Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 12/10/2006, in Movimenti, linkato 1475 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 12 ottobre 2006 (pag. Milano)
 
L’O.R.So. (Officina della Resistenza Sociale), il centro sociale a cui apparteneva Dax, non c’è più. Stamattina tra le 9.00 e le 10..00 le forze dell’ordine hanno sgomberato lo stabile di via Gola 16 a Milano, occupato sin dal 2001. Nessuno si è fatto male durante le operazioni, grazie soprattutto al senso di responsabilità degli occupanti, la cui resistenza è sempre rimasta pacifica.
Tutto si è svolto senza incidenti, certo, ma c’è poco da rallegrarsi poiché da oggi Milano ha uno spazio sociale in meno. E, purtroppo, non si tratta di un caso isolato. In questi anni diversi centri sociali sono stati sgomberati e altre iniziative del genere sono già annunciate per il prossimo futuro, come se ci fosse un disegno preciso di desertificazione sociale.
Ora i soliti noti grideranno alla vittoria, ripetendoci la litania del ripristino della legalità. Per loro i centri sociali, così come qualsiasi spazio di aggregazione indipendente, sono soltanto un fastidio, qualcosa da criminalizzare e da eliminare.
No, oggi decisamente c’è poco da gioire in una città dove i quartieri popolari, le cosiddette periferie, stanno pagando il prezzo di lunghi anni di inazione e abbandono da parte delle istituzioni, in primis il Comune di Milano. E poi, non appena un problema viene a galla, allora si fa un comunicato stampa e si annunciano più telecamere, poliziotti e vigili urbani, magari armati di manganello. A nessun amministratore nostrano sembra passare per la mente che la sicurezza e la vivibilità dei quartieri è fatta anzitutto di presenza dei servizi, di riqualificazione e di luoghi di aggregazione.
In una città così, i centri sociali sono una presenza preziosa e necessaria. Sono isole di vita e di relazioni, un piccolo antidoto alla solitudine urbana e alla disgregazione. Ecco perché il nostro auspicio è che i ragazzi e le ragazze dell’Orso presto ricostruiscano un nuovo spazio, dando seguito alle loro attività. Ed ecco perché riteniamo necessario che la sinistra milanese si svegli dal suo sonno, per fermare questa folle strategia della desertificazione e per rimettere al centro dell’agenda politica la condizione delle nostre tante periferie.
 
di lucmu (del 01/10/2006, in Movimenti, linkato 1096 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberamente di ottobre 2006
 
Il 19 luglio scorso si è concluso il processo di primo grado contro i 29 ragazzi e ragazze imputati per i fatti milanesi dell’11 marzo. 25 di loro attendevano la sentenza rinchiusi da oltre quattro mesi nelle carceri di San Vittore e Bollate. Per quasi tutti l’ipotesi di reato era pesantissima: devastazione e saccheggio, per la quale l’articolo 419 del codice penale, risalente al periodo fascista, prevede una pena detentiva tra 8 e 15 anni. Alla fine, a parte i due imputati minori, che hanno patteggiato, nove sono stati assolti e altri 18 condannati a quattro anni e messi agli arresti domiciliari.
In altre parole, una sentenza di compromesso, tutta politica, tra i principi dello stato di diritto e il sommario teorema accusatorio del Pm che ha permesso di porre fine all’incredibile e prolungata carcerazione preventiva, ma che stabilisce un pericoloso precedente. Ebbene sì, perché i ragazzi e le ragazze erano accusati non tanto di fatti specifici, bensì di “concorso morale” in devastazione e saccheggio. Cioè, erano presenti quel giorno alla manifestazione di Porta Venezia e pertanto considerati tout court colpevoli di tutto ciò che vi era accaduto. E se nove di loro sono stati assolti, ciò era dovuto al fatto che l’accusa non riusciva nemmeno a dimostrare la loro partecipazione alla manifestazione. Eppure, anche la maggior parte degli assolti aveva passato lunghi mesi in carcere, unicamente sulla base di accuse sommarie e della campagna d’odio scatenata dal centrodestra milanese.
Insomma, cerchiamo di capirci. Per il solo fatto di essere stato presente in un determinato luogo e in un determinato momento, a prescindere da quello che hai effettivamente fatto, puoi essere sbattuto in galera per quattro mesi senza processo –anche se non hai precedenti penali- e rischiare condanne a lunghi anni di pena. Se dovessimo accettare l’ingresso nella prassi investigativa e giudiziaria del nostro paese di tale uso estensivo e discrezionale della nozione di concorso, allora metteremmo a serio rischio non soltanto le fondamenta del nostro ordinamento giuridico, di cui fa parte il principio che afferma che la responsabilità penale è personale, ma la stessa libertà di manifestare.
Il precedente è tanto più pericoloso, quanto più si è diffuso ultimamente l’uso dell’accusa di concorso in diversi procedimenti contro manifestanti. Basti qui ricordare che in alcuni processi per i fatti di Genova 2001 si teorizza una inaudita “compartecipazione psichica” in devastazione e saccheggio oppure che il “concorso” ha fatto la sua comparsa persino nell’inchiesta sulla nota vicenda del treno di manifestanti anti-Tav, dove si era accomodato incredibilmente anche l’estremista di destra Borghezio. E così due esponenti di un centro sociale milanese, che non avevano nemmeno messo piede sulla carrozza dove erano avvenuti i fatti, si trovano ora indagati per “concorso”.
Ci sono dunque molti validi motivi per non considerare chiusa la vicenda, ai quali ne va aggiunto un altro, cioè che 18 ragazzi e ragazze si trovano tuttora agli arresti domiciliari, in regime di massima restrizione e dunque impossibilitati a riprendere la loro vita, i loro studi e il loro lavoro.

La sinistra milanese ci aveva messo parecchio, troppo, a denunciare l’enormità e la gravità dell’anomalia che si stava consumando. E sarebbe ora un errore ancora più grande far tornare il silenzio. L’uso discrezionale del “concorso” e il ricorso ad accuse palesemente improprie e sproporzionate colpisce fino ad oggi in maniera mirata e limitata alcune aree politiche antagoniste. Una circostanza già abbastanza grave in sé, ma nulla impedisce che in un futuro più o meno vicino possano essere estesi a qualsiasi espressione del conflitto sociale, dal corteo allo sciopero, dalle occupazioni ai blocchi stradali. E allora, forse è giunto il momento di prendere l’iniziativa anche a livello istituzionale e di invitare tutte le forze politiche ad assumersi la responsabilità di porre un freno alla deriva.

 
di lucmu (del 20/07/2006, in Movimenti, linkato 1062 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer e Mario Agostinelli, pubblicato su il Manifesto del 20 luglio 2006 (pag. Milano)
 
Un colpo al cerchio e uno alla botte. È probabilmente questa la definizione giusta per l’odierna sentenza relativa ai fatti dell’11 marzo scorso. In altre parole, una sentenza di compromesso tra i principi dello stato di diritto e quel sommario teorema accusatorio che ha tenuto ingiustamente in carcere per oltre quattro mesi 25 giovani.
Siamo sicuramente felici che oggi tutti i 25 ragazzi e ragazze possano 
uscire dalle carceri. E ancora più contenti ci rende il fatto che ci siano state nove assoluzioni, anche se queste non riescono a restituire ai giovani il tempo loro rubato da una folle carcerazione preventiva. Tuttavia, anche se è stata svelata la montatura politica alla base del procedimento, quello strano compromesso, con le sue 18 condanne a quattro anni, lascia in piedi un pericoloso precedente. Cioè, in Italia è possibile essere condannati a lunghe pene detentive senza che ci siano prove circa le responsabilità personali, ma soltanto in base al fatto che sei stato presente a una manifestazione, dove sono avvenuti dei fatti penalmente rilevanti.
Ed è questo che ci fa dire che oggi giustizia non è stata fatta e che occorre aprire nel paese e nelle istituzioni una battaglia di civiltà, per impedire l’affermarsi di una visione della giustizia subordinata alla politica. Ebbene sì, perché il ricorso ad accuse gravi e improprie, come quella di devastazione e saccheggio, per giunta in abbinamento a un generico “concorso morale”, viene ormai teorizzato in diversi procedimenti e sempre in casi di manifestazioni politiche. Se permettessimo che questa prassi giuridico-politica si estenda, allora saremmo tutti quanti corresponsabili non soltanto di minare le basi del nostro ordinamento giuridico, ma altresì di mettere a repentaglio quel fondamentale diritto democratico che è la libertà di manifestare.
 
di lucmu (del 11/07/2006, in Movimenti, linkato 993 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 9 luglio e su il Manifesto (pag. Milano) del 11 luglio 2006
 
A Milano è iniziato finalmente il processo per i fatti del 11 marzo scorso. 25 ragazzi e ragazze si trovano in carcere da ormai 120 giorni in attesa di questo momento. Un’enormità e un’anomalia senza precedenti in materia di detenzione preventiva, così come enorme e palesemente impropria è l’ipotesi di reato, cioè devastazione e saccheggio, per il quale l’articolo 419 del codice penale, risalente al periodo fascista, prevede la reclusione tra 8 e 15 anni. Anzi, c’è di peggio, poiché i ragazzi e le ragazze sono accusati non tanto di fatti specifici, bensì di “concorso morale”, una variante appena meno creativa della “compartecipazione psichica” teorizzata in alcuni processi per i fatti di Genova 2001.
Alcuni giorni fa, il 6 luglio scorso per la precisione, sono state realizzate alcune perquisizioni a Milano e Padova e consegnati almeno sette avvisi di garanzia per un lungo elenco di reati ipotizzati, tra cui rapina aggravata. Obiettivo della perquisizione: la ricerca, sette mesi dopo i fatti (sic), di una borsa che sarebbe stata sottratta all’esponente leghista Borghezio o ai suoi accompagnatori durante la nota vicenda del treno di ritorno dalla manifestazione anti-TAV di Torino. Destinatari degli avvisi: due esponenti di primo piano del centro sociale Vittoria di Milano e cinque padovani.
Al di là di ogni altra considerazione, come l’interrogativo tuttora aperto sui motivi della presenza di Borghezio tra i manifestanti, colpisce il fatto che anche in questo caso si fa un uso a dir poco allegro del concetto di “concorso”. Ebbene sì, perché i due esponenti del Vittoria, ad esempio, non hanno mai messo piede sulla carrozza dove sono avvenuti i fatti, come anche gli organi di polizia ben sanno. E se la logica è quella del concorso, cioè della corresponsabilità di tutti i passeggeri del treno, perché sono stati “scelti” soltanto sette?
Insomma, cerchiamo di capirci. Per il solo fatto di essere stato presente in un determinato luogo e in un determinato momento, a prescindere da quello che hai effettivamente fatto, puoi essere sbattuto in galera per quattro mesi senza processo, essere perquisito e indagato e, infine, rischiare condanne a lunghi anni di carcere. Se dovessimo accettare l’ingresso nella prassi investigativa e giudiziaria del nostro paese di tale uso estensivo e discrezionale della nozione di concorso, allora metteremmo a serio rischio le fondamenta del nostro ordinamento giuridico, di cui fa parte il principio che afferma che la responsabilità penale è personale, ed esporremmo la magistratura ad ogni sorta di condizionamento politico.
Fa davvero specie, e preoccupa non poco, che finora così poche voci si siano levate a segnalare la gravità di quanto avviene. Sappiamo che può essere scomodo, per carità, ma qui non stiamo mica parlando di quisquilie, bensì dei cardini dello stato di diritto e delle libertà democratiche. E allora, visto il moltiplicarsi di fatti del genere, forse è giunto il momento di prendere l’iniziativa anche a livello istituzionale e di invitare anche forze politiche più moderate ad assumersi la responsabilità di porre un freno alla deriva.
 
 
di lucmu (del 10/07/2006, in Movimenti, linkato 1062 volte)
La richiesta della pubblica accusa di pene di 5 anni e otto mesi per 25 ragazzi e ragazze e di 6 anni per altri due, formulata oggi al processo per i fatti dell’11 marzo, ci lascia francamente sconcertati.
Da quattro mesi ormai 25 dei 29 accusati sono rinchiusi nelle carceri di San Vittore e Bollate in attesa del processo. Una detenzione preventiva che più volte abbiamo definito anomala, poiché basata essenzialmente sull’accusa di “concorso”. In altre parole, a quasi tutti gli imputati viene contestato il fatto di essere stati lì quel giorno, in quel momento e, per questo solo fatto, sarebbero corresponsabili di ogni cosa avvenuta in corso Buenos Aires. Un’impostazione sommaria che oggi il Pm ha evidentemente voluto riconfermare con le sue richieste.
Non ci stanchiamo di ribadire che dovrebbe per chiunque essere motivo di preoccupazione come, in questo procedimento, si stia dimenticando quel principio fondante della nostra civiltà giuridica per il quale la responsabilità penale è personale. Se dovesse affermarsi un tale uso estensivo del concetto di “concorso morale” rischieremmo davvero di scivolare verso la giustizia sommaria e la messa in pericolo della libertà di manifestare.
Perciò ci auguriamo vivamente che la corte respinga questo impianto accusatorio sommario e che giudichi soltanto i fatti. E invitiamo nuovamente tutte le forze politiche a non nascondere la testa sotto la sabbia, poiché qui non parliamo “soltanto” della libertà di 27 ragazzi e ragazze, ma anzitutto della salvaguardia di una giustizia equa e autonoma da condizionamenti politici.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
di lucmu (del 28/06/2006, in Movimenti, linkato 1209 volte)
Comunicato di Muhlbauer, Agostinelli e Squassina O., pubblicato su il Manifesto del 28 giugno 2006 (pag. Milano)
 
Ieri pomeriggio i consiglieri regionali di Rifondazione Comunista, Mario Agostinelli, Luciano Muhlbauer e Osvaldo Squassina, hanno visitato nel carcere di San Vittore i ragazzi e le ragazze arrestati in seguito ai fatti dell’11marzo scorso.
“Abbiamo voluto fare una vista un po’ speciale - spiegano i tre consiglieri regionali del Prc - recandoci a San Vittore come intero gruppo consiliare regionale, poiché un po’ speciale è anche la carcerazione che subiscono da oltre tre mesi 25 ragazzi e ragazzi. Qui non si tratta di discutere il mezzogiorno di follia di quell’11 marzo, bensì di evidenziare un’anomalia, una disparità di trattamento: sono detenuti senza processo nelle carceri di San Vittore e Bollate dei giovani accusati in larghissima parte soltanto di essere stati presenti in piazza quel giorno. Insomma, non si erano mai visti oltre tre mesi di carcerazione preventiva per manifestazione non autorizzata.
Lungi da noi voler polemizzare con la magistratura - proseguono Agostinelli, Muhlbauer e Squassina - anche perché siamo da sempre convinti che le ragioni dell’anomalia siano da ricercarsi nel clima politico creato allora dal centrodestra, sfociato in una vera e propria campagna di criminalizzazione dei centri sociali tout court. Tutto questo senza che nessuno abbia mostrato scandalo per la sfilata nazifascista della Fiamma Tricolore oppure si sia degnato di ricordare la preoccupante serie di violenze di estrema destra contro i centri sociali, compreso l’omicidio di Dax, che ha segnato gli ultimi anni in Lombardia.
Ebbene - concludono i consiglieri - domani, mercoledì, si terrà finalmente l’udienza preliminare per gli arrestati dell’11 marzo. Auspichiamo vivamente che la magistratura sappia porre fine a questa anomalia in tempi rapidissimi e così restituire i ragazzi e le ragazze alla loro vita e al loro lavoro. Le destre cittadine, da parte loro, si astengano dall’esercitare ulteriormente pressioni politiche e di giocare al tanto peggio tanto meglio.”
 
di lucmu (del 27/06/2006, in Movimenti, linkato 1110 volte)
Ai compagni e alle compagne
del Manifesto
 
Cari e Care
 
ormai ci avevate abituati ai periodici gridi d’allarme, ma questa volta mi pare che la faccenda sia maledettamente seria. E allora ho provato ad immaginarmi come sarebbero stati questi anni senza la vostra voce, informazione e faziosità, spesso condivisa, qualche volta no, ma comunque sempre salutare. Poi ho provato ad immaginarmi anche il presente e il futuro prossimo senza di voi. È un esercizio utile che consiglio a tutti e tutte, poiché permette di scoprire istantaneamente la necessità dell’esistenza in vita del Manifesto.
Certo, un giornale non sostituisce i movimenti, le lotte e i conflitti, ma questi hanno bisogno di avere voce e di essere –ben- accompagnati. Quindi, senza qui scomodare gli alti principi della libertà di stampa, abbiamo egoisticamente e realisticamente bisogno che andiate avanti.
E se la pensiamo così, ci tocca non soltanto esprimere la solidarietà politica, che è a gratis, ma anche cacciare la lira, ognuno secondo le sue possibilità. E visto che dall’anno scorso siedo nel Consiglio regionale della Lombardia, cosa che tra l’altro aumenta le possibilità, sottoscrivo responsabilmente duemila euro.
 
Un abbraccio
Luciano Muhlbauer
 
lettera pubblicata su il Manifesto del 27 giugno 2006
 
di lucmu (del 12/05/2006, in Movimenti, linkato 1182 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 12 maggio 2006 (pag. Milano)
 
Sono passati due mesi esatti da quell’11 marzo in cui una manifestazione di protesta contro l’indecente sfilata nazi-fascista della “Fiamma Tricolore” si era trasformata in un mezzogiorno di follia. Oggi, 27 persone si trovano ancora in carcere in attesa di un processo, del quale non è stata nemmeno fissata la data.
Il problema non è il giudizio da dare di quei fatti. Quell’esplosione di violenza ha riproposto una modalità della politica rispetto alla quale non possiamo che avvertire tutta la nostra lontananza e tutta la nostra incomprensione. Il problema sta nel fatto che 27 persone stanno pagando ancora oggi un prezzo inaccettabile e smisurato, in omaggio non tanto alla legge, quanto piuttosto al clima politico avvelenato -e a tratti isterico- che si era instaurato in campagna elettorale.
Le accuse contro i 27 ragazzi e ragazze sono pesantissime, come quella di devastazione, eppure loro sono in carcere anzitutto perché erano presenti quel giorno in corso Buenos Aires, indistintamente e non per quello che ognuno di loro ha effettivamente fatto. Insomma, sembra scomparso quel principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico, per cui la responsabilità penale è personale. Pertanto, essere stati lì, aver indossato un passamontagna o aver portato una bottiglietta d’acqua è diventato indizio sufficiente per essere privati della libertà personale a tempo indeterminato.
Lungi da noi voler insegnare il mestiere ai magistrati, ma ci pare urgente e necessario ristabilire in città un clima politico più equilibrato e razionale attorno a quei fatti. Per questo e per non veder marcire in carcere inutilmente 27 ragazzi e ragazze, ci permettiamo oggi di dire che è arrivato il momento di restituire gli arrestati dell’11 marzo alla loro vita e al loro lavoro. E ci permettiamo altresì di invitare quella tanta parte della città, rimasta finora in silenzio, a fare altrettanto.
 
di lucmu (del 16/03/2006, in Movimenti, linkato 1093 volte)
Comunicato di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 16 marzo 2006 (pag. Milano)
 
Le dichiarazioni dell’assessore regionale alla sicurezza, Buscemi, sui centri sociali sono inaccettabili. Ancora una volta si usano i fatti di sabato a Milano per cercare di delegittimare una componente importante e preziosa della città. Secondo Buscemi, i centri sociali non avrebbero gli stessi diritti dei “cittadini normali”. Ma l’ha mai visto lui un centro sociale? E ha mai incontrato i tanti ragazzi e le tante ragazze che animano e frequentano queste realtà, in una città che offre sempre meno spazi di aggregazione?
I fatti di sabato sono gravi e il nostro partito li ha già condannati. Ma la campagna scatenata dal centrodestra che punta a criminalizzare tout court i centri sociali e ne chiede la chiusura forzata ha decisamente passato il limite.
Occorre davvero abbassare i toni e smetterla con le strumentalizzazioni. Non è accettabile che in cambio di un pugno di voti si cerchi di trasformare la campagna elettorale in un campo di battaglia. Ci saremmo aspettati che l’assessore Buscemi riuscisse ad essere diverso dall’assessore Manca. Ma evidentemente ci siamo sbagliati.
 
di lucmu (del 10/03/2006, in Movimenti, linkato 1123 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Guerre&Pace di marzo 2006
 
Nella sua sesta edizione il Forum sociale mondiale si è fatto policentrico. Non più un luogo unico a livello mondiale dunque, ma tre forum in paesi di tre diversi continenti: Bamako in Mali (19-23 gennaio), Caracas in Venezuela (24-29 gennaio) e Karachi in Pakistan (presumibilmente a marzo). Ci sarà tempo per fare un bilancio complessivo, ma sicuramente vi era la necessità di innovare un format che rischiava di essere un po’ ripetitivo e che ormai faticava a mettersi in sintonia con l’estensione geografica del processo. I maliziosi potrebbero poi aggiungere che forse taluni erano interessati a diluire il prevedibile impatto politico di un forum troppo di sinistra, come quello di Caracas.
Comunque sia, e mettendo in questa sede da parte considerazioni politiche più generali sul processo dei forum, l’appuntamento di Bamako si annunciava senz’altro come quello più innovativo e meno scontato, poiché si trattava di una autentica prima volta. Infatti, due anni fa, con il Fsm di Mumbai, il processo valicò i confini euro-latinoamericani per aprirsi ai movimenti asiatici, anzitutto a quelli indiani, ma l’Africa continuava fino ad oggi a rimanere ai margini estremi. Un problema di non poco conto, poiché questo significava in qualche modo emulare da sinistra e dal basso un’esclusione già decretata dal mercato mondiale liberista e dai potenti della politica globale. E un problema, peraltro, di non facile risoluzione, visto che i forum funzionano e acquisiscono senso politico laddove c’è protagonismo di movimenti sociali, mentre il continente africano è in larga parte caratterizzato dalla debolezza delle sue società civili o meglio, delle sue espressioni organizzate.
La decisione di tenere il Fsm del 2007, di nuovo unificato, nella capitale keniota, Nairobi, è stata pertanto coraggiosa e lungimirante. E in questo senso il forum di Bamako assumeva la funzione di apripista. Per tutti questi motivi si trattava di un vero e proprio forum di frontiera, difficilmente paragonabile agli appuntamenti portoalegrini. Difatti, non vi erano grandi palchi e grandi eventi politici, ma piuttosto la meno spettacolare costruzione di relazioni negli interstizi. Non vi si trovava tanto la prosecuzione –o la replica…- di dibattiti già conosciuti, ma piuttosto l’apertura di nuovi fronti politici, come quello delle migrazioni, finora rimasti poco più che enunciazioni nei vari forum sociali mondiali.
Questa diversità del forum di Bamako lo ha reso politicamente prezioso, ma al contempo gli ha negato la luce dei riflettori. I grandi media lo hanno sostanzialmente ignorato e anche la presenza della stampa italiana si è limitata ai soliti noti, cioè a Liberazione, il Manifesto e Carta. Gli stessi movimenti europei hanno in parte sottovalutato l’appuntamento, a giudicare dalle presenze e dalle assenze. Se escludiamo la delegazione francese, presente in maniera plurale e con oltre mille persone, in virtù dell’appartenenza del Mali al mondo francofono, il resto dell’Europa non ha brillato particolarmente per quantità e pluralità. Dall’Italia vi era una partecipazione forse superiore alle aspettative, quasi cento delegati, ma molte organizzazioni e movimenti erano del tutto assenti.
Non è facile raccontare il forum di Bamako nel suo insieme. Anzitutto per un fatto materiale, cioè a causa della sua dispersione in dieci distinti spazi tematici; conseguenza non tanto di scelte politiche, ma dell’effetto combinato della scarsità delle infrastrutture cittadine e dei mezzi finanziari degli organizzatori. Una frammentazione dei luoghi di discussione, ulteriormente accentuata dalle difficoltà di trasporto nella capitale maliana, che ha finito per limitare non poco la mobilità, la comunicazione e la contaminazione all’interno del territoire social mondial. Esclusa la manifestazione di apertura, a cui hanno partecipato 7mila persone, vi è stata dunque poca possibilità di incontro tra i circa 30mila partecipanti.
Una seconda difficoltà di orientamento -per la grande maggioranza degli europei, si intende- era rappresentata dall’intelaiatura sociale e politica del forum. In America Latina, Europa e India eravamo infatti abituati a confrontarci anzitutto con movimenti sociali, organizzazioni sindacali e, anche se ufficialmente non doveva essere così, con forze politiche. Se fossimo stati in Sudafrica, sarebbe stato uguale, ma appunto, il resto dell’Africa è in gran parte un’altra cosa e lo sicuramente il Mali, paese di quella fascia sub-sahariana a cui il capitalismo liberista concede unicamente lo sviluppo della povertà.
Tutto ciò ha comportato il co-protagonismo di altri soggetti, come le Ong o delle personalità che di fatto svolgono un ruolo da “referente” socio-politico, come era il caso dell’ex-Ministra della Cultura maliana, Aminata Traoré. Da sottolineare in particolare il ruolo svolto dalle organizzazioni femminili, decisamente superiore rispetto a quanto avvenuto negli altri forum. Non solo i seminari organizzati dalle donne erano sempre affollati e partecipati, ma vi era una presenza protagonista un po’ ovunque. Forse l’immagine più fedele l’ha fornita la composizione di una riunione di sindacati africani: la platea era affollata da maschi, ma al tavolo della presidenza quattro su sei erano donne.
Beninteso, non è che mancassero movimenti sociali e sindacati –e nemmeno forze politiche-, ma nel loro insieme non svolgevano il tradizionale ruolo determinante. Allo stesso tempo, quella composizione del forum testimonia l’esistenza di soggetti organizzati delle società civili africane, con i quali è possibile avviare un percorso di costruzione di relazioni, riflessioni e azioni.
A questo punto ci preme però sottolineare due assi politici che hanno attraversato tutto il forum e che rappresentano in realtà i due nodi strategici per il futuro del processo in Africa. La relazione tra africani e quella tra africani e europei.
Il primo asse ha visto delle discussioni intense in diversi seminari e ha toccato due ordini di problemi, tra di loro strettamente intrecciati. Ovvero, la necessità di avviare la costruzione di una rete di soggetti africani capaci di sostenere il percorso verso Nairobi 2007 e l’idea che da quella rete debba nascere una Carta dell’unità e del futuro africani.
Discussione complessa e ambiziosa, il cui punto di partenza è costituito dalla domanda “cos’è che unisce noi africani?”. Infatti, al di là degli stanchi stereotipi che spesso si aggirano dalle nostre parti, non vi è nel continente la percezione di un’identità africana, ma piuttosto quella delle differenze. C’è l’Africa occidentale, quella orientale, quella del sud e quella del nord. C’è quella francofona e quella anglofona, vi sono religioni, culture, lingue e condizioni economiche distinte e distanti, per limitarci soltanto alle macro-differenze. Insomma, difficile trovare un cittadino del Marocco e uno del Burkina Faso che pensano di appartenere allo stesso mondo.
Il problema ha dunque natura squisitamente politica, cioè la definizione dell’unità dei popoli africani nel rispetto delle diversità e in relazione alla condizione comune di sfruttamento e oppressione e alla conseguente necessità di costruire alternative. Inevitabile dunque partire dalla rivisitazione critica della Carta di Arusha, messa a punto nel 1990 da una rete di movimenti sociali africani e incentrata sulla resistenza ai piani di aggiustamento strutturale che in quella epoca le istituzioni finanziarie internazionali imponevano a paesi africani. Ora si tratta di partire dalle mutazioni intervenute sul piano continentale e mondiale, cioè, per dirla con il documento finale prodotto dalla discussione: “la fine della guerra fredda e l’affermazione dell’egemonia americana, la globalizzazione liberista e il suo impatto disastroso sulle nostre economie e società, la moltiplicazione dei conflitti e delle guerre per l’accaparramento delle risorse, la mercificazione e la privatizzazione della società, l’indebolimento di certi movimenti sociali, la nascita dell’Unione Africana”.
Vi è stata quindi ampia convergenza tra le realtà africane presenti, poiché, per usare le parole di uno degli esponenti intervenuti, “per cacciare una nuova bestia non serve un cane vecchio e stanco, ma ne occorre uno nuovo”. Il percorso concordato prevede consultazioni a livello nazionale e continentale da realizzarsi nel corso del 2006 e un’assemblea “di convalida” al Fsm di Nairobi l’anno prossimo.
Per quanto riguarda la relazione tra movimenti europei e africani, si trattava invece di esplorare un terreno largamente vergine. Molti seminari erano occasione per mettere in comunicazione i movimenti dei due continenti, dalle donne alla questione dei beni comuni, l’acqua in primo luogo, ma gli incontri forse più fecondi si sono realizzati nei seminari dedicati alle migrazioni. Infatti, per prima volta i movimenti e le organizzazioni europei che si battono per i diritti dei migranti –in questo caso soprattutto francesi, italiani (Arci, SinCobas, Cgil, Rifondazione Comunista) e dello stato spagnolo- hanno discusso direttamente con degli interlocutori nei paesi d’origine. E non solo in termini generali, ma anche concreti e specifici, dato che vi era una significativa presenza nel forum di associazioni di migranti espulsi dall’Europa. Un reticolato associativo, quest’ultimo, che ha costituito per gli europei un’autentica scoperta. Nel Mali, per esempio, ne esiste una “storica”, fondata nel 1996 da espulsi dalla Francia, mentre un’altra è stata formata recentemente dai maliani respinti a fucilate nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla.
I numerosi e molto partecipati seminari sulle migrazioni, ubicati tutti nel Palais des Congrés di Bamako, si sono presto trasformati in una sorta di assemblea permanente, dove ogni seminario, a prescindere dal suo titolo originario, finiva per discutere le medesime questioni. Emergeva, insomma, una diffusa necessità di definire relazioni e azioni comuni. In altre parole, si trattava di capire come costruire un contraltare alla cooperazione imposta dall’UE a molti governi africani, specie del nord, al fine di gestire la sua politica repressiva in materia di immigrazione e di cui sono triste e vergognoso esempio i fatti di Ceuta e Melilla o la delocalizzazione dei centri di detenzione per migranti irregolari (accordo Berlusconi-Gheddafi docet!).
Un confronto a più voci e dai più luoghi che si è tradotto infine in un Appello per il rispetto e la dignità dei migranti, con il quale le organizzazioni firmatarie, europee e africane, si impegnano su tre direttrici di lavoro: una rete internazionale di scambio di informazioni e di azione comune in relazione alle espulsioni coatte; un “asse tematico” dedicato alle migrazioni da costruire nel Fsm di Nairobi; una giornata internazionale di mobilitazione contro la politica repressiva e il diritto speciale applicato ai migranti in Europa e per la chiusura dei centri di detenzione e la libertà di circolazione.
Come nel caso delle relazioni tra movimenti africani, anche sul terreno di quelle euro-africane, nella frontiera di Bamako c’è stata dunque una semina. Certo, tutto questo è molto meno spettacolare dei grandi eventi del movimento e dei forum di questi anni, ma sicuramente non meno importante e prezioso per la costruzione di un’alternativa globale a quella rapina a mano armata, chiamata globalizzazione liberista. Anzi, forse è particolarmente importante proprio per i movimenti italiani ed europei, per i quali continuare a ignorare l’Africa sarebbe testimonianza di una miopia strategica imperdonabile.
A Bamako è stato dunque fatto il primo passo. Il resto è nelle nostre mani, dei movimenti europei e africani. Si tratta di non perdere l’occasione offerta da questi dodici mesi che ci separano dall’appuntamento di Nairobi del 2007, passando ovviamente per il Forum sociale del Magreb.
 
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