Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 3 marzo 2011
Torna lo spettro dell’intervento umanitario con l’elmetto. Lo evocano quelle potenze occidentali che fino a ieri hanno sostenuto, protetto e coccolato i dittatori e i monarchi assoluti nel Maghreb e nel Medio Oriente. E laddove ciò è ancora possibile, si continua a farlo.
Un sostegno motivato dal business, dalla politica di contrasto dei flussi migratori e dalla lotta al terrorismo di matrice islamica. Del primo si parla relativamente poco, ma in cambio pesa parecchio. Nel nome degli altri due si giustifica un po’ di tutto, anche l’ingiustificabile e l’infame.
Affari a parte, la tesi di fondo suona più o meno così: per poter difendere la nostra democrazia, la nostra libertà e i nostri diritti umani bisogna sostenere regimi che negano la democrazia, la libertà e i diritti umani, poiché gli arabi e gli islamici sono geneticamente incapaci di comprendere questi concetti.
È la solita vecchia storia, si dirà. Certo che è così, ma c’è di più questa volta, perché il colonialismo e l’imperialismo storici avevano pur sempre una visione, mentre l’Occidente di oggi, in particolare l’Europa, sembra non vedere più oltre il proprio naso.
Com’è possibile che a Washington e nelle capitali europee nessun governo abbia previsto o annusato quanto stava per avvenire? Che persino, a rivolta già iniziata, il Ministro degli esteri di un’importante ex potenza coloniale del Nord Africa, cioè la Francia, abbia prima trascorso le sue vacanze in Tunisia, ospite degli uomini di Ben Ali, e poi addirittura offerto la cooperazione della Francia per reprimere le manifestazioni di piazza?
Insomma, le classi dirigenti degli Usa e dell’Europa sono stati colti di sorpresa. E quello che è peggio, anche chi dovrebbe e vorrebbe incarnare delle alternative, cioè la sinistra, è stato colto di sorpresa.
Da tutto questo deriva un giudizio impietoso sull’Europa e le molte tesi sul declino del vecchio continente ne escono senz’altro rafforzate. Ma non è di questo che vogliamo parlare in questa sede. Qui ci interessa ragionare su di noi, sulla sinistra politica e sui movimenti, su quello che oggi dovremmo fare di fronte agli avvenimenti.
Anzitutto, c’è una cosa che non dovremmo fare, cioè aggrapparci alle voglie interventiste di Usa e Nato per nobilitare l’ignobile, per riesumare la stantia e deleteria tesi del nemico del mio nemico è mio amico. Ghedaffi non è un campione dell’antimperialismo e dell’autodeterminazione dei popoli. Chissà, forse un tempo lontano ci assomigliava, ma oggi non è che un tiranno, abbagliato dal suo potere e dalle sue ricchezze e persino disponibile a fare da aguzzino di migranti e profughi per conto di Berlusconi e della Lega.
No, non si può essere ambigui, tra Ghedaffi e chi si ribella al suo regime bisogna stare con i secondi. A Tripoli e a Bengasi, esattamente come a Tunisi, il Cairo, Algeri, Sanaa o Teheran, noi stiamo con chi insorge.
I potenti del mondo non solo non hanno previsto la rivolta, ma nemmeno i suoi contorni e i suoi protagonisti. Certo, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: la Libia non è la Tunisia o l’Egitto, l’Algeria è cosa diversa dallo Yemen, per non parlare dei paesi del Golfo o dell’Iran, che è un discorso a parte. Tuttavia, bisogna mettersi le fette di salame sugli occhi per non vedere che c’è qualcosa che accomuna i rivoltosi al di là dei confini e delle specificità. I protagonisti sono soprattutto giovani e scolarizzati, usano internet, ma non trovano un posto nel presente e non vedono un futuro. Sono schiacciati dagli effetti della crisi globale e da regimi corrotti e sclerotizzati. Non sono fondamentalisti religiosi, non chiedono la sharia, bensì democrazia e libertà di parola, lavoro e un futuro.
Quei giovani, in fondo, assomigliano molto di più ai loro coetanei europei che nell’autunno scorso inondarono le strade di Roma e Londra, che non ai miliziani della jihad, che i propagandisti nostrani dello scontro di civiltà vorrebbero vendere come l’unica espressione politica di cui sono capaci le società a prevalenza islamica.
Beninteso, non sappiamo se quelle rivolte si tramuteranno in rivoluzioni compiute, in un “1848 arabo”, come sostiene Tariq Ali. Né sappiamo se sia giustificato l’ottimismo sfrenato di Hardt e Negri, che intravedono per il mondo arabo un ruolo da laboratorio politico paragonabile a quello svolto dall’America Latina nel decennio scorso. E non dobbiamo nemmeno sottovalutare la potenza delle forze normalizzatrici, peraltro già all’opera, come gli eserciti, le strutture politiche e sociali conservatrici e le stesse ingerenze occidentali.
Eppure, saremmo dei folli a non capire che nulla sarà più come prima e che si sta affacciando una nuova generazione non riducibile alla falsa alternativa tra dittatura filo-occidentale ed islamismo militante. D’altronde, andrebbe sempre ricordato che tra le prime vittime del predominio di queste false alternative, di questa vera e proprio tenaglia troviamo anche le aspirazioni e i diritti del popolo palestinese.
La rivolta dei giovani maghrebini e arabi è una boccata d’ossigeno e una possibilità. E quando si presenta una possibilità del genere, quando in campo ci sono dei movimenti reali, allora non bisogna ritirarsi nelle sale riunioni a disquisire su quanto sono potenti i nemici e su quanto sono fragili, disorganizzate e incerte quelle insorgenze, ma occorre uscire di casa ed agire.
Anzitutto, schierandosi senza esitazione con le rivolte, con i ragazzi e le ragazze che si battono per il loro futuro. In secondo luogo, costruendo dialogo, solidarietà e cooperazione tra la sinistra e i movimenti nostri e quelli maghrebini e arabi. In terzo luogo, opponendosi a tutti i tentativi di normalizzare, ingabbiare e invertire i processi in atto, a partire da ogni ipotesi di intervento militare Usa o Nato. Infine, promuovendo l’accoglienza dei profughi e contrastando la criminalizzazione berlusconiano-leghista dei migranti maghrebini.
L’esito del nostro schieramento è garantito? No, tutt’altro. Ma è l’unica cosa giusta da fare per una sinistra che vuole guardare al futuro e, così facendo, magari ci ricordiamo anche come si fa a cambiare le cose a casa nostra.
Siamo di nuovo alla Baggina, a quel Pio Albergo Trivulzio da dove era partito nel 1992 il terremoto di Tangentopoli. Ora si chiama Affittopoli e, ironia della sorte, è esplosa proprio nei giorni in cui Berlusconi ha annunciato al mondo che intende reintrodurre quell’immunità parlamentare che fu eliminata all’indomani di Tangentopoli.
Coincidenze simboliche che la dicono lunga sul quasi ventennio che ci separa dai giorni che spazzarono via il sistema politico del dopoguerra. Insomma, tutto è cambiato, ma non troppo. Anzi, la logica privatistica con la quale si affronta il governo della cosa pubblica è diventata, semmai, ancora più spudorata. Insomma, o privatizzo o ci metto su le mani direttamente, oppure faccio tutte e due le cose insieme. Certo, non è ancora l’arraffare dei Ben Ali, però…
Questione morale? Sì, certamente, perché è immorale, nel senso più proprio della parola, che quelli che pubblicamente si vantano di sgomberare dalle case popolari qualche famiglia squattrinata e priva di protezioni (perché quelli del racket meglio non toccarli) e che hanno deriso gli inquilini delle case popolari quando protestavano per l’aumento generalizzato degli affitti, siano gli stessi che hanno protetto ed favorito il sistema di concessione di case di proprietà pubblica, in affitto o in proprietà, a prezzi agevolati e a persone nemmeno bisognose.
Ebbene sì, perché il punto è questo: i vertici degli enti pubblici che gestiscono i patrimoni immobiliari vengono nominati dalle istituzioni, che hanno anche l’obbligo di esercitare la funzione di controllo. Nel caso del Pio Alberto Trivulzio il Comune e la Regione, ambedue governati dalla destra, Lega compresa, da tempo immemorabile.
Quello che sta emergendo con Affittopoli e con tutto quello che seguirà (oggi è il turno degli elenchi del Policlinico ed è già saltato fuori il nome del corrotto ex-assessore regionale Prosperini…) non è che l’ennesima dimostrazione, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, che la fuoriuscita dal prolungato dominio della destra è una questione urgente ed improcrastinabile. E, che sia chiaro, non si esce cambiando soltanto il nome di chi amministra la città, bensì anche e soprattutto quel putrefatto sistema di potere che avvantaggia soltanto furbetti e speculatori.
Per questo stupiscono e colpiscono ancora di più le strane priorità individuate da alcuni pezzi del principale partito dell’opposizione, cioè il Pd, che in questi giorni si esercitano al tiro al segno contro il candidato sindaco del centrosinistra, Giuliano Pisapia.
Ma che c’entra Pisapia con Affittopoli? Nulla, lui non c’entra proprio nulla. Non ha mai abitato in una casa di proprietà del Pat o di un altro ente pubblico, né ha mai fatto l’intermediario perché qualcuno ci andasse a vivere. E, infatti, nessuno lo accusa di questo.
Ma, la sua colpa consisterebbe nel fatto che la sua attuale compagna, Cinzia Sasso, giornalista di La Repubblica, è intestataria di un contratto d’affitto, scaduto nel 2008 e non rinnovato, di un appartamento di proprietà del Pat. Lei ci era entrata nel 1990 con il suo allora marito. Più tardi, dopo la separazione, è subentrata come intestataria del contratto (maggiori dettagli sul sito di Pisapia).
Beninteso, queste cose andavano giustamente spiegate pubblicamente, come peraltro la stessa Cinzia Sasso aveva fatto da subito. E chissà, forse ha pure ragione chi ha sostenuto che all’inizio ci fosse un po’ di sottovalutazione rispetto alle implicazioni politiche della vicenda. Infine, non ci stupisce nemmeno che da destra abbiano approfittato alla grande della circostanza, che gli deve essere apparsa come la manna da cielo, viste le responsabilità politiche ed amministrative immani di Pdl e Lega e la prospettiva concreta di perdere le elezioni.
Ma quello che proprio non riusciamo a comprendere è l’ostinazione del fuoco amico. Anzi, consultando i giornali di oggi, a partire da Corsera e Repubblica, sembra quasi che sia diventato il principale dei fuochi.
Orbene, conosciamo tutti il taffazzismo che a volte alberga dalle nostre parti –e che rappresenta uno dei nostri problemi-, ma sparare sul proprio candidato Sindaco proprio quando l’avversario è in difficoltà, chiedere ancora e ancora “chiarimenti” già ampiamente forniti e gonfiare oltremisura un fatto in realtà piuttosto irrilevante, è irresponsabile e miope.
Sappiamo bene che nel principale partito dell’opposizione c’è chi non ha ancora accettato l’esito delle primarie, sebbene, pensiamo, si tratti di una piccolo minoranza, e che forse si illude ancora che i giochi di palazzo portino da qualche parte, ma è bene che tutti quanti ci diciamo in faccia la verità che tutti conosciamo: l’unica alternativa a Giuliano Pisapia si chiama Letizia Moratti.
Così stanno le cose e l’auspicio è, pertanto, che cessi immediatamente il fuoco amico e che ci si concentri a costruire l’alternativa alla destra a Milano.
Luciano Muhlbauer
Non mi candido a consigliere alle elezioni amministrative di Milano. So che molti compagni e compagne, amici e amiche, elettori ed elettrici davano quasi per scontata la mia candidatura, come se si trattasse di una sorta di secondo tempo dopo le regionali dell’anno scorso, e il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista me l’ha anche proposta ufficialmente una settimana fa. Ma alla fine, dopo averci riflettuto parecchio e non senza travagli, perché consapevole delle implicazioni, ho scelto di non accettare la proposta. E con le righe che seguono voglio condividere con voi le ragioni della mia decisione, che sono di natura politica e che pertanto, penso, non riguardino soltanto il sottoscritto.
E premetto subito, per sgomberare il campo da ogni possibile malinteso, che questa scelta non comporta in alcun modo un mio ritiro dall’attività sociale e politica che, anzi, continua come prima, a partire dall’impegno a favore di Giuliano Pisapia e per mandare a casa Moratti, De Corato & Co.
Un anno fa, dopo il risultato negativo delle regionali, nel ringraziare gli elettori, scrissi queste parole: “la certezza è che a sinistra così non si può andare avanti, che occorre una scossa, un fatto nuovo, aria fresca, capacità unitaria e un atto di liberazione dall’autoreferenzialità degli apparati”. Ho cercato di essere fedele alle mie valutazioni, oggi più valide che mai, e nei mesi successivi avevo tentato, per quello che una persona poteva, di lavorare in quella direzione, compresa la costruzione di un’unica lista della sinistra alle elezioni comunali di Milano.
Beninteso, non credo e non ho mai creduto che l’immane compito del rifare la sinistra, perché di questo si tratta, fosse una questione di liste elettorali, ma essendo oggi e qui le elezioni comunali l’evento politico più rilevante in ordine di tempo, specie in considerazione del fatto che il dominio della destra in città copre ormai il tempo di un’intera generazione, ritenevo necessario che qualche fatto nuovo si materializzasse proprio in quella occasione.
Ed erano pure emersi degli elementi che, in teoria, avrebbero dovuto, o potuto, favorire una prospettiva del genere. Non solo c’era finalmente un candidato sindaco che a sinistra non provocava i crampi allo stomaco, per usare un eufemismo, e al quale sarebbe stato estremamente utile avere una lista di sinistra unica ed aperta, ma soprattutto l’arido campo della politica era stato innaffiato da uno straordinario fermento sociale. La resistenza, la dignità e la voglia di futuro di operai, studenti, ricercatori, precari e migranti, anzitutto, era ed è un’occasione per ricominciare con il piede giusto.
Tutti elementi e fatti che spingevano nella direzione auspicata, mentre i movimenti rimettevano al centro i soggetti sociali e le questioni che contano davvero, a partire dal lavoro e dal reddito, provocando una valanga di balbettii tra gli alchimisti della sinistra di palazzo.
Eppure, tutto questo non è stato sufficiente per smuovere le cose a Milano. Il gruppo dirigente locale di Sel ha preferito barricarsi nel proprio orto e crogiolarsi al calore dei sondaggi d’opinione e il Prc/FdS, benché impegnato seriamente sul terreno unitario, ha pagato il prezzo della sua crisi e dell’immobilismo nazionale. Altri soggetti organizzati della sinistra milanese si erano a priori sottratti alla discussione.
Ma soprattutto è mancata un’altra cosa, considerato che era estremamente arduo immaginarsi che i gruppi dirigenti della sinistra potessero produrre un fatto nuovo se lasciati da soli. Cioè, è mancata una presa di parola e di iniziativa da parte della cosiddetta società civile, dall’associazionismo ai movimenti.
O meglio, le parole ci sono state e pure qualche iniziativa, ma si è palesata anche la drammatica incapacità di tradurre la grande e spesso sottovalutata ricchezza, in termini di partecipazione ed attività sociale, culturale e territoriale, in pressione politica sufficiente a condizionare finanche i deboli gruppi dirigenti della sinistra milanese. Insomma, è un po’ l’altra faccia della medaglia di una Fiom costretta, invece, a fare sul piano nazionale supplenza a una sinistra politica che ancora non c’è.
Tutte queste considerazioni non sono, ovviamente, degli atti d’accusa, ma piuttosto delle prese d’atto. Cioè, degli appunti da cui ripartire ed utili per ridisegnare i percorsi.
Per quanto mi riguarda, ho quindi scelto di non candidarmi alle comunali di Milano, perché penso che la questione non sia cercare un taxi che ti porti a una poltrona, bensì trovare un percorso che dia senso e prospettiva a quello che fai tu e che fanno quelli e quelle con i quali hai condiviso e condividi lotte, dolori, gioie e speranze.
Oggi non so come saranno quei percorsi, ma so che dovremo ridisegnarli insieme, facendo tesoro dell’esperienza, mai perdendo di vista le condizioni e i sogni che si vogliono portare e rappresentare nella sfera politica e mai cedendo alla tentazione di rinchiudersi nei fortini, magari pure fatiscenti.
E so un’altra cosa, da fare subito, in questi mesi: cioè, fare il possibile perché a maggio Giuliano Pisapia possa indicare la porta d’uscita alla Moratti e a De Corato.
Luciano Muhlbauer
Nella serata del 31 gennaio, il Consiglio Comunale di Sesto San Giovanni (MI) ha approvato alla quasi unanimità una mozione, presentata dalla Lega, che vieta nei luoghi pubblici il “burqa e altre forme simili di vestiario”, poiché “costituiscono, secondo la nostra cultura, una forma di integralismo oppressivo della figura femminile e di costrizione della libertà individuale”.
Un voto che rappresenta un’autentica bomba politica, visto che la cosiddetta ex-Stalingrado d’Italia è governata tuttora da una maggioranza di centrosinistra e da un Sindaco, Oldrini, che viene dal Pci e che da giovane passò sette anni a Cuba come corrispondente dell’Unità.
In fondo, nemmeno la Lega e il Pdl osavano sperare tanto e, infatti, ci hanno messo un giorno per reagire ed esultare. Un regalo inaspettato e gradito, insomma, visto che i difensori estremi del diritto berlusconiano ai bunga bunga e della riduzione della donna a velina hanno potuto vestire all’improvviso le vesti dei difensori della dignità della donna.
E un autogol clamoroso degli strateghi del centrosinistra sestese, visto che hanno consentito a Salvini e De Corato di rilanciare immediatamente l’idea a Milano, in piena campagna elettorale e in pieno caos Pgt ed emergenza smog.
Ma questo incredibile assist tattico alla destra milanese, in fondo, altro non è che il figlio legittimo di un dato ben più grave, cioè dello smarrimento culturale e della subalternità da parte di settori significativi del centrosinistra su alcuni temi non certo marginali del dibattito pubblico, come quello dell’immigrazione e del rapporto con l’Islam. Uno smarrimento reso ancora più pesante dal contestuale mutismo sui sconvolgimenti in atto dall’altra parte del Mediterraneo, che sta spazzando via dittatori corrotti, fino a ieri amici dell’Europa.
Che senso ha dichiarare guerra a burqa, niqab e altro alle porte di Milano? Si pensa davvero che così si possano difendere i diritti e le libertà delle donne e contrastare le correnti integraliste nelle comunità islamiche? Non è piuttosto vero che così si rischia di contribuire all’emarginazione e all’invisibilità delle donne che oggi portano il velo integrale, come ha giustamente ricordato ieri anche Pisapia, e che si fa un regalo alle tesi jihadiste, allo stato ampiamente minoritarie nelle comunità islamiche milanesi?
E che senso ha assecondare le pulsioni leghiste in tema di attribuzioni di poteri in materia di sicurezza e ordine pubblico ai Sindaci o di sovvertimento strisciante del principio costituzionale della libertà religiosa e di culto?
Insomma, quanto accaduto lunedì sera a Sesto ha poco o nulla a che vedere con la difesa della dignità delle donne e molto invece con il clima da campagna elettorale e con quella merce pregiata che rappresenta la paura e l’islamofobia.
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo originale della mozione approvata dal Consiglio comunale di Sesto San Giovanni
La Fornace sgomberata era risorta già ieri notte, ma il Sindaco ciellino Zucchetti, principale istigatore di quello sgombero, non si rialzerà più dalla sua caduta di questa mattina. È questa la morale di quanto accaduto nella città di Rho in questi primi giorni del 2011 e, nel contempo, anche un augurio per il futuro.
In pochi a Rho rimpiangeranno Zucchetti, uno dei peggiori Sindaci che la città abbia mai avuto.
Incapace di amministrare, molto attento alle esigenze dei capi di Comunione e Liberazione, specie di quello che siede all’ultimo piano del Pirellone, ma totalmente insensibile alle esigenze dei cittadini del suo territorio, come aveva dimostrato la vicenda del piano Alfa.
Sempre interessato a seguire con tenacità gli affari suoi, come il tentativo incessante di trasformare la destinazione d’uso dei terreni agricoli di sua proprietà, ma poi addirittura platealmente assente, sebbene ufficialmente invitato, quando in Regione Lombardia si discuteva del taglio dei treni pendolari da Rho.
La lista potrebbe continuare a lungo, ma la conclusione sarebbe sempre la medesima: un’esperienza amministrativa fallimentare su tutta la linea e pesantemente inquinata dal conflitto di interessi di Zucchetti.
Un’esperienza talmente negativa che stamattina a Rho a firmare congiuntamente le dimissioni non erano soltanto i 13 consiglieri comunali di opposizione, ma anche 4 della maggioranza. Cioè, anche una parte del suo partito, il Pdl, non ha più retto Zucchetti, contribuendo dunque alla sua caduta, al commissariamento del Comune e al ricorso alle elezioni anticipate.
Zucchetti non c’è più, ma la Fornace c’è ancora, nel nuovo spazio di via Moscova 5, una ex-fabbrica abbandonata. Ed è giusto così, perché alla faccia delle tante sciocchezze che si sono lette ancora oggi sulle ragioni dello sgombero, l’unico vero e autentico motivo dell’insensata azione di forza di ieri mattina era la volontà di zittire e punire una delle più serie voci di opposizione e denuncia del malgoverno di Zucchetti.
Alla Fornace auguriamo lunga vita, all’ormai ex-Sindaco che debba rispondere dei suoi intrallazzi nelle sedi opportune e alla cittadinanza di Rho che con le elezioni anticipate torni ad amministrare il territorio una coalizione che guardi in basso e a sinistra e non semplicemente agli affari suoi e degli amici.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Che le luminarie natalizie in via Padova recassero gli auguri di buone feste in diverse lingue non era certo una notizia, ma che queste siano state rimosse, proprio perché multilingue, invece lo è. Ed è un pessima notizia, perché significa che chi governa Milano ha scelto la strada dell’idiozia.
Infatti, ieri molte associazioni e residenti di via Padova, tra cui anche il sottoscritto, hanno iniziato a scambiarsi messaggi. Quelle luminarie a forma di cuore, basate su un progetto artistico dell’artigiano Claudio Sighieri, che facevano gli auguri nelle diverse lingue che si possono incontrare in via Padova, erano sparite. Erano rimasti soltanto gli auguri in italiano.
Qualcuno ha accusato subito l’assessore Maurizio Cadeo. Noi non sappiamo come siano andate le cose, né se sia lui il ladro di luminarie, ma sappiamo con certezza che è lui l’assessore all’arredo urbano e pertanto competente in materia. E quindi ci rivolgiamo a lui per chiedere, in primo luogo, una spiegazione e, in secondo luogo, il ristabilimento della situazione precedente.
Insomma, che cavolo di segnale si vuole lanciare con questa pulizia linguistica? Chi ha ideato e realizzato questa idiozia non vuole bene a via Padova. Anzi, sembra quasi che la convivenza, alla quale tanti residenti, italiani e stranieri, del quartiere stanno lavorando, dia fastidio e che si vogliano creare a tutti i costi dei conflitti ed evocare delle paure anche dove non ci sono.
A via Padova e alle altre periferie di Milano non servono coprifuochi o stupide guerre linguistiche, bensì attenzione istituzionale, rispetto per i cittadini che vi abitano ed investimenti in servizi. Cioè, tutte quelle cose che in città mancano da tanti anni.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Giuliano Pisapia ce l’ha fatta, è il candidato sindaco dell’opposizione a Milano. Ha vinto le primarie battendo il candidato del Pd, Boeri, con il 45% dei consensi contro il 40%. Ha vinto contro le indicazioni e la macchina del Pd e nonostante i troppi che gufavano e quelli che “sarebbe bello, ma non ci credo, tanto ha già vinto Boeri”.
È stata una bella vittoria, perché non ha vinto qualche apparato, ma la voglia di non arrendersi, di cambiare, di non voler morire rincorrendo centri e destri o astenendosi.
È stata una bella vittoria perché spariglia le carte, da molte parti, beninteso, e questo non è un male, anzi, perché nell’immobilismo generale a sinistra un po’ di movimento fa sempre bene.
Oggi ci godiamo il risultato, anche perché abbiamo ri-scoperto che si può essere di sinistra e anche vincere.
Domani si ricomincia il difficile cammino, ci saranno mille problemi ed ostacoli, ci sarà la destra scatenata, chi ritenta la carta centrista e chi non riesce proprio a liberarsi dall’autoreferenzialità.
Chissà come andrà a finire, ma oggi abbiamo la possibilità di poter combattere la nostra battaglia. E quindi, combattiamola.
Luciano Muhlbauer
Domenica a Milano ci saranno le primarie per decidere chi sarà il candidato sindaco delle opposizioni che sfiderà nella primavera prossima la Moratti, o chi per lei, e tenterà dunque di porre fine a 17 anni di ininterrotto governo cittadino delle destre.
Faccio una premessa: le primarie non mi sono mai piaciute, perché le ho sempre considerate per quello che in realtà sono, cioè un sottoprodotto di quella logica maggioritaria che esclude e che mortifica la partecipazione. So che molti e molte di voi, che capitate su questo blog, la pensate allo stesso modo.
Non ho cambiato opinione, eppure domenica vado a votare alle primarie e con convinzione metterò la mia crocetta per Giuliano Pisapia. E vi chiedo di fare altrettanto.
Perché? Semplice, perché 17 anni sono tanto, troppo tempo, perché hanno ridotto la nostra città a un grigio parco giochi per speculatori edilizi, spacciatori di lavoro precario ed aspiranti vicesceriffi e, infine, perché sono strastufo di trovarmi ogni volta di fronte al dilemma vado a votare turandomi il naso oppure non ci vado e poi ho i sensi di colpa quando vedo De Corato?
Oggi, invece, c’è la possibilità che il candidato sindaco del centrosinistra sia una persona presentabile, che rivendica il suo essere di sinistra. E soprattutto, è una persona che in questi anni ha dimostrato coerenza, non barattando convinzioni e principi sul mercatino della politica politicante. Nemmeno nei tempi più bui della rincorsa meneghina della destra sul terreno del securitarismo e della xenofobia, cioè nella triste e fallimentare era Penati, di cui molti esponenti del Pd sono, ahinoi, tuttora prigionieri, Giuliano Pisapia ha perso la bussola. Anzi, la sua opposizione alla visione carceraria della città è sempre stata pubblica e trasparente.
E poi, c’è il fatto, non indifferente, che non ha mai fatto il palazzinaro, né è mai stato al soldo dei palazzinari, che sono tra le principali calamità di Milano.
Insomma, penso che Pisapia sarebbe un ottimo candidato sindaco del centrosinistra, anzi il migliore che si sia visto in questi 17 anni. E se c’è la possibilità che Giuliano Pisapia possa diventare effettivamente il candidato sindaco, allora, che le primarie piacciano o meno, domenica bisogna andare a votare.
E la possibilità c’è. Ce lo dicono tutti i dati e le proiezioni ad oggi disponibili, che parlano di un testa a testa tra Pisapia e Boeri e di un numero significativo di indecisi. In altre parole, sarà una lotta all’ultimo voto e, quindi, vi chiedo di non far mancare il vostro.
Poi, dopo domenica arriva lunedì, con l’esito del voto e con i bilanci da fare. Comunque vadano le cose, i problemi da risolvere da qui alle elezioni saranno una marea e le difficoltà tante. Ma con Giuliano Pisapia, almeno li potremo affrontare con un sorriso e una speranza in più.
Luciano Muhlbauer
P.S. a proposito, le urne delle primarie saranno aperte dalle ore 8.00 alle ore 20.00 di domenica 14 novembre e può votare chi è iscritto nelle liste elettorali del Comune di Milano, nonché i 16enni e i cittadini immigrati residenti a Milano. Per sapere esattamente chi vota e come si vota, clicca qui. Per sapere invece dove votare, cioè per sapere qual è il tuo seggio, puoi consultare l’apposito elenco on line, cliccando qui.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul n. 182, sett. 2010, del mensile Paneacqua
C’era un tempo in cui Milano non era governata dalla destra, anche se i più giovani tra di noi faticano a crederci.
Infatti, il capo ciellino, Roberto Formigoni, entrò nel Pirellone, sede del governo regionale, nell’ormai lontano 1995 e da lì non si sarebbe più mosso. Stessa musica anche a Palazzo Marino, sede dell’amministrazione comunale, occupata ininterrottamente dalle destre sin dal 1993.
È passato tanto di quel tempo che i capi locali della destra usano far finta di essere appena sbarcati da Marte, quando in città esplode un problema. Eppure, comandano da un’eternità. Il leghista Salvini siede in Consiglio comunale da 17 anni, mentre l’ex-neo-post-fascista De Corato fa addirittura il Vicesindaco da 13 anni.
Una longevità e una capacità di estrarre linfa vitale persino dai problemi irrisolti, che la dice lunga sulla solidità dell’egemonia politica, sociale e culturale delle destre, oltreché sullo stato disastrato in cui versa un’opposizione, sempre oscillante tra irrilevanza e subalternità.
Una fotografia impietosa dello stato delle cose ce l’ha fornita un sondaggio pubblicato da La Repubblica il luglio scorso. Il 62,8% ritiene che negli ultimi cinque anni la qualità della vita in città sia peggiorata e soltanto il 20,5% dà un giudizio positivo sull’operato del Sindaco Moratti. Ma, e qui casca l’asino, soltanto il 9,9% valuta positivamente l’operato dell’opposizione. Ovvio, a questo punto, che un plebiscitario 87,5% invocasse un rinnovamento generale della classe dirigente politica.
Insomma, viene in mente la poltiglia di massa, evocata dal Censis, oppure l’incipit di quel corrosivo pamphlet anarchico, L’insurrection qui vient, pubblicato a Parigi nel 2007: “Da ogni punto di vista, il presente è senza via d’uscita. Virtù di non poco conto. Chi si ostina a sperare non trova alcun appiglio, mentre chi propone soluzioni si ritrova puntualmente smentito. Si dà ormai per scontato che le cose possano soltanto peggiorare”.
È l’impasse del presente in salsa meneghina.
Ma torniamo a quel tempo in cui Milano non era ancora governata dalla destra. Sono anni che non rimpiangiamo e che oggi appaiano migliori di quello che erano, soltanto in virtù del grigiore del presente.
Non c’era alcunché di “mitico” negli anni ’80. Era il tempo della Milano da bere, dei fasti e dei sindaci craxiani, del grande riflusso, dell’eroina e delle ristrutturazioni aziendali. Fu allora che iniziò il processo di smantellamento delle grandi industrie nel milanese, come la Breda, l’Innocenti e l’Alfa Romeo, e la liquidazione delle grandi aggregazioni operaie.
In fondo, era semplicemente la coda delle sconfitte dei movimenti e dei sogni del decennio precedente. Il ciclo lungo del dopoguerra si stava chiudendo. Poi arrivò il botto di Tangentopoli e fu il colpo di grazia a un sistema politico esausto e corrotto. In Italia finì il regime Dc-Psi e a Milano si chiuse l’era dei sindaci socialisti.
Le elezioni amministrative del 1993 parlarono chiaro: l’uscita dalla crisi della cosiddetta Prima Repubblica non sarebbe stata a sinistra, bensì a destra.
Fu eletto il leghista Marco Formentini. Poi scese in campo Berlusconi e i successivi sindaci sarebbero stati suoi: Gabriele Albertini (1997-2006) e Letizia Moratti, in carica dal 2006.
Mentre la destra imperava, la città subiva profonde trasformazioni. Certo, sono all’opera forze e processi che sfuggono alla dimensione locale, specie in epoca di capitalismo globalizzato, ma chi comanda per un tempo così lungo delle responsabilità precise ce le ha. Con le sue azioni e il suo discorso pubblico, imprime una direzione di marcia, asseconda alcune tendenze piuttosto che altre e, soprattutto, costruisce narrazioni e linguaggi, impone la chiave di lettura prevalente.
Tuttavia, le destre non sono mai riuscite ad indicare alcun progetto o idea di città, capace di amalgamare, includere o delineare un approdo futuro, a parte la successiva scadenza elettorale. Oggi, la proposta politica per la città si riduce di fatto al binomio mattone & coprifuoco.
In città ci sono cantieri e gru ovunque. Un affare da circa 24 miliardi di euro, tra aree dismesse, Expo e volumetrie regalate dal nuovo Pgt.
Lo sviluppo è affidato al mercato immobiliare, cioè ai pochi che lo dominano. Gli attori istituzionali si sono ritagliati il ruolo di guardiani degli interessi del gruppo di potere di riferimento. La CdO, ad esempio, che spesso fa cartello con le Cooperative, può contare non solo su Formigoni, ma anche sull’assessore comunale all’urbanistica, ciellino pure lui.
Ma a parte il mattone e quei settori dove ci sono affari propri da coltivare, come gli appalti per i servizi pubblici esternalizzati, la sanità o le scuole private, le istituzioni locali si disinteressano all’economia e al lavoro, appellandosi al principio liberista della non ingerenza.
Lo sanno bene i tanti lavoratori delle aziende in crisi, di ogni ramo e tipo, che in questo periodo hanno bussato alle porte delle istituzioni, ottenendo soltanto ammortizzatori sociali o pesci in faccia.
Il Comune di Milano aveva ignorato gli operai dell’Innse quando stavano lottando. Dopo la loro splendida vittoria, gli ha pure negato il riconoscimento. Niente Ambrogino d’Oro, perché “occupare le fabbriche è illegale”.
Se questa è la considerazione per chi era riuscito ad imporre la sua visibilità, figuriamoci gli altri. Sono tanti e tante, dipendenti delle piccole aziende e delle cooperative, precari a vario titolo, costretti al lavoro nero. Sono dispersi, atomizzati e disorganizzati, faticano a riconoscersi tra di loro. Insomma, non esprimono forza, potere e dunque sono invisibili, non esistono.
A Milano non manca il lavoro, manca il lavoro decente. Milano è diventata la capitale della precarietà. La fotografia più recente è quella fornita dalla Camera del Commercio: nel 2009 soltanto il 18,4% dei nuovi contratti di lavoro era a tempo indeterminato, il resto era precario.
Lavoratori e lavoratrici soprattutto giovani, sottopagati, senza tutele e welfare efficaci, esposti a ogni ricatto. E i primi a pagare la crisi. Si affaccia così una nuova povertà giovanile, che va ad aggiungersi a quella di molti anziani e al dramma degli over 50 (o 40) espulsi dalle aziende. Ma a Palazzo Marino pensano ad altro.
Milano è anche terra di immigrazione. Vent’anni fa i residenti stranieri si contavano in qualche decina di migliaia, oggi l’anagrafe ne registra 200mila, il 15% del totale.
E sta arrivando la seconda generazione, cioè i nuovi milanesi. In una città che invecchia, il 21% dei 193mila minori di 18 anni ha cittadinanza straniera. Una multietnicità irreversibile, insomma.
Un’opportunità o un problema? Tanti milanesi pensano che sia un problema e soprattutto lo ripete, incessantemente, chi governa il territorio.
E così, quel problema impatta con la solitudine urbana, la precarietà diffusa, le nuove povertà, un welfare sempre più magro e impotente. E ora anche con la crisi economica ed occupazionale. Crescono paure, insofferenze e rancori. La guerra tra i poveri è sempre in agguato, mille conflittualità covano.
A questa poltiglia le destre hanno fornito una risposta. Non un sogno o una speranza, né un progetto di coesione sociale, bensì la militarizzazione dei problemi e delle coscienze. L’hanno chiamata sicurezza e porta tanti voti, anche se non risolve mai i problemi, anzi. È l’emergenza continua che si autoalimenta, che costringe ad alzare sempre di più il tiro, a spararla più grossa ancora, perché il meccanismo non si inceppi.
Il bersaglio principale è ovviamente l’immigrato e spesso si sconfina nella xenofobia e nel razzismo, quasi sempre quando si tratta di rom.
Certo, ormai queste cose accadono un po’ dappertutto in Italia, ma è stata Milano a fare da apripista. Sarkozy vi ha scandalizzati? Ebbene, allora ricordate che qui tre anni fa sdoganarono i roghi.
Ma la sicurezza è un discorso generale, non si limita a immigrati, emarginati o “diversi”. Va bene anche per i giovani, per esempio. Nel 2008, mentre qualcuno intascava allegramente mazzette per evitare i controlli alle discoteche della Milano da sniffare, fu varata l’ordinanza che vietava il consumo di lattine di birra in piazza.
L’ultima frontiera, però, dopo l’esercito in strada, è il coprifuoco. L’hanno inventato dopo i fatti di via Padova del febbraio scorso e consiste in chiusure anticipate di negozi e locali. L’hanno esteso anche ad altre due zone della città: la cosiddetta “Chinatown” e il Corvetto.
E, possiamo starne certi, il coprifuoco sarà uno dei piatti forti della campagna elettorale. Insieme al “no alle moschee” e agli sgomberi dei campi rom, ovviamente.
Due decenni di dominio delle destre hanno lasciato il segno a Milano. Ma oggi quel robusto sistema di potere appare anche stanco. Ha perso spinta e vigore, si sentono degli scricchiolii.
I litigi intestini aumentano, il bilancio dell’amministrazione Moratti è fallimentare e, soprattutto, si moltiplicano gli scandali che coinvolgono esponenti della destra cittadina e regionale, compresa l’indagine sulla ‘ndrangheta. Quella che si intravvede è una montagna di letame.
Eppure, sarebbe sciocco pensare che la destra sia al capolinea, perché se loro sono in difficoltà, allo stato lo è ancora di più l’opposizione.
Infatti, l’opposizione ha sofferto fortemente l’egemonia delle destre. Chi si è rifugiato nella replica delle vecchie formule, mentre Milano cambiava, finendo per essere magari nobile, ma politicamente irrilevante. E chi ha stretto patti con il diavolo, in nome del business, o rincorso la sicurezza della destra, finendo culturalmente subalterno e politicamente sconfitto.
La prima sfida che deve vincere l’opposizione è, dunque, quella con se stessa e con i suoi fantasmi. A Milano ci sono le resistenze, energie, idee e pratiche per cambiare, ma sono disperse e hanno bisogno di un centro di gravità.
Il punto non è quanto sia difficile mettere insieme un’alternativa, bensì che questa è necessaria ed urgente. Altrimenti, l’uscita dall’impasse la offriranno di nuovo da destra, stavolta nel segno del coprifuoco.
Con grande stupore abbiamo appreso che in Spagna, nei Paesi Baschi, sono stati arrestati questa mattina sette membri dell’organizzazione basca “Askapena”, tra cui anche Gabi Basañez, che avevamo conosciuto a Milano, il febbraio scorso.
Basañez era in Italia nel quadro di varie iniziative sulla situazione nei Paesi Baschi, tra cui anche la manifestazione milanese del 20 febbraio. Insomma, era qui in forma pubblica e legale, così come, peraltro, è assolutamente pubblica e legale l’organizzazione “Askapena”, che esiste da oltre 20 anni e che si occupa principalmente di far conoscere e sostenere la causa basca a livello internazionale.
Nel nostro breve incontro di febbraio, quando ero ancora in carica come Consigliere regionale della Lombardia, Basañez aveva insistito particolarmente sull’importanza di sostenere il processo di pace e sul fatto che la questione basca potesse e dovesse essere affrontata nel quadro del confronto politico e democratico.
Peraltro, anche gli altri sei arrestati, sono conosciuti bene nei Paesi Baschi perché hanno sempre lavorato sempre alla luce del sole.
Esprimamo la nostra preoccupazione per questi arresti, che avvengono proprio in un momento in cui si intravvedono nuovi spiragli per la ripresa dei negoziati e che sembrano voler riproporre quel metodo, già stigmatizzato anche a livello di Unione Europea, che considera ogni voce indipendentista come contingua a Eta e al terrorismo e dunque da illegalizzare.
Riteniamo essenziale per l’Europa che il popolo basco possa discutere e costruire liberamente e democraticamente il proprio futuro. E questo significa che devono finire sia la violenza armata, che l’illegalizzazione del dissenso.
Per questo ci appelliamo ancora una volta alle istituzioni italiane, locali e nazionali, perché in sede europea diano voce e sostegno al processo di pace.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
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