Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberamente di gennaio-febbraio 2007
Porrajmos, è un termine poco conosciuto, anche a sinistra, che indica la persecuzione e lo sterminio delle popolazioni sinti, rom e camminanti attuato dal Terzo Reich. Nel campo di concentramento di Auschwitz esisteva una sezione specifica riservata a loro, lo Zigeuner Lager. Non si sa con esattezza quante fossero le vittime dell’olocausto zingaro, perché le ricerche storiche vi hanno dedicato pochissima attenzione, ma le stime vanno da un minimo di 500mila fino ad oltre un milione di uomini, donne e bambini.
Ci pare utile e necessario partire da questo promemoria, per ricordare che i rom e i sinti rappresentano una storica minoranza europea –e italiana-, così come storica è l’ostilità e la discriminazione che subiscono. Attualmente sono oltre 10 milioni i rom e sinti che vivono negli stati membri dell’UE. Insomma, non si tratta di “invasori” giunti dal nulla, anche se vengono trattati come se fossero un corpo estraneo, con l’aggiunta dell’accusa di essere intrinsecamente ladri e delinquenti. Dalle nostre parti probabilmente la pensa così la maggioranza dei cittadini, compresa buona parte degli elettori di sinistra.
Oggi nell’area milanese la situazione si è fatta critica, come ha evidenziato inequivocabilmente l’infamia di Opera, iniziata con il pogrom pre-natalizio e finita con la cacciata delle famiglie rom. A Opera si è definitivamente oltrepassata la soglia di allarme, poiché i razzisti della Lega e di An sono riusciti a coagulare consenso popolare, a imporre la loro volontà a un Prefetto inetto e, soprattutto, a portare a casa una vittoria. D’ora in poi, e non ci vuole molto per capirlo, tenteranno di replicare il modello ovunque.
Ma come si è potuti arrivare a questo punto? Certo, c’è un clima generale di ostilità verso il “diverso” e le destre lo cavalcano da tempo, amplificandolo. E il “nomade” è indubbiamente l’obiettivo più facile. Ma vi è anche una base materiale sulla quale si innestano le campagne no-rom, costituita da una prolungata negligenza da parte delle istituzioni e, soprattutto, dal predominio della filosofia del “campo nomadi”.
In fondo, il paradosso dovrebbe saltare agli occhi. Cioè, popolazioni che in larghissima parte e da tempo non praticano più il nomadismo vengono riunite in campi “di sosta” e “di transito”. Vari organismi dell’UE hanno ripetutamente denunciato questa pratica tutta italiana, sollecitando un deciso cambio di rotta. Citiamo qui soltanto l’ultimo richiamo europeo in ordine di tempo, quello dell’ECRI pubblicato il maggio scorso, che parla di “relegazione forzata di molti Rom e Sinti in campi nomadi” e raccomanda politiche che si pongano l’obiettivo “dell’eliminazione dei campi nomadi”.
Tuttavia, in Italia poco o nulla si è mosso finora. Negli anni Ottanta molte regioni adottarono leggi, ispirate alla “tutela delle popolazioni nomadi”, ma che contribuirono all’istituzionalizzazione dei campi. Anche la Lombardia ne ha una, ma non la applica, in base all’edificante principio del “neanche un soldo ai rom”. E così a Milano e in tutta la regione i comuni istituivano “campi”, ma senza le azioni positive e le risorse finanziarie della legge regionale.
Nel corso degli ultimi due decenni la situazione si è aggravata con l’arrivo di nuove popolazioni rom in fuga dal conflitto nell’ex-Jugoslavia e dalla situazione di miseria ed esclusione che vivono in Romania. A Milano e dintorni i campi esistenti sono cresciuti e un po’ ovunque sono sorti nuovi campi abusivi. Le istituzioni, in primis il comune capoluogo, sono rimaste sostanzialmente a guardare, limitandosi a qualche comunicato stampa di fuoco, uno sgombero qui e là e poi tutto avanti come prima. Il risultato di tale non politica, chiamata da taluni “tolleranza zero”, è sotto gli occhi di tutti: i cosiddetti “campi” altro non sono che dei ghetti e delle baraccopoli, dove predomina il degrado urbano e sociale.
La verità è che i “campi” e il degrado che li circonda sono figli di una politica sbagliata e non del cultura rom. In alcune regioni italiane, come in Toscana, se ne sono accorti e ora stanno sperimentando delle politiche alternative. In Lombardia, invece, non se ne può nemmeno parlare. Anzi, qualche dirigente milanese dei Ds ha addirittura sentito il bisogno di una pubblica autocritica del “buonismo” della sinistra. Come se a Milano ultimamente avesse governato la sinistra…
Opera ci dice che occorre reagire in fretta, anzitutto contro le ignobili e pericolose campagna d’odio di Lega e soci, ma soprattutto trovando il coraggio e la lungimiranza di definire una politica di fuoriuscita dalla logica dei “campi”.
Articolo di Luciano Muhlbauer e Osvaldo Squassina, pubblicato su il Manifesto del 21 febbraio 2007 (pag. Milano)
Oggi il Consiglio Regionale ha deciso di affrontare con urgenza la questione della proroga per l’entrata in vigore della legge regionale sui phone center (l.r. 3 marzo 2006, n.6), prevista per fine marzo. La competente commissione consiliare avvierà dunque la discussione entro e non oltre la prima settimana di marzo.
In Lombardia esistono quasi 3.000 phone center, di cui ben 700 si trovano a Milano. Ebbene, la grandissima maggioranza di loro rischia la chiusura immediata qualora tra un mese entrasse in vigore la legge.
Rifondazione Comunista non l’aveva votata un anno fa, perché riteniamo inaccettabile e illegittimo che vengano stabilite regole speciali per un determinato settore commerciale, semplicemente perché utilizzato da cittadini immigrati. Ma, come se non bastasse, quella legge si è dimostrata anche inapplicabile. Infatti, un phone center che volesse mettersi in regola con la legge dovrebbe, in buona parte dei casi, trovarsi una nuova sede, poiché non dappertutto si possono fare le opere edilizie richieste. Ma, e sta qui l’inghippo, l’articolo 7 vieta ogni ‘rilocalizzazione’ o nuova apertura fino all’adozione, da parte del comune di competenza, di una serie di atti specifici di Pgt. Ovviamente, gran parte dei comuni lombardi non l’ha fatto.
Oggi, non abbiamo preteso di ridiscutere la legge, ma semplicemente di compiere un atto di buon senso e di buon governo, evitando che i ritardi burocratici della pubblica amministrazione si scarichino sui cittadini più deboli, attraverso un’ondata di chiusure forzate.
Non è stato possibile far votare una proroga nell’odierna seduta, ma il fatto che la maggioranza abbia accettato di riaprire la discussione rappresenta un piccolo passo avanti che noi valutiamo positivamente.
Rifondazione Comunista, insieme a tutta l’Unione, aveva chiesto a Regione Lombardia di prorogare l’entrata in vigore della legge regionale sui phone center, prevista per il 22 marzo prossimo. Era una proposta di buon senso e di buon governo, ma la maggioranza di centrodestra si è compattata attorno all’estremismo xenofobo della Lega Nord, respingendo ogni ipotesi di proroga in sede di IV Commissione consiliare, nella giornata di ieri.
E’ di poche ore fa, invece, la notizia che il TAR di Brescia ha accolto il ricorso di un gestore di phone center, al quale era stata imposta la chiusura in base alla legge regionale. Secondo il tribunale, infatti, ci sono dubbi di legittimità costituzionale ‘nella parte in cui regola in modo dettagliato l'attività in questione imponendo ai centri... già operanti l'onere di adeguamento delle strutture in un termine non ulteriormente prorogabile’.
Questa sentenza dà ragione a quanti, noi compresi, da tempo sostengono che la legge regionale impone delle norme speciali e discriminatorie a un settore commerciale, soltanto perché gestito e frequentato prevalentemente da cittadini immigrati. Chiediamo dunque ancora una volta che la parte moderata del centrodestra regionale torni alla ragione, sottraendosi al ricatto dei razzisti della Lega Nord, il cui unico obiettivo è la chiusura massiccia dei phone center lombardi.
Martedì 13 marzo il Consiglio regionale affronterà definitivamente la questione della richiesta di proroga. C’è ancora tempo per modificare l’insana decisione presa ieri in Commissione. Noi ci impegneremo in tal senso, ma se il centrodestra lombardo dovesse confermarsi ostaggio della Lega, allora saremo pronti a sostenere tutti i ricorsi contro una normativa illegittima e discriminatoria.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
qui sotto puoi scaricare la sentenza del TAR sezione di Brescia
C’è davvero da chiedersi dove arriveremo di questo passo. L’Assessore regionale al Territorio, Boni, sembra essersi ormai completamente dimenticato delle sue funzioni e responsabilità istituzionali, per dedicarsi a tempo pieno alla campagna politica della Lega contro gli immigrati.
Infatti, l’emendamento alla legge regionale sul governo del territorio (l.r. n.12), annunciato oggi alla stampa, ma non ancora alla competente commissione consiliare, ha il palese e unico obiettivo di impedire ai cittadini di fede islamica di poter esercitare la libertà di culto. Anzi, cerca in maniera particolare di impedire la costruzione di un nuovo centro culturale in via Padova a Milano e lo spostamento della moschea di viale Jenner, che da anni tenta di trasferirsi in luogo più idoneo, senza però riuscirci a causa del veto degli amministratori milanesi.
Già un anno fa, in occasione di un’altra modifica della legge 12, l’assessore Boni aveva imposto una prima norma contro i luoghi di culto. Quella modifica e l’odierno emendamento sono palesemente illegittimi, in quanto violano i principi costituzionali in materia di libertà religiosa. E sono stati sempre l’assessore Boni e la Lega Nord a guidare la crociata per la chiusura massiccia dei phone center, che ha portato alla poco edificante seduta del Consiglio regionale di martedì scorso.
Evidentemente, la Lega Nord, in forte crisi di consenso nelle aree metropolitane, sta cercando di risalire la china, caratterizzandosi sempre di più come forza xenofoba. Una sorta di lepenismo in salsa padana, insomma. Tutto ciò è preoccupante in sé, ma diventa ancora più inaccettabile se la campagna di inciviltà e di odio viene condotta abusando con regolarità delle istituzioni e delle leggi.
Facciamo ancora una volta appello alla coscienza democratica e civile delle forze moderate del centrodestra lombardo perché pongano fine a questo scempio, che ormai sta superando ogni limite. Boni scelga se fare l’assessore o il Le Pen padano. Tutte e due le cose insieme non sono possibili.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Stanno arrivando le prime segnalazioni di chiusure forzate di phone center in base alla legge regionale entrata in vigore oggi. Per ora si tratta di notizie frammentarie provenienti da fuori Milano. Ma cresce la preoccupazione anche in città, dove si trovano quasi 700 centri di telefonia fissa, poiché le dichiarazioni provenienti dal Comando della Polizia locale e dall’Assessore alle attività produttive di Milano, Maiolo, non fanno purtroppo sperare in bene.
Chiediamo ancora una volta un semplice atto di buon senso e buon governo. È inutile, e anche un po’ ipocrita, invocare il rispetto della legalità, quando il primo a non rispettare la legge regionale in questione è stato il Comune di Milano, insieme al restante 85% dei comuni lombardi.
Infatti, l’articolo 7 della legge regionale 6/2006 ha imposto ai Comuni di realizzare atti di governo del territorio al fine di individuare le aree dove i phone center possono essere aperti. In assenza di tali provvedimenti è vietata non solo l’apertura di nuovi centri, ma anche la rilocalizzazione di quelli esistenti. In altre parole, un phone center milanese che nell’ultimo anno avesse voluto adeguarsi alle norme restrittive delle legge e che per fare questo avesse dovuto spostarsi in una nuova sede, semplicemente non poteva farlo a causa delle inadempienze del Comune. E non si tratta di casi isolati, visto che il rispetto della normativa regionale comporta spesso l’impossibilità di mettersi in regola negli spazi attualmente occupati.
Prima di chiedere agli altri di adeguarsi alla legge, la pubblica amministrazione dovrebbe fare il primo passo, soprattutto quando le proprie inadempienze non vengono pagate in prima persona, ma da altri. Insomma, un Comune non rispetta la legge e a pagare il conto è il phone center che viene chiuso! C’è qualcosa di profondamente immorale in tutto questo.
Le intemperanze xenofobe di Salvini, in cerca di pubblicità in vista del 26 marzo, le comprendiamo, anche se le riteniamo aberranti. Ma auspichiamo vivamente che il sindaco Moratti e l’assessore Maiolo non vogliano seguire la sua strada e che si adoperino per fermare questo gioco al massacro, mettendo in campo la politica, il buon senso e la ragionevolezza.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Il gruppo consiliare regionale di Rifondazione Comunista aderisce e sarà presente alla manifestazione convocata per domani a Milano dal “Comitato promotore contro la legge regionale n.6”.
Non avevamo votato la legge regionale n. 6/2006 un anno fa, perché la ritenevamo una legge speciale, per alcuni aspetti di dubbia legittimità costituzionale, orientata non tanto a regolamentare un settore commerciale, ma piuttosto a provocare la chiusura massiccia dei phone center. Peraltro, il dibattito politico e istituzionale era nato sotto la spinta della Lega Nord e di An, i quali sostenevano la necessità di una legge ad hoc perché individuavano nei phone center un “ luogo di aggregazione di immigrati ” e quindi di per sé meritevole di controlli e norme particolari.
Un anno dopo, le nostre obiezioni e posizioni hanno trovato conferma nella realtà. La legge regionale è semplicemente inapplicabile, se non al prezzo dell’eliminazione forzosa di un intero settore commerciale e con esso di un prezioso servizio per i lavoratori immigrati presenti nella nostra regione. Infatti, non soltanto il 90% dei quasi 2.700 phone center risultano non in regola con la nuova norma restrittiva, ma anche l’85% dei Comuni lombardi, compresa Milano, non ha adempiuto agli obblighi imposti dalla legge regionale. Lo stesso TAR della Lombardia, sezione di Brescia, accogliendo un ricorso dei gestori di phone center, ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale.
Di fronte a questa situazione, Rifondazione Comunista e tutta l’Unione avevano chiesto in Consiglio regionale il rinvio di un anno dell’entrata in vigore della legge, al fine di evitare il precipitare della situazione e di poter riesaminare con serenità il merito della legge, di concerto con gli enti locali e le associazioni di categoria. Una proposta di buon senso e di buon governo, ma ciononostante respinta dalla maggioranza formigoniana sotto il ricatto leghista.
Infine è stata gettata la maschera. Non si trattava e non si tratta di regolamentare un’attività commerciale, bensì di muovere guerra a dei luoghi, “colpevoli” di essere gestiti e frequentati anzitutto da cittadini immigrati. Un provvedimento insensato, immorale e intriso di demagogia razzista, che assesta un nuovo colpo alla convivenza nella regione che da sola concentra un quarto dell’immigrazione nazionale.
I consiglieri regionali di Rifondazione sostengono tutte le opposizioni alla legge xenofoba sui phone center e per questo domani saranno al fianco dei manifestanti. E rinnoviamo il nostro appello al buon senso e alla ragionevolezza, in primis al Comune di Milano, perché le istituzioni non si arrendano al razzismo della Lega Nord.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 6 aprile 2007 (pag. Milano)
Hanno iniziato i leghisti con le ronde anti-rom e oggi scendono in campo anche i primi post-fascisti di An, mentre scalpitano numerosi pure esponenti di Forza Italia. La Casa delle Libertà meneghina, visti l’avvicinarsi delle elezioni amministrative di maggio e i tanti fallimenti collezionati dalla Giunta Moratti, sposta il suo baricentro sempre più a destra, dove regna sovrana la demagogia xenofoba.
Demagogia e giochi sporchi, di questo si tratta. E per capirlo è sufficiente riepilogare la triste odissea della settantina di rom, di cui trenta bambini, sgomberati da via Ripamonti in autunno, senza che qualcuno avesse pensato a sistemazioni alternative. Così se ne era fatto carico il solito don Colmegna, prima che il Sindaco di Opera offrisse la sua disponibilità. Ma a questo punto, apriti cielo, e le stesse forze politiche, cioè Lega e An, che qui urlavano “fuori i rom da Milano”, passavano al pogrom prenatalizio di Opera. Tende della protezione civile incendiate e oltre un mese di presidio, insulti e minacce hanno alla fine portato alla cacciata dei rom, che così sono ritornati in città. Per loro si parla di Parco Lambro, in base a un accordo condiviso anche dalla Giunta Moratti, ma i soliti noti, cioè Lega e An, sono già pronti al replay.
Il gioco è scoperto, ma si fa sempre più pericoloso, poiché il precedente di Opera ha consegnato all’estrema destra la sensazione di impunità. E così le “passeggiate” ad uso e consumo di giornali e televisioni rischiano di trasformarsi in nuovi atti di violenza di stampo razzista. Rifondazione Comunista, ai tempi di Opera, aveva denunciato con forza l’accondiscendenza delle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico. Forse ora lo stesso Prefetto Lombardi si accorge degli effetti perversi degli errori fatti in quella occasione. Ma non bastano più le dichiarazioni ai media ed è giunto il momento dei fatti, cioè di un messaggio chiaro e deciso contro questa folle corsa al nuovo squadrismo. I rom sono esseri umani come tutti quanti e quindi hanno il sacrosanto diritto di vedersi tutelate dalle autorità le loro libertà civili e la loro sicurezza personale.
Ci sarebbe piaciuto appellarci non al Prefetto, ma alla politica. Ci pare, tuttavia, che le involuzioni demagogiche di chi amministra Milano da oltre 15 anni non lascino molto spazio. Anzi, le baraccopoli e il degrado cresciuti in questo lungo periodo di malgoverno della città, alla fine sembrano fare comodo a taluni politici senza scrupoli. Meglio scaricare le proprie responsabilità sullo sfigato di turno, facendo finta di non sedere a Palazzo Marino. Oggi tocca ai rom, compresi i bambini. Domani chissà.
Gli scontri di via Sarpi tra centinaia di cittadini cinesi, in prevalenza giovani, e forze dell’ordine sono l’ennesimo campanello d’allarme per una Milano dove i momenti di conflitto tra istituzioni cittadine e immigrati si stanno moltiplicando in maniera preoccupante.
Il fatto che questa volta sia avvenuto nella chinatown milanese, coinvolgendo una comunità poco propensa alla protesta pubblica, dovrebbe far finalmente riflettere. In fondo, poco importa la scintilla che ha dato il via alla ribellione di massa, ma conta invece il clima di tensione che si era creato nelle ultime settimane. Infatti, dopo lunghi anni di crescita del commercio all’ingrosso in zona, l’amministrazione comunale ha all’improvviso deciso di cambiare le regole del gioco, facendo quindi piovere quotidianamente le multe. Ovvio che i commercianti e i residenti cinesi si sentano a questo punto presi di mira in quanto comunità.
Un atteggiamento cieco da parte del centrodestra milanese, che ripropone quanto avviene, in maniera più estremistica, rispetto ad altre comunità immigrate. E così, contro i rom si organizzano le ronde, contro i luoghi di preghiera islamici si scatenano le campagne e ai phone center viene imposta la chiusura forzata in base a una legge regionale insensata e discriminatoria. E l’elenco potrebbe continuare.
Certo, ogni conflitto ha la sua storia e le sue specificità, ma ogni volta si ripresenta la medesima questione, cioè il paradosso di una città e di una regione dove si concentra gran parte dell’immigrazione nazionale, ma dove manca completamente una politica che possa favorire la convivenza e l’inclusione. Di conseguenza, spesso, l’unico punto di contatto tra istituzioni e cittadini immigrati avviene sul terreno dell’ordine pubblico.
Se non si cambia politica in fretta, si rischia davvero di costruire i presupposti per un futuro di conflitti ben più aspri e radicali. Questo potrebbe far felice sicuramente le forze politiche che hanno sposato la xenofobia militante, come la Lega e parte di An, ma siamo certi che non sia nell’interesse della città né dei milanesi, autoctoni o immigrati.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 14 aprile 2007 (pag. Milano)
Era prevedibile che, dopo la rivolta e gli scontri nella “chinatown” milanese, il centrodestra meneghino scatenasse tutti i soliti luoghi comuni rispetto all’immigrazione in generale e a quella cinese in particolare, a partire dalla minestra riscaldata del “non vogliono integrarsi”, e soprattutto che cercasse di scaricare le responsabilità di quanto avvenuto sulla comunità cinese di via Sarpi, accusandola apertamente di premeditazione.
Quello che invece stupisce è che praticamente nessuno, compresi molti dirigenti dell’Ulivo milanese, abbia voluto porre alcune semplici, ma dirompenti, domande ai partiti del centrodestra.
Il problema non è capire se la zona attorno a via Sarpi, dove l’insediamento cinese risale agli inizi del Novecento, sia adeguata o meno ad ospitare il commercio all’ingrosso. Infatti, chiunque sapeva e sa che nel quartiere in questione le operazioni di carico e scarico non possono avvenire nel rispetto dei regolamenti esistenti, trattandosi di una zona storica della città. Ma è qui che casca l’asino, poiché l’espansione del commercio all’ingrosso è un processo in atto da un decennio, e le amministrazioni di centrodestra hanno sempre rilasciato le licenze con liberalità e mai multato nessuno. In altre parole, i commercianti cinesi sono sempre stati in buoni rapporti con il Comune e considerati perfettamente in regola. Come mai, allora, tutto ciò è diventato all’improvviso irregolare?
Ma c’è ben altro, visto che il Comune di Milano non si è limitato ai buoni rapporti, ma ha ripetutamente finanziato progetti di integrazione destinati al quartiere cinese. In particolare, molti fondi sono transitati attraverso l’associazione italo-cinese ALKEOS, legata strettamente ad alcuni settori di Alleanza nazionale. Chiediamo quindi al Sindaco Moratti e al Vicesindaco De Corato di spiegare alla cittadinanza quanti fondi comunali sono stati stanziati in questi anni, come sono stati impiegati, chi sono i beneficiari e quali sono i risultati ottenuti.
Insomma, a noi pare che tutta questa vicenda puzzi e che la cosa più insensata e ipocrita che si possa fare è mettere sul banco degli accusati la comunità cinese, che non a torto si sente oggi attaccata in quanto tale. Se c’è qualcuno che ha fomentato e organizzato gli scontri di ieri, questo non va cercato tra i cinesi, ma tra coloro che governano la città da 15 anni e che oggi cercano di mascherare i loro fallimenti dichiarando guerra agli immigrati presenti in città.
Il susseguirsi incessante di proclami sulla sicurezza, le ronde anti-rom, le campagne contro le moschee, l’ondata di chiusura dei phone center e, ora, lo scontro a suon di multe e manganelli con i cinesi, stanno lì a dimostrarlo. Il clima politico e civile che ne consegue si fa sempre più insostenibile e pericoloso. E che poi stamattina qualche sedicente gruppo “cristiano” abbia pensato bene di dare fuoco a un centro culturale islamico può stupire soltanto i ciechi e i sordi.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Guerre&Pace di maggio 2007
Il programma elettorale dell’Unione ci aveva consegnato un linguaggio ambiguo rispetto a molte questioni politiche decisive. E così, il terrificante termine “superamento” ha fatto il suo ingresso nell’arena politica. Il fatto che in materia di immigrazione si parlasse invece esplicitamente di “abrogazione” della Bossi-Fini aveva suscitato non poche aspettative nel mondo dell’associazionismo migrante e antirazzista. Eppure, ad un anno di distanza dalle elezioni politiche, l’impianto normativo definito dal governo Berlusconi, compresa la scandalosa e truffaldina convenzione con le poste, è sostanzialmente immutato e dunque tuttora vigente.
Anzi, la dilatazione dei tempi sembra essere diventato uno dei leitmotiv. La nuova legge sulla cittadinanza è impantanata nelle aule parlamentari, della legge organica sul diritto d’asilo –di cui l’Italia è semplicemente sprovvista- non si vede traccia e il provvedimento principe, cioè quello che dovrebbe porre fine alla razzista Bossi-Fini e che è conosciuto sotto il nome ddl Amato-Ferrero, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri soltanto il 24 aprile scorso, dopo numerosi rinvii e aggiustamenti.
Tuttavia, la legge non cambierà nell’immediato. Infatti, stiamo parlando di un disegno di legge delega, che dopo il varo in CdM dovrà essere approvato dal Parlamento e, successivamente, il Governo avrà dodici mesi di tempo per adottare “un decreto legislativo per la modifica del testo unico …, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni”.
In altre parole, il ddl Amato-Ferrero fissa i “principi e criteri direttivi” a cui dovrà ispirarsi il futuro decreto legislativo. Cioè, il percorso sarà prevedibilmente accidentato, i tempi non saranno brevissimi e il risultato finale, cioè l’articolato, è ancora da scrivere. Ma vediamo da vicino il merito del disegno di legge delega.
Anzitutto, ci pare necessario chiarire meglio l’oggetto del provvedimento di modifica. La cosiddetta legge Bossi-Fini non aveva, infatti, abolito la disciplina preesistente, cioè il d.lgs n. 286 del 1998, noto come Turco-Napolitano, ma si presentava sul piano formale come una sua modifica. Una modifica massiccia e di sostanza, che aveva esasperato ed estremizzato il carattere repressivo e proibizionista delle politiche migratorie, ma che non rappresentava un capovolgimento netto. Infatti, la prevalenza dell’approccio repressivo e la considerazione del migrante prima di tutto come forza lavoro a buon mercato erano anche i principi ispiratori della Turco-Napolitano, nonché delle odierne e sempre più integrate politiche europee in materia.
La conseguenza più vistosa di questo orientamento sta anzitutto nell’allocazione insensata delle risorse pubbliche, come dimostrarono i dati pubblicati dalla Corte dei Conti nel 2005. Infatti, il 72,5% delle risorse complessive spese per le politiche migratorie sono destinate a misure repressive, comprese le spese per i Cpt, mentre soltanto il restante quarto va a favore di politiche di accoglienza. Un approccio che tende dunque a spostare tutta la tematica dell’immigrazione sul terreno dell’ordine pubblico.
Inoltre, l’irrazionalità dell’allocazione delle risorse fa il paio con quella della normativa sugli ingressi, tesa più a soddisfare la necessità di un certo discorso politico, che non a “governare” il fenomeno migratorio, con la conseguenza dell’istituzionalizzazione di fatto di una significativa area di clandestinità.
Tuttavia, a guardare bene, nell’irrazionalità vi è una ratio. Il migrante indicato come problema di ordine pubblico, sempre sull’orlo della clandestinità e portatore di un pacchetto di diritti differenziato, cioè inferiore a quello del cittadino italiano o comunitario, è infatti lo stesso che va a ingrossare le fila dei lavoratori malpagati o sfruttati in nero. Così, il corpus legislativo speciale per gli stranieri non comunitari –con tanti saluti al principio la legge è uguale per tutti- vige non soltanto sul piano dei diritti civili, ma anche su quello dei diritti sociali. Il “capolavoro” della Bossi-Fini, cioè il ricatto del contratto di soggiorno, sta lì a dimostrarlo.
E allora, la domanda che dobbiamo porci è se la proposta Amato-Ferrero modifica tale approccio e in che misura.
La prima -e più dettagliata- parte del ddl è dedicata alla questione degli ingressi. Viene previsto un meccanismo di programmazione su base triennale, da integrare con una procedura di adeguamento annuale delle quote stabilite. Inoltre, alcune categorie di lavoratori potranno essere autorizzate all’ingresso al di fuori delle quote, in particolare il “lavoro domestico e di assistenza alla persona”.
Per quanto riguarda le modalità di ingresso si prevedono anzitutto delle “liste organizzate in base alle singole nazionalità” a cui uno straniero che intenda lavorare in Italia può iscriversi. Responsabili della gestione delle liste sono una pluralità di soggetti, come gli enti e gli organismi nazionali e internazionali con sedi nei paesi d’origine e convenzionate allo scopo, nonché le autorità dei paesi d’origine. Tali liste verranno istituite “prioritariamente” in Stati che abbiano dimostrato un “atteggiamento collaborativo” in materia di contrasto dell’immigrazione clandestina. Fino all’istituzione di tali liste, verrà attivata una Banca dati interministeriale.
A tali liste potranno poi attingere, con chiamata nominativa o numerica, le regioni, gli enti locali e le associazioni imprenditoriali, professionali e sindacali, nonché istituti di patronato, con la costituzione di “forme di garanzia patrimoniale a carico dell’ente o associazione richiedente”. Viene altresì prevista una forma di ingresso per ricerca lavoro, a condizione che il cittadino straniero sia iscritto nelle liste e che possa fornire le sufficienti garanzie patrimoniali –proprie o di altri- per il suo sostentamento. Più in generale, si prevede una semplificazione delle procedure per il rilascio dei visti.
Per quanto riguarda gli ingressi, possiamo dunque affermare che rimane ferma la logica dei flussi, rendendola tuttavia molto più flessibile, e che la selezione continua ad essere determinata dalle necessità dell’economia italiana, salvo la possibilità –condizionata- della ricerca lavoro.
Per quanto riguarda i permessi di soggiorno, va prima di tutto sottolineato che non si esplicita un passaggio netto delle procedure per il rinnovo agli enti locali, come chiesto da tempo dall’associazionismo, ma si parla di più generiche “forme di collaborazione”. In secondo luogo, in relazione alla tipologia e alla durata dei permessi, vanno evidenziati i seguenti punti: eliminazione del “contratto di soggiorno”; allungamento dei termini di validità iniziale e raddoppio della durata in sede di rinnovo; permesso di un anno per rapporti di lavoro a tempo determinato inferiori a sei mesi, di due anni in caso di rapporti di durata superiore a sei mesi e di tre anni in caso di rapporti a tempo indeterminato o di lavoro autonomo; misure tese alla continuità della condizione di regolarità nelle more del rinnovo; estensione dei termini di validità a un anno per attesa occupazione, in caso di perdita del lavoro; possibilità del permesso per motivi umanitari anche a favore dello straniero che “dimostri spirito di appartenenza alla comunità civile”.
Insomma, non siamo certo di fronte al tanto invocato –da parte dei movimenti- sganciamento del permesso di soggiorno dal rapporto di lavoro, ma piuttosto ad una sua maggiore autonomizzazione. In caso di applicazione effettiva di tali misure, è prevedibile una riduzione della precarietà del migrante e del fenomeno della clandestinità di ritorno.
Prima di arrivare alla questione delle espulsioni, occorre però segnalare alcuni altri punti. Anzitutto, il fatto che viene esplicitamente previsto il diritto di voto attivo e passivo per le elezioni amministrative per gli stranieri “titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo”. In secondo luogo, una serie di misure a tutela degli stranieri minori, tra cui la previsione di meccanismi volti a garantire un permesso di soggiorno al compimento della maggiore età, seppure non in maniera generalizzata. In terzo luogo, l’equiparazione degli stranieri soggiornanti regolarmente da almeno due anni ai cittadini italiani in relazione all’accesso all’assistenza sociale. In quarto luogo, l’agevolazione e maggior regolamentazione dell’invio delle rimesse. Infine, il “potenziamento”, anche mediante la definizione della figura del mediatore culturale, della misure dirette all’inclusione. Va inoltre segnalato, negativamente, che il CdM ha eliminato in extremis la possibilità di accesso al pubblico impiego per cittadini non comunitari.
Ma eccoci al punto che ha sempre costituito una sorta di cartina di tornasole delle politiche migratorie, cioè la disciplina delle espulsioni e la questione dei Centri di Permanenza Temporanea (Cpt). Va anzitutto ricordato che il carattere securitario e ideologico della legislazione vigente comporta inevitabilmente la presenza di un’ampia e fisiologica area di clandestinità. E nonostante la mobilitazione di ingenti risorse pubbliche per le misure repressive –a dimostrazione della natura strumentale e demagogica del discorso securitario-, il sistema delle espulsioni mostra un efficacia assai ridotta. Nel 2005, soltanto il 45% dei 120mila destinatari di provvedimenti di espulsione sono stati effettivamente rimpatriati e di questi soltanto una minoranza è transitata attraverso i Cpt. Va inoltre segnalato che i Cpt italiani hanno trattenuto, sempre nel 2005, 16.163 persone, di cui due terzi sono stati effettivamente espulsi.
Il ddl Amato-Ferrero prevede una serie di modifiche: il rimpatrio volontario dell’espulso, incentivato da appositi mezzi finanziari e con la riduzione dei tempi di divieto di reingresso; la “graduazione” delle sanzioni penali e la “riconduzione” delle stesse ai principi generali della giustizia penale; la revisione delle “modalità” di allontanamento (per esempio, la sospensione dell’esecuzione per “gravi motivi”); una serie di garanzie per lo straniero vittima di violenza e grave sfruttamento; l’attribuzione delle competenze alla magistratura ordinaria.
Per quanto riguarda i Cpt, non si prevede la loro chiusura, ma di “superare l’attuale sistema”. Cioè, il potenziamento delle funzioni “di accoglienza e soccorso”, la revisione dei criteri strutturali e gestionali, la riduzione dei tempi di trattenimento, la possibilità di uscire dalla struttura in alcuni orari, la maggior collaborazione nei Cpt con associazioni, l’individuazione di procedure di identificazione durante la permanenza in carcere (molti trattenuti nei Cpt provengono infatti dagli istituti di pena), la previsione di specifiche “strutture per le espulsioni” e, infine, una maggior accessibilità dei Cpt da parte di soggetti istituzionali, di rappresentanti di alcune associazioni e della stampa. Nulla si dice, invece, della politica di delocalizzazione dei Cpt in Africa, perseguita dall’insieme dell’UE.
Contestualmente al varo del ddl, sono stati poi emananti due direttive: la prima di chiusura dei Cpt di Brindisi, Crotone e Ragusa e, la seconda, di invito ai Prefetti di definire nuovi criteri per l’accesso e la trasparenza dei Cpt.
Insomma, le modalità di rimpatrio diventerebbero un po’ più flessibili e garantiste, si introduce il “rimpatrio volontario”, si toglie finalmente la materia ai giudici di pace e si afferma la volontà di attenuare il carattere speciale del sistema sanzionatorio per i migranti. In relazione ai Cpt va registrato che le misure indicate sembrano collocarsi al di sotto di quanto raccomandato dalla Commissione ministeriale De Mistura, la quale, seppure evitando come la peste la parola “chiusura”, aveva tuttavia suggerito una strategia di “graduale svuotamento”.
Per concludere, possiamo affermare, anzitutto, che gli indirizzi contenuti nel ddl Amato-Ferrero non equivalgono all’abrogazione secca della Bossi-Fini, bensì a una sua modifica in direzione di una maggior flessibilizzazione e razionalizzazione della normativa, nonché di un’attenuazione del carattere discriminatorio della legislazione in materia. In secondo luogo, va ricordato che il ddl non è una proposta di legge, ma un insieme di principi e criteri direttivi.
Siamo quindi di fronte ad una proposta che non rappresenta il capovolgimento richiesto dai movimenti, ma che indubbiamente migliorerebbe le condizioni di vita dei migranti presenti nel nostro paese. Tuttavia, sarebbe un grande errore limitarsi a queste constatazioni, poiché la partita è appena cominciata.
Il ddl che abbiamo sommariamente esaminato rappresenta il risultato di una negoziazione, avvenuta nel vuoto di movimenti, tra le posizioni della cosiddetta sinistra radicale e quelle dei soci fondatori del partito democratico. E non occorre certo essere dei geni per capire che lo scontro frontale che aprirà il centrodestra tenderà a spingere i termini del compromesso a destra, visti anche i tanti balbettii e subalternità delle forze dell’Ulivo.
Il clima che si respira in queste settimane a Milano, con le ronde anti-rom, le campagne contro le moschee, l’applicazione della razzista legge regionale contro i phone center e i proclami anticinesi, dovrebbe far riflettere. Il discorso pubblico sull’immigrazione è inquinato e egemonizzato dalle destre e risulta evidente che se dal basso e da sinistra non si riuscirà ad avviare l’iniziativa sociale e politica, l’esito della battaglia sarà scontato. Ecco perché non basta essere severi nei giudizi, ma occorre buttarsi nella mischia e ricostruire il terreno del conflitto.
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