scrupoli, ha superato anche l’ultimo limite, quello più delicato. Quando le istituzioni pubbliche procedono a schedature di massa su base etnica, con metodi spicci e polizieschi, e persino a prescindere dai concetti di cittadinanza e di eguaglianza davanti alla legge, allora siamo di fronte all’inaccettabile, alla rottura con la nostra Costituzione e con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In altre parole, si sta materializzando il fantasma del razzismo istituzionale.
Il Commissario Lombardi ha il preciso dovere di porre immediatamente fine a queste pratiche contrarie all’umanità e allo stato di diritto. E le forze politiche e sociali, gli uomini e le donne della nostra città che hanno a cuore la democrazia e il futuro hanno il dovere di ribellarsi a questa porcheria.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 14 giugno 2008 (pag. Milano)
Se ne parla poco e spesso soltanto per dovere, ma nel 2008 ricorre un duplice anniversario: sia la Costituzione italiana, che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo compiono 60 anni di vita. Ambedue sono figlie del loro tempo, dell’immane tragedia della seconda guerra mondiale e della liberazione dal nazifascismo, ed è proprio per questo che nei loro primissimi articoli affermano e codificano quel principio fondamentale e fondante che stabilisce l’uguaglianza degli esseri umani in dignità e diritti, senza distinzione alcuna.
Ma, appunto, se ne parla poco e la memoria si è fatta flebile. Vacilla terribilmente la consapevolezza che il principio di uguaglianza non è una gentile e buonista concessione nei confronti dell’altro, bensì la condizione sine qua non per la tenuta del nostro tessuto democratico e della possibilità di perseguire il progresso sociale. E così, sessant’anni dopo, come se fosse la cosa più normale, si parla di “emergenza rom” nella stessa maniera in cui si parla di “emergenza rifiuti”. E quei pochi –e per giunta divisi- che in questi giorni esprimono preoccupazione sembrano nella migliore delle ipotesi dei marziani.
Eppure, basterebbe leggersi con attenzione l’ordinanza governativa n. 3677 del 30 maggio scorso per sentire un brivido sulla schiena. Stiamo parlando dell’atto che nomina Commissario straordinario il Prefetto di Milano e che ne definisce compiti e poteri, in applicazione della dichiarazione dello “stato di emergenza” nomadi della durata di un anno.
Infatti, il primo compito del Commissario consiste nell’identificazione e censimento delle persone, di cittadinanza sia straniera che italiana, che abitano in “campi autorizzati” e “insediamenti abusivi”, attraverso rilievi segnaletici.
Per capire meglio cosa significa concretamente tutto ciò è opportuno richiamare alla memoria la primissima azione di censimento realizzata a Milano una settimana fa. In quella occasione toccò al campo autorizzato di via Impastato, abitato da un unico nucleo familiare, quello dei Bezzecchi, composto da 35 persone. Sono tutti cittadini italiani, residenti a Milano anche da oltre 40 anni e non risultano denunce o precedenti penali a loro carico. Eppure, per fotografare le carte d’identità rilasciate dal Comune di Milano –perché questo è stato fatto quel giorno!- alle ore 5.30 del mattino si erano presentati una settantina tra poliziotti, carabinieri e vigili, bloccando tutto l’insediamento e mettendo in fila i residenti come dei delinquenti.
Ma al di là delle modalità poliziesche, di per sé ingiustificabili e inquietanti, rimane il fatto che i dati personali così acquisiti vanno a confluire in un archivio speciale e separato, presso la Prefettura, compilato sulla base dell’appartenenza alle popolazioni rom e sinti. In altre parole, cittadini italiani e stranieri, anche se registrati regolarmente all’anagrafe cittadino, vengono schedati su base etnica.
Conclusa la schedatura, stando alla lettera dell’ordinanza governativa, si dovrà poi passare all’azione. Cioè, tutti i rom stranieri che potranno essere espulsi o allontanati, in base alle norme ancora in discussione nel parlamento, andranno cacciati via. Tutti gli altri, invece, andranno “trasferiti” in campi autorizzati, già esistenti o da costruire.
Insomma, se sei un rom o un sinti, per te ci sono solo due destini possibili: l’espulsione o la riduzione in un campo sul modello Triboniano, dove vivi da sorvegliato speciale, munito di bagde per poter entrare a casa tua e schedato in apposito archivio.
Ovviamente, siamo tutti consapevoli che le cose non andranno come dice il governo. Un po’ perché circa il 40% dei rom e sinti sono cittadini italiani e degli altri non tutti potranno essere espulsi, un po’ perché aprire nuovi “campi”, anche se autorizzati, non è molto popolare. Ma nel frattempo la criminalizzazione di un’intera popolazione troverà ulteriore legittimazione e la segregazione spaziale e culturale, anche di cittadini italiani, in base alla classificazione etnica diventerà politica dello stato. Sbagliamo a parlare di fantasmi del passato che bussano alla nostra porta?
Ma ciò che preoccupa di più in tutta questa vicenda è che così poca parte della società e della politica avverte, o voglia avvertire, la gravità di quello che sta succedendo, che non è semplicemente la diffusa ostilità nei confronti dei rom, bensì la rottura con il principio dell’uguaglianza.
Anche l’ordinanza n. 3677 è figlia del suo tempo, cioè del nostro tempo. E da questo punto di vista il dato più drammatico dell’oggi non è tanto lo spostamento a destra del baricentro della politica, quanto quella sorta di strisciante rivoluzione culturale, cioè il rovesciamento di egemonia, che lo rende possibile e potenzialmente duraturo.
Ogni ragionamento, forse, dovrebbe ripartire da qui.
qui sotto puoi scaricare l’ordinanza n. 3677 del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30 maggio 2008
Dopo le voci che volevano l’apertura di nuovi Cpt in Lombardia, da Pavia alla Malpensa, ora arriva la smentita ufficiale. Il Ministro degli Interni, Maroni, presente oggi nella Prefettura di Milano, ha rilasciato la seguente dichiarazione: ''Non ci saranno nuovi Cpt in Lombardia'', aggiungendo che saranno realizzati solo nelle regioni in cui attualmente non ci sono, ovvero dieci.
La Lega Nord, per bocca dell’assessore regionale Boni, canta vittoria perché a Magenta sarebbe stata chiusa una “moschea abusiva” e pertanto ristabilita la legalità. Peccato però che in via Oberdan a Magenta non c’era alcuna moschea e tanto meno un problema di legalità. Concretamente, oggi è successo semplicemente che i responsabili dell’Associazione Yacuta, che occupava regolarmente il capannone, hanno riconsegnato le chiavi alla proprietà, lasciando lo spazio.
Tuttavia, la Lega ha ragione a cantare la vittoria, poiché è stato grazie al clima islamofobico suscitato dalla sua indecente campagna d’odio che gli operai immigrati, in gran parte di origine pakistana e regolarmente residenti in Italia da lunghi anni, hanno dovuto rinunciare al loro centro culturale. Infatti, altre ragioni non ci sono, come dimostra un breve riepilogo dei fatti.
Nell’estate del 2006 l’Associazione Yacuta e la proprietà del capannone hanno stipulato un regolare contratto d’affitto, nel quale era peraltro specificato che i locali sarebbero stati utilizzati per svolgere “attività di centro culturale e di oratorio”. Va inoltre sottolineato che l’associazione aveva immediatamente depositato presso il Comune di Magenta il suo statuto, chiedendo l’inserimento nell’elenco delle associazioni locali, senza però ricevere mai una risposta di alcun tipo.
Le persone che frequentavano il capannone lavorano tutte nel magentino, come operai o piccoli imprenditori, e utilizzavano lo spazio nel tempo libero per riunirsi, parlare dei problemi della quotidianità e per pregare. Ma non c’è mai stato nessun imam e nessuna moschea. E, aggiungiamo, non ci sono nemmeno mai state segnalazioni da parte delle forze dell’ordine, essendo le uniche contestazioni esistenti quelle della polizia municipale, relative però ad alcune opere edilizie risalenti a vent’anni prima.
Ma a questo punto entravano in scena la Lega, assecondata dal Sindaco di Magenta, e la sua campagna contro la “moschea abusiva”. Il pessimo clima e le pressioni politiche sul proprietario del capannone facevano poi il resto e così, grazie a un’ingenuità e alla non perfetta conoscenza della lingua e delle cose italiane, la proprietà era riuscita a ottenere una firma su una lettera di rescissione dal contratto d’affitto da parte dell’associazione. Ne è nata una questione legale, finita con una sentenza favorevole alla proprietà da parte della Corte di Appello di Milano. Ma la querelle non è mai uscita dagli aspetti contrattuali formali e nessun giudice ha mai contestato la regolarità dell’uso dei locali da parte dell’associazione.
Insomma, la legalità non c’entra proprio nulla. Anzi, semmai a qualche domanda dovrebbe rispondere la Lega, visto che non soltanto la Costituzione italiana afferma la libertà religiosa, ma lo stesso nuovo Statuto della Regione Lombardia, appena approvato con il voto favorevole del Carroccio, dice espressamente che la Regione “promuove le condizioni per rendere effettiva la libertà religiosa”.
In altre parole, a noi pare che il problema a Magenta non si chiami “moschea abusiva”, ma Lega Nord.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Oggi il Parlamento Europeo ha approvato la cosiddetta direttiva rimpatri, contenente norme e procedure per il “rimpatrio di cittadini di paesi terzi soggiornanti illegalmente”, con 369 voti a favore, 106 astensioni e 197 voti contrari. Nessun emendamento è stato accolto e a nulla sono servite le tante critiche avanzate negli ultimi giorni da più parti.
Così, d’ora in poi i governi della democratica Europa potranno imprigionare nei centri di permanenza temporanea gli immigrati irregolari fino ad un massimo di 18 mesi e le espulsioni coatte potranno avvenire anche verso paesi diversi da quello di appartenenza (tipo nei lager libici, tanto per intenderci). E tutto questo non vale soltanto per gli adulti, ma anche per i minori, sia accompagnati che non. (per leggere il testo integrale della direttiva vai sul sito dell’europarlamento: www.europarl.europa.eu))
Con il voto odierno l’Europa archivia un pezzo fondamentale della sua storia recente e della sua civiltà democratica, cedendo pericolosamente al vento xenofobo che spira in tutta il continente. Ed è triste, anche se non sorprendente, dover constatare che gli europarlamentari del Partito Democratico non abbiano trovato nulla di meglio che astenersi…!
Stamattina all’alba sono iniziate le annunciatissime operazioni di sgombero del degradato ex scalo ferroviario di Porta Romana, utilizzato da tempo come rifugio insalubre da centinaia di immigrati, in larga parte profughi di guerra africani.
C’erano la polizia locale, la polizia di stato e i carabinieri, ma anche la protezione civile, i servizi sociali e personale medico. Insomma, tutto è avvenuto nella massima tranquillità e persino i mezzi dell’Atm mobilitati erano privi delle ormai tristemente famose grate di sicurezza.
Visti i tempi che corrono, sicuramente una notizia positiva. Ma, dall’altra parte, le oltre 150 persone identificate e poi trasportate in centri del Comune sono tutte in possesso di regolare permesso di soggiorno per motivi umanitari, nonché censite già da dieci giorni, e non si sarebbe proprio capito un procedimento diverso.
Tutto bene dunque? Non proprio, perché va ricordato il fatto che a quelle persone lo Stato italiano aveva accordato formalmente la sua protezione, perché riconosciuti come profughi di guerra, salvo poi abbandonarli al loro destino. È così che erano finiti a dover campare in condizioni allucinanti nell’ex scalo ferroviario e tanti altri come loro continuano a sopravvivere in maniera analoga in altri interstizi degradati della metropoli.
E come se non bastasse, tra i profughi oggi identificati non troviamo soltanto dei recenti arrivati, ma anche persone che le istituzioni avevano già incontrato in passato, in viale Forlanini oppure in via Lecco. Cioè, erano già state censite come profughi senza tetto ed erano già state indirizzate in vari centri di accoglienza del Comune. Eppure, oggi ancora una volta li ritroviamo a vivere tra le macerie e i rifiuti.
Insomma, si tratta di un girone infernale che sembra non avere vie d’uscita: i rifugiati passano dalle aree degradate alle sistemazioni temporanee nei centri e nei dormitori comunali, per poi ritornare sempre al punto di partenza.
Oggi il Comune ha elencato le destinazioni dei rifugiati dello Scalo Romana. Si tratta dei soliti noti centri di accoglienza e del dormitorio di viale Ortles, cioè di sistemazioni per definizione temporanee.
La domanda che si impone a questo punto è dunque la seguente: il Comune di Milano intende procedere come ha fatto precedentemente oppure questa volta c’è la ricerca di una soluzione più stabile, dal punto di vista abitativo e dell’inserimento sociale?
Visti i precedenti, ci pare una domanda obbligatoria che richiede una risposta pubblica, perché se alla fine siamo alle solite, allora dobbiamo necessariamente concludere che quella di oggi era soltanto un’operazione di immagine, utile per fare un po’ di comunicati stampa e marketing politico, ma tra qualche mese tutto torna come prima, con i rifugiati per strada, a cercare nuove macerie dove potersi sistemare.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 2 luglio 2008
Verso il tardo pomeriggio del lunedì una voce iniziava a circolare tra le associazioni e i giornalisti milanesi: era in corso una rivolta nel Cpt di via Corelli. Inizialmente al centro tentavano di negare, ma poi qualcuno ha visto l’andirivieni dei mezzi della questura e qualcun altro ha recuperato il solito contatto telefonico con un “ospite” del centro.
Insomma, la rivolta c’era, ma era molto più difficile del solito capire cosa fosse avvenuto esattamente, poiché la Prefettura di Milano aveva optato per una rigidissima blindatura del centro, impedendo al sottoscritto di poter entrare fino al giorno successivo, mentre la Questura rilasciava comunicati stranamente generici. Le camionette però erano lì.
Ora sappiamo che durante la notte la rivolta dei 25 immigrati di varia nazionalità della camerata D -o Delta come preferiscono gli addetti ai lavori- si è poi spenta. In sostanza, dopo lunga trattativa con gli “ospiti” la polizia si è semplicemente ritirata dal corridoio d’accesso alla camerata degli “insorti”, rinunciando ad entrarvi. Il bilancio della protesta sono dunque i soliti danni materiali, tra panchine di cemento e vetri distrutti, e un ferito lieve, un operatore della Croce Rossa colpito da una scheggia di vetro.
Questo è quello che si sa con certezza. E un’altra cosa ancora si sa, perché su questo concordano sia la questura che gli immigrati da noi sentiti ieri: l’incidente scatenante della rivolta è stato un diverbio tra un cittadino sudanese e un funzionario di polizia presente nel centro. Differisce invece il seguito. Se per la questura non si sarebbe mai andati oltre lo scambio verbale, per gli immigrati invece il poliziotto avrebbe risposto a escandescenze verbali, usando le mani. E così, una volta che l’immigrato era rientrato in camerata, la rivolta ha preso il suo corso.
D’altronde non ci vuole poi tanto per incendiare gli animi. Nel Cpt in questi giorni si soffoca, visto che il tetto è di lamiera e non esistono né condizionatori, né ventole, e poi c’è tutto il resto, a partire dalla condizione di detenzione. Figuriamoci poi quando arriva la notizia di un pestaggio gratuito.
Ovviamente non sappiamo se il pestaggio sia avvenuto effettivamente nei termini denunciati dal cittadino sudanese e oggi ribadito al sottoscritto nel corso della visita in via Corelli. Quello che però sappiamo è che la vicenda non può essere insabbiata e che la Prefettura ha il dovere di promuovere un’indagine senza reticenze.
Ma ciò che colpisce maggiormente in tutta questa vicenda è la ragione del diverbio che aveva innescato tutta la vicenda. Il cittadino sudanese è uno dei tanti casi di trattenuti nel Cpt che provengono dal carcere. In altre parole, persone che a fine pena dovrebbero essere immediatamente espulse, ma che invece vengono regolarmente “parcheggiate” nel Cpt per un mese o due di ulteriore e gratuita detenzione. Infatti, l’immigrato stava protestando perché per l’ennesima volta gli era stato comunicato il rinvio dell’espulsione, inizialmente prevista per lunedì.
Come dargli torto se si è arrabbiato? La sua identità è straconosciuta, le autorità hanno in mano permesso di soggiorno, carta d’identità italiana e passaporto sudanese e anche la data di rilascio dal carcere era nota agli addetti ai lavori. Eppure, nessuno si era preoccupato di prenotare un posto sul prossimo volo che lo avrebbe portato in Sudan. Molto più comodo mandarlo al Cpt, che poi qualcuno ci pensa. Con calma, ovviamente, visto che ci sono 60 giorni di tempo…
Insomma, il teatro dell’assurdo che sono i Cpt, ora denominati Cie, ci consegnano la storia di un immigrato che litiga con un funzionario della polizia perché non riesce ad andarsene dall’Italia e per questo, forse, rimedia pure dei cazzotti gratuiti.
E tutti gli apologeti dei centri di detenzione che sostengono che siano imprescindibili per l’identificazione e l’espulsione dovrebbero andarci ogni tanto in un Cpt. Sarebbe per loro molto illuminante. Ma soprattutto potrebbero scoprire che la follia dell’allungamento del periodo di detenzione amministrativa fino a 18 mesi, minori compresi, porterà semplicemente a rallentare ulteriormente le procedure. Tanto, che fretta c’è?
Se il Parlamento italiano approverà il limite dei 18 mesi, suggerito incredibilmente dal Parlamento europeo con tanto di astensione Pd, allora forse dovremo abituarci a rivolte come quella di via Corelli. Rivolte per riuscire ad essere espulsi, possibilmente senza prendere le botte.
La schedatura etnica dei rom, con o senza impronte digitali, è stata imposta ai Prefetti di Milano, Roma e Napoli dalle tre ordinanze governative gemelle di fine maggio. E questo è risaputo. Ma quello che non si sa è che il Comune di Milano, come spesso accade in questo campo, aveva largamente anticipato i tempi, realizzando un censimento etnico già negli anni scorsi e senza neppure attendere coperture normative.
Questo è quanto emerge da una fascicolo di 116 pagine del Nucleo Problemi del Territorio della Polizia Municipale di Milano, che raccoglie i risultati del lavoro di censimento effettuato tra l’ottobre 2006 e il dicembre 2007. Un’indagine molto dettagliata, composta da schede relative a 12 campi autorizzati, 4 “campi non autorizzati ma consolidati”, 13 insediamenti abusivi e persino a 9 insediamenti di “nomadi giostrai”.
Se si trattasse di un semplice censimento delle baraccopoli esistenti a Milano sarebbe senz’altro un’operazione lodevole e utile, ma purtroppo c’è ben altro. Colpisce, infatti, la meticolosità con la quale le singole schede classificano etnicamente gli abitanti degli insediamenti, soprattutto di quelli regolari e semi-regolari. E così, sotto la voce “nazionalità” non troviamo semplicemente l’indicazione della cittadinanza delle persone rilevate, che a volte persino manca, bensì l’appartenenza a un gruppo o sottogruppo zingaro.
Ma facciamo degli esempi concreti. La scheda relativa al campo autorizzato di via Bonfadini rileva la presenza di 25 famiglie per un totale di 127 persone, di cui 40 frequentano la scuola elementare e media. E sotto la voce “nazionalità” indica testualmente: “Sinti Abruzzesi (Lombardi) Rom Harvati”. Quella relativa al campo autorizzato di via Idro registra 30 famiglie per un totale di 120 persone, di cui 27 sono iscritte alla scuola dell’obbligo, e come nazionalità indica “Sinti italiani (Lombardia Veneto Friuli) Rom Harvati (Croazia)”.
Tuttavia, per capire fino in fondo il concetto di “nazionalità” impiegato dagli uomini del vicesindaco De Corato occorre andare alle prime pagine del fascicolo, dove con piglio etnografico vengono enumerati i gruppi zingari “di più antica immigrazione” e “di immigrazione più recente” presenti sul territorio. Tra i primi troviamo ad esempio i “rom abruzzesi e molisani” e si sottolinea che sono giunti nell’odierna Italia nel lontano 1392. Cioè, 600 anni fa e secoli prima che si formasse lo Stato italiano. Eppure, la Polizia Locale milanese li considera ancora immigrati, sebbene di antica data, e pertanto non li ritiene degni della semplice dizione “cittadini italiani”!
Insomma, date le informazioni molto dettagliate contenute nelle singole schede, che peraltro comprendono altresì le intestazioni delle utenze di gas ed elettricità o la presenza di animali, è evidente che la Polizia Locale sia da tempo in possesso di una banca dati separata e specifica che classifica delle persone, di cittadinanza italiana e non, su base etnica. E ciò non è semplicemente un fatto di inaudita gravità dal punto di vista morale e civile, ma soprattutto illegale.
Post Scriptum: Il Prefetto di Milano, Lombardi, aveva iniziato le operazioni di “censimento” dei “nomadi” nel campo autorizzato di via Impastato, perché non si sapeva bene chi e in quanti ci vivessero. Decine di persone di ogni età, tutte di cittadinanza italiana e tutte iscritte all’anagrafe, furono messe in fila alle 5.30 del mattino da una settantina di agenti delle forze dell’ordine. Furono fotografate le loro carte d’identità, rilasciate dal Comune di Milano, e fu finalmente stabilito che erano in 33. Bene, ora prendete la scheda relativa a via Impastato nel rapporto della Polizia Locale 2007 e leggerete il seguente numero: 33. Insomma, le istituzioni non hanno saputo nulla che non sapessero già, ma in cambio si sono raccontate un sacco di frottole all’opinione pubblica e, soprattutto, 33 persone, colpevoli unicamente di essere zingari, sono state umiliate e messe alla gogna.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
qui sotto puoi scaricare le schede citate
C’è qualcosa di imbarazzante e inquietante nell’attuale polemica sulla moschea di viale Jenner a Milano. A leggere le numerose dichiarazioni, a volte più simili a grida di guerra, sembra quasi che i fedeli musulmani siano felici di dover pregare sui marciapiedi, giornate di pioggia comprese. E così, quasi tutti fanno finta di non sapere che il centro culturale islamico sta tentando da anni di trovare un luogo diverso, più idoneo.
Infatti, più volte il Comune ha risposto picche alle proposte di trasferimento del centro. E il problema non erano tanto le valutazioni urbanistiche e tecniche, sempre discutibili, bensì gli autentici veti politici. Cioè, al Comune c’è chi teorizza che a Milano non debbano esistere luoghi di culto islamici e questo qualcuno si chiama Lega Nord.
La questione della moschea di viale Jenner si è quindi trascinata per anni, incancrenendosi sempre di più. E come sempre accade quando i problemi non vengono risolti, a un certo punto esplodono i conflitti. Beninteso, conflitti utilissimi per quei doppiogiochisti padani che sulla stampa si ergono a paladini dei residenti di viale Jenner, salvo poi impedire ogni trasferimento nelle segrete stanze di Palazzo Marino.
Oggi le istituzioni devono assumersi la responsabilità di porre fine a questi giochi pericolosi, prima che scappino di mano e diventino una sorta di scontro di religione in salsa meneghina. E fare questo significa smetterla di gridare semplicemente “no”, invocare generiche e sciocche delocalizzazioni oppure voler mandare i vigili a fare le multe, per invece guardare in faccia alla realtà: nel milanese ci sono ormai decine di migliaia di lavoratori di fede islamica, ma non esiste ancora un’infrastruttura di luoghi di culto adatta.
Milano deve dunque decidere se i fedeli musulmani debbano pregare in capannoni e per strada oppure se possono, come le altre fedi religiose, disporre di luoghi di culto normali e regolari. Se si decide per la prima, allora disagi e conflitti futuri sono assicurati, con la gioia della Lega. Se si decide per la seconda, allora le soluzioni sono a portata di mano. L’unica cosa che non si può fare è pretendere che un fedele, che sia musulmano, cattolico, ebreo o altro, smetta di essere tale e che non preghi più.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
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