Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Chi la dura la vince, dice la saggezza popolare. E così la Nokia Siemens Networks (NSN) ha dovuto ingranare la retromarcia e riaprire la trattativa a condizioni ben diverse da quelle che il 16 ottobre scorso avevano portato al “mancato accordo”, cioè alla rottura delle trattative. Anzi, parlare di “trattativa” era persino un eufemismo, poiché la proposta aziendale prevedeva soltanto cassa integrazione a zero ore, cioè l’anticamera del licenziamento collettivo.
La posta in gioco nella vertenza NSN è molto alta, poiché la multinazionale vuole liberarsi di 580 lavoratori, di cui la stragrande maggioranza nel principale sito produttivo italiano, quello di Cassina de’ Pecchi. In altre parole, non stiamo parlando “soltanto” di un numero alto di posti di lavoro, ma della possibilità che venga smantellato e deindustrializzato uno dei principali poli delle telecomunicazioni esistenti in Lombardia.
Peraltro, sempre a Cassina c’è il caso Jabil -un ex ramo d’azienda NSN ceduto nel 2007- cioè quella azienda che ha licenziato oltre 300 lavoratori e lavoratrici e i cui stabilimenti sono presidiati dai lavoratori da oltre un anno. Ebbene, le vertenze Jabil e NSN sono in realtà strettamente collegate, poiché la lotta degli operai ex-Jabil per la reindustrializzazione, che ha vissuto anche momenti molto aspri, come il 27 luglio scorso, difficilmente potrà reggere in un quadro di desertificazione occupazionale dell’adiacente NSN. E, aggiungo, anche la lotta alla NSN ha bisogno che il presidio Jabil continui.
Certo, la nuova ipotesi di accordo definita dopo la retromarcia di Nokia Siemens e che ora verrà sottoposta al giudizio dei lavoratori e firmato il 29 ottobre prossimo, non è la soluzione di tutti i mali, ma consente di guadagnare prezioso tempo e, soprattutto, di bloccare le procedure di mobilità (leggi: licenziamento) per centinaia di lavoratori. E questo è molto, nelle condizioni date.
Ma come si è arrivati a questo clamoroso passo indietro dell’azienda? Già, perché leggendo alcuni proclami sindacali, possiamo senz’altro dire che questo è il punto dolente della giornata. La sparata più grossa è sicuramente della Uilm, che sul Sole 24 Ore attribuisce il merito a sé stessa… E fin qui potremmo anche dire che siamo alle solite, ma francamente fa senso che, unica eccezione la Fiom, sia stato completamente rimosso il punto di svolta, cioè quel fatto che ha imposto alla NSN di cambiare idea: cioè, l’assemblea dei lavoratori NSN del 18 ottobre scorso a Cassina, dove di fronte all’imminente arrivo delle lettere di licenziamento, i lavoratori hanno deciso di non chinare la testa e di non firmare la resa, bensì di proseguire la lotta per il ritiro dei licenziamenti.
Appunto, chi la dura la vince, e sarebbe il caso di dirlo forte, dando a Cesare quello che è di Cesare, invece che raccontare frottole. Ma purtroppo sembra che quella antica malattia di avere paura del protagonismo dei lavoratori sia proprio difficile da debellare.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 03/10/2012, in Lavoro, linkato 1000 volte)
Tutta colpa di quei disgraziati di lavoratori che scioperano? Sembrerebbe proprio di sì, leggendo ed ascoltando editoriali, dichiarazioni e ammonimenti che piovono da tutte le parti dopo la giornata di sciopero del trasporto pubblico locale di ieri, con i momenti di caos a Milano.
Beninteso, se ieri ti trovavi sulla linea rossa dalle parti di Lima poco prima delle 18.00, hai passato un’esperienza difficile e forse oltre l’incazzatura ti sei preso anche uno spavento. Chi scrive era più fortunato, poiché a quell’ora si trovava sì nelle vicinanze, ma sulla gialla e sulla verde. Tuttavia, è bene ricordare che il fatto che ha dato il la al processo pubblico contro gli scioperanti, cioè il blocco del convoglio a Lima, non è affatto ascrivibile ai lavoratori. In fondo, è costretto a riconoscerlo lo stesso Corsera, che in prima pagina nazionale grida “Uno sciopero così non è da Paese civile”, ma poi in fondo al suo articolo di cronaca in pagina milanese scrive: “Ma stavolta i sindacati non c’entrano. La fascia ‘protetta’ è stata rispettata e, anzi, tutti i macchinisti hanno garantito il servizio della Rossa ben oltre le 18”.
Ma appunto, quello che conta, quello che fa tendenza sono le prime pagine ed i titoli. E qui il Corsera ha fatto scuola. Già ieri sera qualche direttore di Tg aveva iniziato a puntare severo il dito contro gli autoferrotranvieri in sciopero, oggi poi sono seguite le dichiarazioni politiche. L’indagato Formigoni e il suo assessore ai trasporti, Cattaneo, hanno immediatamente riscoperto il diritto alla mobilità dei pendolari, cioè di coloro che da anni protestano invano con la Regione a causa dei continui disservizi, sostenendo che bisogna trovare “altre modalità” e “rivedere qualche regola”. Il presidente della Commissione di garanzia sugli scioperi, da parte sua, ha annunciato un’inchiesta sulla regolarità degli scioperi, mentre alla fine della fiera anche qualche assessore comunale milanese, come Chiara Bisconti, si è fatto contagiare dalla febbre, invocando un “ripensamento delle modalità di sciopero”.
Pochi, anzi pochissimi, hanno ritenuto necessario ricordare che i lavoratori non si divertono quando scioperano, anche perché rinunciano al salario per quelle ore. E soprattutto quasi nessuno ha puntato il dito sulla ragione di questo sciopero, cioè il fatto che il loro contratto attende il rinnovo da oltre cinque (5) anni. E, non a caso, le adesioni allo sciopero di ieri sono state altissime in tutto il paese.
Già, è molto più facile e comodo prendersela con i lavoratori in sciopero e additarli come responsabili di tutti i mali, piuttosto che adoperarsi perché venga rinnovato il contratto e per fare una seria battaglia, anche istituzionale, per contrastare i continui tagli sulla voce “trasporto pubblico locale”. Certo, è più facile e comodo, ma è anche tremendamente ipocrita, perché alla fine questi atteggiamenti non risolveranno neanche mezzo problema e finiscono soltanto con mettere in discussione un altro pezzo di diritti in nome dell’emergenza.
E in questo senso la vicenda è paradigmatica di un clima, di un momento. Basti guardare cosa succede ad esempio all’ospedale San Raffaele, quello portato al fallimento dal malaffare di Don Verzé e soci e ciononostante destinatario per lunghissimo tempo di fiumi di denaro pubblico, grazie agli amici Berlusconi e Formigoni. E ora il conto lo dovrebbero pagare i lavoratori, con il licenziamento e/o con una riduzione salariale. E siccome i lavoratori giustamente non ci stanno a pagare il conto altrui e minacciano sciopero, allora vengono accusati di essere irresponsabili eccetera, magari anche da uomini della squadra di Formigoni…
Insomma, purtroppo sempre la solita e insopportabile storia: alla fine è sempre colpa dei lavoratori.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
C’è la crisi e poi ci sono i furbetti della crisi. E così, nonostante le commesse siano tornate, la proprietà ha annunciato la chiusura dello stabilimento Maflow di Trezzano sul Naviglio (MI), facendo carta straccia degli impegni e degli accordi firmati.
Ieri pomeriggio, infatti, si è tenuto un incontro in Regione Lombardia, dove il gruppo multinazionale polacco Boryszew, proprietario della Maflow, ha formalizzato la sua intenzione di chiudere la fabbrica e, dunque, di avviare la procedura di mobilità, cioè il licenziamento, per 70 lavoratori dei 90 rimasti.
Senza farla troppo lunga, poiché su questo blog ne avevamo parlato ripetutamente e poi vi segnalo anche il blog dei lavoratori Maflow, ricordo soltanto che la Maflow, produttrice di componenti auto, era entrata in crisi a causa del taglio delle commesse da parte della Bmw, che rappresentavano l’80% del lavoro dello stabilimento di Trezzano. Quindi, dopo un periodo di commissariamento, la Maflow fu venduta nel 2010 alla Boryszew, comportando peraltro una forte riduzione di personale. Tutta l’operazione era legata e vincolata ad un’ipotesi precisa, che era poi la base su cui poggiavano le prospettive di rilancio produttivo della fabbrica: cioè, ottenere che la Bmw riassegnasse le commesse alla Maflow. Ebbene, anche grazie alle mobilitazioni dei lavoratori, che si erano recati finanche in Germania, le commesse Bmw sono tornate, ma i furbetti della Boryszew, disattendendo totalmente quanto da loro stessi firmato due anni fa, hanno deciso che la produzione verrà spostata in altri stabilimenti del gruppo, in Polonia e forse anche in Cina, dove il costo della manodopera è inferiore e i profitti dunque maggiori.
Da Regione Lombardia e Ministero ci aspettiamo che escano dal letargo e che agiscano con urgenza, anche perché –ed è opportuno ricordarlo- in tutta questa operazione di vendita e accordi firmati c’erano anche loro.
Ci saranno poi le azioni legali, necessarie e sacrosante, che promuoveranno le due organizzazioni sindacali che sostengono la battaglia dei lavoratori Maflow, cioè la Cub e la Fiom, perché la Boryszew ha violato tutti gli accordi firmati, truffando di fatto i lavoratori.
Tuttavia, ciò non basta, perché l’esperienza insegna che puoi anche vincere in tribunale, ma nel frattempo ti hanno chiuso e sigillato la fabbrica… Quindi, i lavoratori hanno deciso di mobilitarsi, subito.
Ieri sera è stata dichiarata l’assemblea permanente e questo fine settimana non si allontaneranno dalla loro fabbrica, per difenderla, per non permettere che qualcuno tenti di smantellarla di notte o di domenica.
Gli operai e le operaie della Maflow di Trezzano non si sono arresi alla prepotenza della proprietà e hanno deciso di battersi, così come hanno fatto negli ultimi anni. Avranno bisogno di sostegno e solidarietà. L’invito è quello di portargliela.
 
Mentre scrivo, i lavoratori sono riuniti per decidere le iniziative e le modalità dell’assemblea permanente. In ogni caso, lo stabilimento Maflow si trova in via Boccaccio 1, a Trezzano sul Naviglio (MI).
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 11/09/2012, in Lavoro, linkato 824 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer pubblicato sul giornale on line Paneacqua.info l’11 settembre 2012
 
Finalmente una buona notizia a sinistra: stamattina sono stati depositati in Cassazione i due quesiti referendari sul lavoro, è stato costituito un comitato promotore unitario e, quindi, a metà ottobre si partirà con la raccolta delle firme per abrogare l’art. 8 del decreto legge n. 138/2011 e per ripristinare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Si tratta di una buona notizia per diverse ragioni. Anzitutto, perché finalmente si tenta di rimettere al centro dell’agenda politica la questione del lavoro e, soprattutto, i lavoratori e le lavoratrici in quanto portatori di diritti e soggettività.
Certo, i due quesiti non possono esaurire l’insieme del discorso sul lavoro, ma essi aggrediscono senza ombra di dubbio uno dei capisaldi delle politiche liberiste e di austerità, che postula la necessità di ridurre il lavoratore ad individuo isolato, privato dei diritti, sostanzialmente precario e, dunque, docile. Già, perché la ratio delle due norme oggetto dei referendum puntano esattamente a questo: l’art. 8 del decreto legge n. 138/2011 generalizza il modello Marchionne e rende il contratto nazionale sempre e comunque derogabile, depotenziandolo nell’immediato e riducendolo a mero ornamento in prospettiva; la manomissione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ad opera della riforma Fornero (legge n. 92/2012) liberalizza il licenziamento illegittimo, esponendo il lavoratore al ricatto permanente.
In questo senso, i due quesiti sollevano una questione generale, cioè se la crisi in cui decenni dì politiche liberiste -a partire dalla liberalizzazione dei mercati finanziari- hanno gettato le nostre società debbano essere pagate dai lavoratori, “garantiti” o precari che siano, oppure da quanti portano la responsabilità della situazione. O, molto più semplicemente, se sia ipotizzabile un futuro socialmente e politicamente sostenibile con le politiche di austerità oppure se vada cercata e costruita da subito un’alternativa, rovesciando il paradigma dominante.
E qui siamo alla seconda ragione che fa di questi referendum una buona notizia. Cioè, finalmente c’è la possibilità di parlare delle cose vere, del merito e dei contenuti, e non semplicemente di alleanze elettorali a prescindere. Infatti, con questi referendum sul banco degli accusati non troviamo uno schieramento, bensì quella politica che ha attraversato diversi governi: quello Berlusconi, sostenuto da Pdl e Lega, e quello Monti, sostenuto da Pdl, Pd e Udc. In altre parole, si tratta di decidere se continuare con la politiche di Monti, della Bce e della grande finanza oppure se cambiare radicalmente discorso.
In terzo luogo, questo referendum, iniziato con una fuga solitaria in avanti dell’IdV, alla fine ha rimesso attorno ad uno stesso tavolo, cioè uno stesso comitato promotore, diversi soggetti della dispersa sinistra sociale e politica (Fiom, intellettuali, Idv, Prc, Sel, Pdci, Alba, pezzi di Cgil eccetera). Beninteso, non è certo l’inizio di una nuova primavera, è semplicemente quello che è, ma di questi tempi non è poco.
 
Infine, un avvertimento a noi tutti e tutte. L’avvio della campagna referendaria sul lavoro è una buona notizia, ma nulla è dato ovviamente, né sul piano dell’esito della campagna referendaria, né tanto meno su quello delle possibili implicazioni politiche. Siamo solo al punto di partenza, per il resto è ancora tutto da vedere e da fare. Molto dipenderà da quello che riusciremo a mettere in campo. Ma conviene investirci, seriamente!
 
 
L’annunciato intervento di forza alla Jabil di Cassina de’ Pecchi (MI) è arrivato oggi all’alba, ma il blitz si è risolto in un fallimento completo per la multinazionale statunitense. Questo fatto dovrebbe far riflettere e, soprattutto, spingere tutti gli attori istituzionali a dare forza agli impegni di reindustrializzazione del sito, presi dal Ministero dello Sviluppo Economico soltanto lunedì scorso a Cassina.
Infatti, in questa settimana le istituzioni hanno brillato per ambiguità, poiché agli impegni concreti per il rilancio produttivo ed occupazionale di lunedì scorso, è seguito oggi un massiccio dispiegamento di polizia e carabinieri che ha aperto con la forza la strada a due camion e a una trentina di lavoratori, probabilmente dipendenti di una cooperativa a basso costo, che avrebbero dovuto asportare dal sito componenti e macchinari per conto del management della Jabil.
Se questa operazione fosse andata in porto, probabilmente gli impegni ministeriali sarebbero finiti in un cestino nel giro di qualche settimana, poiché una fabbrica svuotata di ogni valore e un presidio operaio smantellato non producono né vertenze, né soluzioni, né rispetto degli impegni. Ahinoi, così vanno le cose nel nostro paese.
Oggi le istituzioni non hanno fatto il loro dovere e tutto il peso della salvaguardia di una prospettiva produttiva ed occupazionale è rimasta sulle spalle degli operai e delle operaie licenziati da Jabil. Grazie alla loro straordinaria determinazione e al sostegno solidale ricevuto questa mattina da parte di molti, a partire dalla Fiom di Milano e dai giovani dei movimenti, stamattina i piani della direzione Jabil sono naufragati.
Polizia e carabinieri si sono presentati poco dopo le ore 5.00. La resistenza dei due presidi, corrispondenti a due ingressi allo stabilimento, è stata molto decisa, ma sempre a mani nude e a volto scoperto, mai violento, e quindi era solo questione di tempo perché i reparti antisommossa si aprissero un varco. Ma non era finita lì, perché dall’interno diversi operai salivano sui tetti in segno di protesta e, successivamente, decine di lavoratori e giovani sono riusciti ad invadere lo stabilimento, dove gli addetti inviati dalla direzione Jabil stavano tentando di portare via il materiale. Morale della storia: il blitz si è impantanato appena entrato nel vivo e poco dopo le 8.00 i due camion stavano già ripartendo, quasi vuoti.
Oggi, chi ha difeso il presidio operaio e l’integrità dello stabilimento ha reso un servizio non solo a se stesso, ma soprattutto all’interesse generale, poiché ha salvaguardato la possibilità di vedere rinascere l’attività produttiva. E questo dovrebbe essere di insegnamento a chi, pur essendo istituzione pubblica, ha preferito assecondare l’interesse privato di una società multinazionale che se ne frega dei territori e delle persone
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
 
La notizia di un possibile e imminente intervento di polizia contro il presidio operaio alla Jabil di Cassina de’ Pecchi (MI) è arrivata come una doccia fredda ed ha decisamente il sapore della beffa. Già, perché sono passati soltanto pochi giorni dall’incontro sulla vertenza Jabil del 24 luglio scorso, che ha visto la partecipazione del Ministero dello Sviluppo Economico, di Invitalia, della direzione di Nokia Siemens Networks, proprietaria dell’area, e dei rappresentanti dei lavoratori e che, soprattutto, ha prodotto l’impegno concreto, da parte governativa, di presentare entro sei mesi un progetto di sviluppo produttivo del sito, capace di assorbire i 325 operai ed operaie licenziati in tronco dalla Jabil il dicembre scorso.
Ma come, all’inizio della settimana le istituzioni si impegnano per l’occupazione e alla fine della stessa settimana sarebbero invece disponibili a rispondere positivamente alla richiesta della Jabil, che chiede di cacciare con la forza gli operai e di entrare nel sito produttivo al fine di smantellarlo? Sarebbe davvero il colmo!
Ovviamente, chi di dovere ha già richiesto a Prefettura e Questura di non dare seguito alle richieste della Jabil, che si riconferma assolutamente indisponibile a discutere con i lavoratori e le organizzazioni sindacali. Ma allo stato non sono pervenuti segnali tranquillizzanti e pertanto dobbiamo ritenere possibile un intervento di forza a breve. Anzi, a brevissimo, perché a questo punto ogni giorno è buono.
Il presidio degli operai della Jabil era iniziato un anno fa e si è rafforzato nelle sue ragioni strada facendo, specie con il licenziamento di massa di dicembre scorso. Quella resistenza, quella lotta e quel presidio sono maledettamente importanti, perché soltanto grazie ad essi si è arrivati all’incontro e agli impegni da parte del Governo di lunedì scorso. Se l’anno scorso gli operai e le operaie si fossero rassegnati e se avessero permesso lo smantellamento dello stabilimento, allora oggi non avremmo di fronte quella piccola, ma preziosa possibilità per il futuro, ma soltanto un immenso e triste deserto. Per questo, soprattutto per questo, c’è bisogno che il presidio degli operai ed i macchinari rimangano lì dove sono.
In altre parole, ora tocca noi fare qualcosa, perché occorre dimostrare che gli operai della Jabil non sono soli, che c’è solidarietà e complicità con loro, che la loro lotta per il lavoro non riguarda soltanto loro, ma tutti e tutte.
 
Per questo rilancio l’invito che viene dai lavoratori del presidio della Jabil: andare al presidio, stare lì e portare solidarietà, a partire da questa notte o non più tardi delle 5.00-5.30 del mattino.
 
Il presidio Jabil si trova a Cassina de’ Pecchi (MI), Strada Padana Superiore, al km 158.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Nokia Siemens si appresta ad abbandonare l’Italia. Questo è il messaggio inequivocabile che arriva dall’annuncio di 445 licenziamenti contro i quali i lavoratori della multinazionale stanno scioperando ormai per il secondo giorno consecutivo.
E così, Milano e la Lombardia rischiano di perdere un altro pezzo di telecomunicazioni, con relative professionalità ed occupazione, senza che le istituzioni nazionali e regionali mostrino qualche segno di reazione che vada oltre alle dichiarazioni di rito, a convocazioni di tavoli e, forse, agli ammortizzatori sociali.
Oggi c’è una crisi brutale su scala internazionale, certo, ma il processo di desertificazione produttiva della nostra regione, che comprende in maniera sempre più virulenta anche i settori avanzati, come quello delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, era iniziato anni fa. Agile-Eutelia, Itatel, Alcatel, Jabil, Sirti eccetera, la lista è lunga. E ora, appunto, sembra che anche la vicenda Nokia Siemens Networks arrivi al suo epilogo.
Nokia Siemens è una multinazionale che non aveva mai dato molto peso alla propria parola, né mostrato troppo rispetto per gli accordi, anche se firmati ai massimi livelli. Basterebbe, a tal proposito, ricordare l’intesa con il Ministero del 2007, quando il gruppo si impegnò a mantenere tutti i siti produttivi italiani. Ebbene, qualche anno più tardi chiuse lo stabilimento di Cinisello Balsamo e alla fine del 2011 la Jabil, ramo d'azienda di Nokia Siemens ceduto proprio nel 2007, chiuse il sito di Cassina de’ Pecchi, licenziando 325 lavoratori, eccetera eccetera.
Ma se la multinazionale ha potuto comportarsi in questa maniera, questo era dovuto anche all’atteggiamento remissivo di Governo e Regione, che non solo non hanno mai alzato seriamente la voce, ma nemmeno mai definito un straccio di politica industriale che tentasse di contrastare o arginare la desertificazione produttiva.
Se oggi, ancora una volta, si assisterà passivamente ai 445 licenziamenti di Nokia Siemens, occupandosi se va bene degli ammortizzatori sociali, domani anche quello che rimane sparirà E qui non si tratta di fare gli uccelli del malaugurio, ma semplicemente di fare due conti: il gruppo ha 1104 dipendenti in Italia, di cui quasi tre quarti a Cassina de’ Pecchi, e l’attuale procedura di mobilità, oltre a prevedere la chiusura delle sedi di Palermo e Catania, concentra 367 esuberi a Cassina, cioè lo stabilimento principale. Qualcuno può seriamente pensare che una Cassina dimezzata e senza piano industriale possa promettere un futuro?
Da parte nostra, esprimiamo la massima solidarietà ai lavoratori e alla lavoratrici di Nokia Siemens e sosteniamo la loro mobilitazione, che oggi assume per il nostro territorio un'indubbia valenza generale.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
per seguire la lotta dei lavoratori Nokia Siemens visita il blog delle Rsu di NSN e il sito della Fiom Milano.
 
 
di lucmu (del 27/06/2012, in Lavoro, linkato 1028 volte)
Hanno ucciso l’articolo 18 e dicono che non è successo nulla. Hanno esteso la precarietà e blaterano di opportunità per i giovani. Hanno tagliato drasticamente gli ammortizzatori sociali e lo chiamano modernizzazione del welfare. Hanno fatto una “riforma del mercato del lavoro” che toglie molto a molti, ma perché suonasse meglio hanno aggiunto nel titolo “in una prospettiva di crescita”. Insomma, da oggi il ddl Fornero è legge dello Stato.
Come già successo in Senato un mese fa, anche alla Camera si è fatto ricorso al voto di fiducia, che garantisce i tempi celeri chiesti da Monti e, soprattutto, evita imbarazzanti dibattiti pubblici sul merito. E così, una legge, le cui conseguenze non verranno vissute nemmeno da uno dei 393 deputati che l’hanno votata, è stata approvata a larghissima maggioranza.
Beninteso, non c’è alcuna sorpresa in questo esito, né vi è mai stato un minimo di suspense, anzi, tutto era talmente preannunciato e scontato che oggi la notizia fatica persino a conquistarsi un posto in prima fila nell’informazione mainstream. Già, un contrasto immenso tra le grida d’allarme che avevano giustificato il provvedimento e l’ordinarietà che accompagna oggi la sua approvazione.
Tuttavia, questa disattenzione non è dovuta solo al fatto che ormai si corre di emergenza in emergenza, per cui si invocano sempre nuove e più drastiche misure, senza peraltro indicare mai uno straccio di prospettiva, ma anche -e forse soprattutto- ai troppi scheletri in troppi armadi. Ebbene sì, perché quella diffusa voglia di parlare d’altro o di minimizzare non trova giustificazione alcuna nel merito del provvedimento, che anzi rappresenta un salto di qualità nel processo di smantellamento di tutele, regole e diritti nel mondo del lavoro.
Certo, la legge è scritta in maniera contorta in diverse parti e ci sono delle incoerenze formali, ma dal punto di vista degli obiettivi che intende perseguire e dell’idea di società a cui si ispira, essa è di una chiarezza esemplare. Infatti, tre sono gli obiettivi di fondo e tutti i tre ci paiono ampiamente garantiti dal testo approvato: 1) estensione della possibilità di ricorrere a rapporti di lavoro precari; 2) taglio drastico degli ammortizzatori sociali e 3) abolizione de facto del divieto di licenziamento individuale senza giusta causa, mediante la riduzione a ipotesi puramente scolastica del reintegro previsto dall’articolo 18. In altre parole, piena continuità con le misure in materia di mercato del lavoro dei precedenti governi e assoluta aderenza ai precetti dell’ideologia neoliberista, cioè una vera e propria controriforma sociale.
Un’enormità, insomma, che avrebbe meritato una sollevazione sociale e politica o almeno uno scontro aspro e serio, ma invece non è successo nulla di tutto ciò. O meglio, qualcuno si è opposto davvero, ha lottato, si è mobilitato e ha scioperato (che significa rinunciare a una parte di salario), come la Fiom ed i sindacati base, settori di movimento, giuristi del lavoro e intellettuali, partiti della sinistra, singoli lavoratori e delegati. E possiamo essere anche ragionevolmente certi che la combattiva minoranza che si è opposta fosse più in sintonia con il sentire diffuso nella società che la maggioranza di parlamentari che ha approvato la controriforma.
Ma alla fine tutto questo, ovviamente, non è stato sufficiente, non poteva esserlo. E non solo perché il Governo, la finanza, il capitale, le banche, il Fmi, la Bce, la Ue e chi più ne ha più ne metta esprimono un potere enorme, ma soprattutto perché i lavoratori e le lavoratrici, il loro punto di vista e il loro interesse, sono stati lasciati troppo soli e hanno subito una delle molte anomalie italiane. Ed eccoci agli scheletri negli armadi, alla principale forza di centrosinistra del paese, il Pd, che vota compatto la controriforma, a Cisl e Uil che non hanno fatto nemmeno finta di opporsi, alla Cgil che, nella sua maggioranza, prima ha spacciato la bufala della manifesta insussistenza come “risultato positivo” e, poi, ha revocato anche formalmente le ore di sciopero generale contro la manomissione dell’art. 18. Eccetera eccetera.
L’approvazione del ddl Fornero è una sconfitta per i lavoratori. Bisogna chiamare le cose con il loro nome. Non per autoflagellarci, per carità, ma per non partecipare al deleterio gioco del “non è successo niente, tanto non cambia nulla”, che diffonde soltanto rassegnazione, e per, invece, pensare da subito a come riconquistare quello che ci hanno tolto, a partire dal diritto di non essere licenziati se qualche volta ci permettiamo di dire “no”.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
A Pomigliano la Fiat discrimina e puoi essere anche l’operaio più bravo del mondo, ma se hai in tasca la tessera della Fiom o dei Cobas, allora in fabbrica non puoi lavorare. Nulla che non si sapesse già, per carità, anche se mezzo mondo faceva ipocritamente finta di niente. Ma ora lo dice anche la magistratura, con la sentenza del Tribunale di Roma che accoglie il ricorso della Fiom e di 19 operai, imponendo a Fabbrica Italia Pomigliano S.p.a. di assumere da subito 145 operai iscritti alla Fiom.
Insomma, legge italiana alla mano, ha ragione la Fiom e ha torto Marchionne, sebbene quest’ultimo, fedele alla sua personale visione del mondo e alla lunga tradizione Fiat, difficilmente si adeguerà e preferirà le battaglie legali ed i ricatti politici. Tuttavia, questa sentenza è una buona notizia e una boccata d’ossigeno, poiché chiama le cose con il loro nome (“discriminazione collettiva”) e toglie ogni alibi a quelli che guardavano dall’altra parte o negavano l’evidenza.
Già, perché a guardare bene non è solo la Fiat ad uscire condannata, ma anche l’assenteismo delle istituzioni, il menefreghismo di gran parte delle forze politiche e, soprattutto, la complicità di Cisl e Uil, che con le loro firme e le loro azioni avevano legittimato l’eliminazione delle libertà sindacali dei lavoratori Fiat.
Ora, come sempre accade, in molti saliranno sul carro di questa sentenza, dicendo di stare con gli operai e contro le discriminazioni, anche se diversi di loro fino a ieri non avevano mosso un dito.
Anche in Cgil in tanti dovranno interrogarsi e chiarire le loro intenzioni, visto che, al di là delle dichiarazioni e dei comunicati di oggi, il suo Comitato Direttivo del 18 giugno, quello che ha cancellato le otto ore di sciopero generale contro la manomissione dell’art. 18, ha indicato nella ricostruzione dell’unità con Cisl e Uil la priorità della fase, senza però porre alcuna condizione rispetto alla situazione in Fiat e tra i metalmeccanici.
In altre parole, non basta applaudire una sentenza, bisogna che ognuno, per quello che gli compete, faccia quello che deve fare per ristabilire i diritti e le libertà sindacali in Fiat.
 
Luciano Muhlbauer
 
per il testo integrale dell’ordinanza del Tribunale di Roma clicca qui
 
 
di lucmu (del 19/06/2012, in Lavoro, linkato 948 volte)
La richiesta del Governo Monti di accelerare l’approvazione del ddl lavoro, che manomette l’articolo 18 e taglia gli ammortizzatori sociali, l’incredibile truffa ai danni degli “esodati”, il forte aumento della pressione fiscale sui lavoratori e sui ceti medi e la contestuale assenza di interventi fiscali sui redditi alti e sulla rendita finanziaria e, infine, le pesanti nubi che si addensano sulla testa dei lavoratori pubblici con l’arrivo della “spending review”, sono tutti fatti che meriterebbero una forte e decisa iniziativa da parte del mondo del lavoro, cioè lo sciopero generale. E, infatti, in molti altri paesi europei succede proprio così, ma non in Italia, dove invece si fa l’esatto contrario.
Non si era ancora spento l’eco delle parole di Monti e Fornero, che ieri avevano spiegato alla loro maggioranza parlamentare che bisognava fare in fretta ed approvare il ddl sul mercato del lavoro prima del Consiglio europeo del 28 giugno, quando il Direttivo della Cgil ha votato a maggioranza, con la contrarietà di “La Cgil che vogliamo” che ha abbandonato la sala, di cancellare le 8 ore di sciopero generale decise nel marzo scorso, ma mai proclamate dalla Segretaria. In loro vece si farà, invece, una mobilitazione con Cisl e Uil in autunno, cioè fuori tempo massimo.
Ebbene, non facciamo parte di quanti assegnano allo sciopero generale poteri quasi soprannaturali, specie di questi tempi, quando scioperare rappresenta un costo economico non indifferente per molti lavoratori, ma da qui a sostenere che non bisogna nemmeno tentare di contrastare la controriforma sociale ce ne passa. Peraltro, c’è pure un precedente, cioè la riforma delle pensioni, che dimostra quanto sia deleterio non opporsi a certi provvedimenti, considerato che la truffa contro i lavoratori “esodati” è nata proprio da lì.
No, lo sciopero generale andava fatto, già molto prima e seriamente. E l’unico motivo per cui non è stato fatto e che era stata persino accreditata la favola che l’articolo 18 fosse salvo, sta nell’assoluta mancanza di autonomia dal quadro politico e dal governo da parte dei gruppi dirigenti non solo di Cisl e Uil, ma anche della Cgil. Ne dovrebbero prendere atto anzitutto quanti ultimamente si sono esercitati nel puntare il dito contro la Fiom, perché “fa politica”.
A questo punto, ci sarà ovviamente molto da ragionare e discutere, perché decisioni come queste, anche se non sorprendono, sono destinate a lasciare il segno. Comunque sia, non è solo l’ora del ragionamento, ma anche e soprattutto quello dell’azione.
Per quanto mi riguarda ritengo necessario sostenere tutte le mobilitazioni dei lavoratori e delle lavoratrici che si pongono l’obiettivo di contrastare la controriforma sociale e di costruire un’opposizione che assuma il punto di vista del lavoro come bussola. E una prima occasione c’è già venerdì, 22 giugno, con lo sciopero generale proclamata dal sindacalismo di base (a Milano, corteo con partenza alle 9.30, da L.go Cairoli).
 
Luciano Muhlbauer
 
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